Nella folta compagine d’artisti che diede vita e forma al Barocco genovese, una delle posizioni oggi più riposte, anche se così non doveva essere al suo tempo, è quella occupata da Giovanni Bernardo Carbone, artista noto soprattutto per la sua attività di ritrattista, che gli procurò grandi onori nella Genova di metà Seicento e che, fatte ovviamente le debite proporzioni, rappresentava una sorta d’alternativa alla spettacolare ritrattistica di Van Dyck. “Che dire non dovrei”, scriveva Carlo Giuseppe Ratti nella sua Storia de’ pittori, scultori et architetti liguri, “del celebre Gianbernardo Carbone che co’ suoi belli ritratti fa tuttavia equivocare anco l’intendenti, col giudicarli di Vandych”. Certo, forse s’esagerava un poco nel sostenere che i ritratti di Carbone potevano esser scambiati per opere di Van Dyck, ma quel che è certo, è che l’attività del genovese contribuì a fare in modo che il modello del grande maestro fiammingo, oltre naturalmente a quello di Rubens cui pure Carbone aveva guardato, seguitò a rimanere per pressoché tutto il secolo quello preferito dall’aristocrazia genovese che voleva conservare l’effigie di sé.
Sarebbe tuttavia limitativo stringere il cerchio attorno all’attività di Carbone in maniera così netta, dacché il genovese ebbe modo di cimentarsi, e con esiti di ragguardevole qualità, anche in altri generi: Ratti c’informa che Carbone, che veniva da una famiglia facoltosa, appena decise d’avviar la propria carriera di pittore cominciò con “lavori d’argomenti storici o favoleggiati, di che molta lode n’avea sì per la giusta distribuzione delle figure, sì per le loro naturali movenze”. Né mancò nel suo curriculum un significativo filone religioso, che trova forse il suo apice nel San Luigi della basilica del Vastato, mentre sicuramente meno scenografica è un’altra pala citata dalle fonti antiche, la Visitazione dipinta per la chiesa di San Francesco a Lerici, dove tuttora s’ammira. Altri esiti raggiunge quello ch’è forse il suo principale capolavoro nella produzione destinata alla privata devozione, l’Adorazione dei Magi custodita al Museo dell’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova, ch’è certamente da annoverare tra quelle “alcune sue tavole che ben danno a divedere quanto degno seguace egli fosse dell’esimio Vandyk” di cui parlava Ratti, e che “in private case ancora si conservano”. Non conosciamo infatti la storia del dipinto prima del 1851, quando la tela pervenne all’Accademia col legato Monticelli. E l’attribuzione a Carbone, peraltro, è recente: fino al 1989 l’opera languiva in un grigio anonimato, e si deve a Mary Newcome la giusta assegnazione al pittore genovese. Qualcuno in passato pensò evidentemente di spacciarla per opera di Van Dyck, come hanno rivelato le iniziali “AV”, apocrife, emerse durante un recente restauro.
La scena dipinta da Carbone è piuttosto affollata: una Vergine dal profilo adolescenziale è seduta sulla sinistra e tiene con le mani il Bambino, seduto sulle sue ginocchia, colto mentre rovista nella coppa d’oro che gli viene offerta da Gaspare, il più anziano dei tre Magi, che col suo mantello vermiglione, lama di colore acceso che ravviva una scena in cui dominano le tonalità terrose, cattura l’attenzione dell’osservatore e la convoglia verso il centro della composizione. Dietro di lui troneggia la figura di Baldassarre, il giovane moro, anche lui con una coppa in mano, stretto in un mantello bianco annodato alla bell’e meglio sul petto, e ancor più indietro ecco Melchiorre, l’uomo di mezza età, che si sporge in avanti per osservare la scena e per offrire il suo dono, il piccolo balsamario con l’incenso, che tiene stretto tra le mani. Altre figure compaiono alle loro spalle, vediamo per esempio san Giuseppe di fronte a Melchiorre, mentre una tenda arancione, agganciata alla base della colonna che osserviamo sulla sinistra, s’apre a rivelare uno scorcio di paesaggio al tramonto sul fondo.
Ci troviamo dinnanzi a uno degli apici della produzione di Carbone. Ci sorprendono l’impostazione della scena, improntata a un felice e coinvolgente narrativismo, i giochi dei cangiantismi (s’osservino la veste della Madonna, la manica di Baldassarre con la luce che fa risaltare il velluto verde nella piega del gomito, o ancora la manica di Gaspare), la precisione nel caratterizzare i volti, tipica del resto d’un ritrattista. Daniele Sanguineti, nella sua monografia su Carbone, l’ha descritta come un’opera “di strabiliante qualità per la perizia nell’esecuzione realistica dei dettagli, come i gioielli dei Magi e le coppe cesellate che contengono i doni , e per la profonda accuratezza lenticolare conferita alle teste dei personaggi”, e come una tela capace di mostrare “il gusto di un pittore raffinato e abile, che modula la pasta pittorica con infinite variazioni ora per creare una magra stesura di fondo ora per conferire compatta luminosità agli incarnati (da quello lunare della Vergine a quello d’ebano di Baldassarre) per poi accendere i panneggi di cangiantismi preziosi e impastati, luminescenti e corposi quanto in un dipinto di Bernardo Strozzi”.
Sempre Sanguineti ha proposto di collocare il dipinto in un periodo vicino alla pala della Madonna della Misericordia realizzata nel 1665 per la parrocchiale di Celle Ligure: la simile resa della Vergine e del Bambino ha portato lo studioso a immaginare una datazione a quel torno d’anni. Quanto alle fonti figurative, son stati indicati riferimenti alle Adorazioni di Rubens conservate nella Sint-Janskerk di Mechelen e ai Musées Royaux des Beaux-Arts di Bruxelles. Per il mago moro, impossibile non pensare al grande ritratto di Elena Grimaldi, capolavoro di Van Dyck in cui la nobildonna è accompagnata da un servitore di carnagione scura che la ripara dal sole con un ombrello. Si potrebbe però ipotizzare un precedente molto più preciso per la tela di Carbone: è l’Adorazione dei Magi di Matthias Stomer oggi al Nationalmuseum di Stoccolma, dov’entrò nel 1914 come dono del nobile Adolf Tersmeden. Se ne conosce una variante che si trova al Musée des Augustins di Tolosa, ma quella svedese costituisce un riferimento decisamente più puntuale per Carbone, che riprende in maniera fedele l’idea compositiva e la disposizione dei personaggi: due linee diagonali che convergono verso gli occhi della Vergine e sulle quali si collocano le figure di Gaspare e del Bambino, nella linea bassa, e quelle di Melchiorre, Baldassarre e di san Giuseppe nella linea alta. Carbone introduce una variante spostando il padre putativo di Cristo vicino ai due magi e lasciando dunque privo di figure lo spazio sopra la Madonna, sostituendo san Giuseppe con la tenda. Stom, a sua volta, aveva sicuramente guardato a Rubens, ma anche all’Adorazione dei Magi di Hendrick ter Brugghen del 1619, oggi al Rijksmuseum di Amsterdam, e soprattutto a quella di Theodoor van Loon oggi al Liechtenstein Museum di Vienna (curioso notare come in entrambe queste tele il Bambino si trovi a frugare nella coppa di Gaspare: il precedente è il Rubens di Mechelen).
Carbone guarda al precedente di Stomer, lo aggiusta, lo attualizza (l’opera del pittore di Amersfoort fu dipinta probabilmente a Napoli negli anni Trenta) e lo rilegge secondo la sua sensibilità, ma una ripresa che pare tradire una conoscenza puntuale del dipinto ci riporta al tema del collezionismo di Stomer a Genova, città dove non sono registrati passaggi dell’olandese, almeno per quel che sappiamo, ma che comunque non fu impermeabile alle suggestioni che provenivano dal suo pennello, come ha largamente dimostrato Antonio Gesino nel saggio scritto per il catalogo della mostra Caravaggio e i genovesi tenutasi nel 2019 a Palazzo della Meridiana. La presenza di opere di Stomer nelle raccolte dei nobili genovesi, soprattutto quelle del periodo palermitano “non deve sorprendere”, ha scritto Gesino: “molteplici e notevoli erano gli interessi economici delle famiglie liguri in Sicilia”. Non conosciamo i passaggi che l’Adorazione di Stomer conobbe prima di finire nella collezione del barone Tersmeden. Ma data la quasi sovrapponibilità con la splendida Adorazione di Carbone, non stupirebbe neanche scoprire eventualmente che l’opera di Stomer si trovava a Genova in un’epoca in cui Carbone poté vederla.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).