Se ci si fa caso, c’è un preciso momento a partire dal quale la produzione di Vincent van Gogh (Zundert, 1853 - Auvers-sur-Oise, 1890) si riempie di straordinarie nature morte che hanno per protagonisti dei coloratissimi bouquet di fiori: l’estate del 1886. In quel periodo, il pittore olandese frequentava, a Parigi, la galleria del mercante Joseph Delarebeyrette al numero 43 di rue de Provence, dietro suggerimento di un amico, lo scozzese Alexander Reid, più giovane di un anno, e che l’artista conosceva dai tempi del suo soggiorno a Londra dove, com’è noto, si era trasferito per lavorare nella locale sede della casa d’arte Goupil. Vincent aveva ritrovato Reid in quel periodo, dal momento che lo scozzese, figlio di un mercante di Glasgow, si era trasferito a Parigi per studiare l’arte francese, e per acquistare opere di artisti francesi. Tra le opere che Reid aveva comperato, figuravano quelle di un francese di origini italiane, Adolphe-Joseph-Thomas Monticelli (Marsiglia, 1824 - 1886), che era scomparso proprio nei primi giorni dell’estate del 1886, il 29 di giugno. Lo storico dell’arte Aaron Sheon ha ipotizzato che, proprio in quel frangente, e proprio nella galleria di Delarebeyrette, Vincent conobbe l’arte di Monticelli. Che ci sia un nesso tra Reid e Monticelli è noto anche dalle lettere di van Gogh: in una missiva inviata al fratello Theo il 24 febbraio 1888, Vincent scrive che Reid era riuscito a far aumentare le quotazioni dell’artista marsigliese, e la notizia era molto positiva per Vincent e suo fratello, che a quel tempo erano in possesso di cinque opere di Monticelli. Ma comunque sia andata, l’incontro tra van Gogh e Monticelli fu uno dei più proficui e utili della sua carriera.
Un incontro che, purtroppo per van Gogh, poté realizzarsi solo attraverso le opere: i due non si conobbero mai, probabilmente Vincent ancora non aveva visto i dipinti di Monticelli quando quest’ultimo scompariva. Ma grazie alle opere che era riuscito a procurarsi, si era fatto, in qualche modo, un’idea di come doveva essere l’uomo e l’artista. In una lettera inviata il 26 agosto del 1888 alla sorella Willemien, quando già il pittore aveva lasciato Parigi per trasferirsi ad Arles, fa menzione di un dipinto di Monticelli, un Vaso di fiori che si trovava a casa di Theo (e oggi è invece conservato al Van Gogh Museum di Amsterdam), rivolgendo una domanda retorica a Willemien: cosa si potrebbe dire del dipinto? “Era un uomo forte”, scriveva Vincent, “un po’ squilibrato, a volte anche un po’ tanto, e che sognava la luce del sole, l’amore e la felicità, ma che era sempre frustrato dalla sua condizione di povertà, un colorista dal gusto estremamente raffinato, un uomo di una specie rara, di quelli che portano avanti le migliori antiche tradizioni. È morto a Marsiglia, in modo piuttosto triste, e probabilmente dopo aver sofferto un vero calvario. Beh, io sono sicuro che sarò il suo continuatore, come se fossi suo figlio o suo fratello”.
E in effetti, Monticelli fu un artista piuttosto isolato, un artista ancor oggi poco noto, malgrado la grande originalità delle sue ricerche: un’originalità che tuttavia non fu ben interpretata dai suoi contemporanei, che ritenevano alquanto bizzarri i suoi dipinti, e per tal ragione i quadri di Monticelli, che l’artista stesso vendeva per pochi soldi, non ebbero mai molti acquirenti, e lo stesso van Gogh testimonia che il pittore morì in povertà (e presumibilmente solo). Si era formato con il più “estremo” dei pittori della scuola di Barbizon, il francese d’origini spagnole Narcisse Díaz de la Peña (Bordeaux, 1807 - Mentone, 1876), che compensava la teatralità delle sue vedute e il suo fascino ancora romantico per le foreste intricate e i paesaggi idilliaci con una tecnica fondata sulla rapidità di tocco e su di una pennellata più pastosa rispetto a quella dei suoi colleghi. Monticelli lo aveva incontrato nel 1853, e si trattò di una conoscenza fondamentale per la sua carriera, perché gli consentì di abbandonare la tradizione accademica nella quale si era formato e, al contrario, abbracciare una pittura più libera, quella per cui è diventato poi universalmente noto. Insieme, Díaz e Monticelli esploravano la foresta di Fontainebleau alla ricerca di scorci da dipingere nelle loro vedute. Il franco-spagnolo si era specializzato in dipinti di piccolo formato che solleticavano il gusto dei collezionisti del tempo: opere che raffiguravano bagnanti, ninfe o pastori immersi in paesaggi boschivi, che rinverdivano una tradizione seicentesca ma che affondavano anche le radici nella tradizione settecentesca della fête galante, che prevedeva la raffigurazione di eleganti scene di feste immerse tra verdeggianti foreste. Monticelli si spinse oltre, e nel periodo di revival della fête galante rococò (diversi pittori, come Emile Wattier, proprio in quegli anni si dedicarono a una ripresa, stanca e manierata ma in grado di soddisfare le aspettative dei compratori, del genere in cui eccelsero, un secolo prima, pittori quali Antoine Watteau, Nicolas Lancret e Jean-Honoré Fragonard), ibridò quest’ultima con la spontaneità della pittura barbizonnière, dando luogo a esiti innovativi ma che non furono pienamente compresi dai suoi contemporanei, che si limitarono a soprannominarlo “il Watteau della Provenza”, perché presto le “feste galanti” divennero il filone più importante e frequentato della sua produzione.
Narcisse Díaz de la Peña, Figure con cane in un paesaggio (1852; olio su tavola, 43,8 x 29,8 cm; New York, Metropolitan Museum) |
Narcisse Díaz de la Peña, Stagno a Fontainebleau (1875; olio su tavola, 45,4 x 55,7 cm; New York, Brooklyn Museum) |
Adolphe Monticelli, Signore in giardino (1870; olio su tavola, 38,7 x 61,7 cm; Liverpool, Walker Art Gallery) |
Adolphe Monticelli, Scena in un giardino (1875-1878 circa; olio su tavola, 39,4 x 61,9 cm; New Haven, Yale Art Gallery) |
In realtà, Monticelli era qualcosa di più di un semplice epigono di Watteau e colleghi. Avvicinatosi, come s’è visto, alla pittura della scuola di Barbizon già negli anni Cinquanta, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo aveva già maturato una piena comprensione delle novità degli impressionisti (il marsigliese era infatti presente a Parigi attorno al 1870), anche se da questi ultimi lo dividevano molte divergenze, a cominciare dall’uso della luce che in Monticelli è molto più pesante e opprimente (l’esatto contrario di ciò che avviene nei dipinti impressionisti), e dal tono stesso della composizione: quando Monticelli immaginava le sue opere, più che all’istantanea di un’impressione, pensava a una sinfonia musicale (il celebre critico Camille Mauclair, nel 1902, riportava una riflessione di Monticelli, che diceva essergli stata riferita da altri, secondo i quali il pittore di Marsiglia un giorno avrebbe detto che “quello che i miei dipinti raffigurano, donne, parchi, pavoni o fiori, non sono altro che decorazione, mentre i colori sono l’orchestra, e la luce è il tenore”). Sperimentazione dopo sperimentazione, provando una grande varietà di soggetti, in maniera progressiva, Monticelli arrivò, negli anni Settanta, all’elaborazione di uno stile che mai s’era visto, del tutto personale, fatto di pennellate ricche e pastose, con dettagli spesso in rilievo, colori caldi e intensi, memori della pittura di Delacroix, il tutto regolato da un forte senso d’armonia. Una pittura che, a giudicare da quanti lo apprezzavano (van Gogh su tutti), era in grado di dar corpo alle sensazioni che l’artista provava (anche se probabilmente era nata con l’intento di far somigliare le scene galanti a preziosi arazzi: la tecnica poi aveva conosciuto ulteriori evoluzioni fino ad arrivare a quella materia così corposa che van Gogh amava). “Ripenso a quello che cercavo prima di arrivare a Parigi”, scriveva Vincent in una lettera a Theo da Arles, il 18 settembre 1888, “e non so se qualcuno prima di me abbia mai parlato di ‘colore suggestivo’. Ma Delacroix e Monticelli, anche senza averne parlato, lo hanno fatto”. E i fratelli van Gogh, in effetti, hanno sempre dimostrato un certo entusiasmo nei confronti dell’arte del marsigliese.
Il Vaso di fiori oggi al Van Gogh Museum di Amsterdam probabilmente era un regalo che Reid aveva fatto a van Gogh: scopo dello scozzese era infatti quello di diffondere la conoscenza dell’arte di Monticelli, anche se non per fini culturali: Reid aveva scommesso molto su Monticelli e desiderava farne aumentare le quotazioni... e sarebbe finito per riuscirci, come van Gogh stesso afferma nella lettera sopra riportata. Inoltre, il Vaso di fiori viene spesso citato nella sua corrispondenza, ed è un’opera che Vincent e Theo ammiravano molto. La luce che arriva da sinistra fa risaltare i colori definendo, quasi a rilievo, un vaso dal corpo che somiglia quasi a un mosaico, collocato in posizione leggermente decentrata per spezzare la simmetria della composizione. La profondità è semplicemente suggerita dall’ombra lunga proiettata sul tavolo. I fiori vengono costruiti attraverso pennellate corte e dense, stese in maniera rapida e irregolare, senza rifiniture. Il Vaso di fiori è un dipinto che riesce a rinnovare un genere particolarmente in auge nella Francia del tempo, e l’autore riuscì a donare ai suoi fiori una brillantezza e una freschezza nuove, che suscitarono grande apprezzamento da parte di Vincent. Sono fiori che vibrano: di questo, van Gogh era pienamente consapevole. Quando pensava al Vaso di fiori, avvertiva che Monticelli era, a suo avviso, l’unico artista in grado di percepire il colore con tanta intensità: i fiori somigliano a gemme preziose, palesano un’inedita ricchezza cromatica, emergono dal quadro grazie alla particolarissima tecnica di Monticelli, alla quale van Gogh cercò di rifarsi. È in una missiva inviata ancora a Theo, da Arles, il 25 marzo del 1888, che Vincent descrive quello che prova guardando il Vaso di fiori di Monticelli. Il pittore scrive al fratello a proposito del fatto che un loro conoscente, il mercante olandese Hermanus Gijsbertus Tersteeg, che lavorava da Goupil, aveva manifestato l’intenzione di acquistare un quadro del francese. “Dovresti dirgli”, scriveva Vincent al fratello, “che nella nostra collezione noi abbiamo un bouquet di fiori che è più artistico e più bello di un bouquet di Díaz. Che Monticelli a volte prendeva un bouquet di fiori per riunire, su di un solo quadro, tutta la gamma delle sue tonalità più ricche e colorate. Che bisogna tornare direttamente a Delacroix per trovare un livello simile di orchestrazione di colori. E che noi conosciamo un altro bouquet di qualità molto buona e a un prezzo ragionevole (parlo del quadro che sta da Delarebeyrette), e che lo riteniamo di molto superiore ai quadri con figure di Monticelli”.
Monticelli può esser considerato tra gli artisti capaci di suggestionare van Gogh al punto da fargli cambiare completamente il modo di dipingere. Vincent, dopo un lungo soggiorno a Nuenen (è il periodo delle opere “contadine”, come I mangiatori di patate), e dopo aver fatto tappa per qualche tempo ad Anversa, dove aveva conosciuto le stampe giapponesi diventandone fortemente appassionato, agli inizî del 1886 aveva raggiunto Theo a Parigi: il fratello, che lavorava nella capitale francese, aveva fortemente caldeggiato il trasferimento di Vincent in quanto a Parigi avrebbe potuto frequentare uno dei più ferventi centri artistici del mondo, con tutto ciò che ne sarebbe conseguito. A Parigi, la tavolozza di Vincent si schiarì e si fece più luminosa, le atmosfere divennero più leggere, e la sua pennellata raggiunse un’immediatezza nuova, le cui premesse sono sì da ricercare a Nuenen, ma che a Parigi ebbe modo di maturare e di esprimersi al meglio. Uno dei primi dipinti in cui si nota la svolta della pittura di van Gogh (oltre che la dipendenza da Monticelli) è il Vaso con zinnie e altri fiori, eseguito nell’estate del 1886 e oggi conservato alla National Gallery of Canada di Ottawa, dove si trova dal 1950 a seguito di un acquisto. Non sappiamo se questo sia stato davvero il primo dipinto a tema floreale realizzato da van Gogh, che com’è noto ebbe una grande passione per i fiori, divenuti nel 1886 soggetto privilegiato della sua arte: gli amici spesso glieli compravano affinché li dipingesse, e lui stesso era solito acquistare bouquet di fiori poco costosi per i fini della sua pittura. Ma di sicuro è tra quelli più vicini a Monticelli, nonché tra i primi di una lunga serie, che sarebbe andata avanti per un paio d’anni. Perché van Gogh fosse così interessato ai fiori, lo ha ben spiegato Theo scrivendo alla madre proprio nel luglio del 1886: il pittore cercava una nuova vividezza per la sua arte, intendeva sperimentare colori più brillanti. I fiori di van Gogh, del resto, si possono considerare tra i più gioiosi dei suoi lavori, e questo tipo di pittura fece bene anche al suo carattere, dal momento che lo stesso fratello testimoniava che, in quel periodo, Vincent era diventato più spensierato rispetto al passato, e più apprezzato dalla gente che aveva a che fare con lui.
Adolphe Monticelli, Vaso con fiori (1875 circa; olio su tavola, 51 x 39 cm) |
Vincent van Gogh, Vaso con zinnie e altri fiori (1886; olio su tela, 50,2 x 61 cm; Ottawa, National Gallery of Canada) |
Non potendosi permettere di pagare modelli che posassero per lui, Vincent ripiegava sui fiori (non è una supposizione: era stato lui stesso a dichiararlo). E per qualche tempo cercò di dipingerli con la stessa tecnica impiegata da Monticelli e con gli stessi elementi: il vaso “canadese” ne è un chiaro esempio. Il contenitore è appoggiato su di un tavolo chiaro, che riflette però la luce (si vedano le pennellate sulla sua superficie, più distese e compatte rispetto a quelle del bouquet), qualche bagliore si sofferma sulla ceramica esattamente come accadeva nei vasi di Monticelli, e i fiori si stagliano sopra un fondo cupo che fa risaltare lo splendore dei loro colori. Non c’è parsimonia nell’uso del colore, che viene steso in gran quantità per delineare il profilo dei fiori con pennellate tozze ma luminose (e con lo stesso colore declinato in gamme leggermente diverse per conferire un maggior senso del movimento), in grado di dar quasi vita ai fiori. Si osservi come le zinnie di van Gogh siano vicine a un altro dipinto di Monticelli, il Bouquet conservato alla Phillips Collection: Duncan Phillips, il collezionista che radunò l’importante raccolta, riteneva che Monticelli fosse l’anello di congiunzione tra Delacroix e van Gogh. Ed era lo stesso pittore olandese che, del resto, reputava Monticelli vicino al grande pittore romantico francese. Probabilmente Monticelli conosceva la teoria dei colori di Delacroix, che adoperava i contrasti tra le diverse tonalità per accentuare gli effetti drammatici dei suoi dipinti e per comunicare un’atmosfera o una sensazione, e accostava i colori complementari per ottenere una maggiore luminosità (non a caso, Delacroix aveva a lungo studiato i dipinti di Paolo Veronese, il più grande di sempre nell’uso dei colori complementari). “Monticelli, colorista logico”, scriveva Vincet a Theo da Arles il 1° luglio del 1888, “capace di seguire i calcoli più ramificati e suddivisi sulla gamma delle tonalità delle quali cercava l’equilibrio, di sicuro ha lavorato lambiccandosi il cervello, come avevano fatto sia Delacroix sia Richard Wagner”. E ancora: “penso spessissimo a quell’eccellente pittore di Monticelli, che secondo la gente era un ubriaco, un pazzo, quando mi vedo tornare da quella grande fatica mentale nel bilanciare i sei colori essenziali, il rosso, il blu, il giallo, l’arancio, il violetto, il verde”. I risultati di questa fatica furono, all’inizio, opere come il Vaso con zinnie e altri fiori di Ottawa, o anche come il Vaso con garofani del Museum Boijmans van Beuningen di Rotterdam, o il Vaso con fiordalisi, papaveri, peonie e crisantemi oggi al Kröller-Müller Museum di Otterlo, e ancora il Bacile con girasoli, rose e altri fiori della Kunsthalle di Mannheim (questi ultimi due caratterizzati da un’intensa sperimentazione sui colori complementari).
Per van Gogh, i fiori erano, in sostanza, un soggetto su cui continuare a esercitarsi, tanto che, nella sola estate del 1886, si contano circa trentacinque nature morte con fiori realizzate dal pittore olandese. Col trascorrere degli anni, la pittura di van Gogh si sarebbe poi staccata da quella così fedele a Monticelli per diventare più stilizzata, più tormentata, più espressionistica: ne è un esempio il Bouquet di fiori in un vaso oggi conservato al Metropolitan Museum di New York, dipinto peraltro abbastanza difficile in quanto non menzionato nella corrispondenza di van Gogh, e che viene variamente datato: c’è chi lo ritiene opera realizzata tra il 1886 e il 1887, e chi invece lo considera dipinto realizzato negli ultimi mesi della sua vita, nel 1890 dal momento che condivide molti elementi con i paesaggi che Vincent dipinse a Auvers-sur-Oise: la gamma cromatica, la stesura più fitta e “geometrica”, le pennellate sinuose e svirgolanti, il modellato dal sapore più grafico che pittorico. Lo storico dell’arte Joseph J. Rishel, già curatore al Philadelphia Museum of Art, in una pubblicazione sulla Annenberg Collection del Metropolitan New York (il nucleo che conserva l’opera sopra menzionata), traccia un paragone tra il Bouquet di fiori in un vaso e il Vaso di fiori di Monticelli che i fratelli van Gogh avevano nella loro collezione. “Monticelli”, scrive Rishel, “ha la stessa densità di van Gogh, i contrasti di colori stesi con rapidità, dal buio alla luce (senza calcoli sui colori complementari), e tutto su di una superficie che è coperta con con colpi di pennello che presentano lo stesso grado d’impasto. Ma l’immagine di Monticelli, che proietta un’ombra, è realizzata con meno intensità di quella di van Gogh, che spazialmente è più disegnata sulla superficie. In van Gogh, il tavolo, e l’immagine stessa, si dissolvono in colpi di pennello tratteggiati, il che dona al dipinto una qualità più visionaria e meno studiata al confronto di quella di Monticelli, anche se nei dipinti del più anziano artista van Gogh trovò (come avrebbe trovato nei dipinti di Delacroix) la via per lasciare sia la sua precedente maniera, più scura, sia i dipinti coloristicamente più analitici dei suoi contemporanei”.
Adolphe Monticelli, Bouquet (1875 circa; olio su tavola, 69,2 x 49,2 cm; Washington, Phillips Collection) |
Vincent van Gogh, Vaso con garofani (1886; olio su tela, 40 x 32,5 cm; Rotterdam, Museum Boijmans van Beuningen) |
Vincent van Gogh, Vaso con fiordalisi, papaveri, peonie e crisantemi (1886; olio su tela, 99 x 79 cm; Otterlo, Kröller-Müller Museum) |
Vincent van Gogh, Bacile con girasoli, rose e altri fiori (1886; olio su tela, 50 x 61 cm; Mannheim, Kunsthalle) |
Vincent van Gogh, Bouquet di fiori in un vaso (1887?; olio su tela, 65,1 x 54 cm; New York, Metropolitan Museum) |
Vincent van Gogh, Girasoli (1888; olio su tela, 92,1 x 73 cm; Londra, National Gallery) |
Le ricerche di van Gogh avrebbero poi condotto alla sua serie più famosa, quella dei Girasoli, capaci di coniugare il caldo sole del Midi, il sud della Francia dove l’artista si era trasferito nel 1888, e gli esperimenti sul colore che l’artista conduceva a Parigi da un paio d’anni. Ci sono connessioni tra Monticelli e i Girasoli, e ne troviamo traccia nella lettera che van Gogh scrisse a Willemien, di cui s’è parlato sopra. In questa missiva, il pittore raccontava alla sorella del suo ultimo progetto: stava realizzando un dipinto raffigurante un vaso di girasoli. Quello che oggi è conservato alla National Gallery di Londra e che è diventato uno dei suoi dipinti più famosi. Si tratta di una delle cinque versioni conosciute del dipinto (oltre a quella giapponese distrutta e a una conservata in una collezione privata americana) che si trovano custodite nei musei di tutto il mondo. Scegliendo questi fiori come soggetto, Vincent van Gogh voleva esprimere la bellezza della natura, il calore del sud, e probabilmente anche diversi sentimenti: la gratitudine, la felicità, il senso di amicizia. In questa sede possiamo limitarci a dire che, con i suoi Girasoli, van Gogh intendeva anche stabilire, espressamente, una connessione ideale con Monticelli, con l’artista, con l’uomo.
La lettera a Willemien è ancora la chiave per comprendere questo suo senso di deferenza nei confronti dello sfortunato pittore francese. Come s’è visto, Vincent aveva dichiarato di sentirsi il suo continuatore. E più avanti, avrebbe non solo spiegato perché, ma anche perché intendeva farlo proprio con i Girasoli. Vincent scriveva infatti alla sorella, quel 26 agosto del 1888, nel pieno dell’estate provenzale, che “Monticelli è un pittore che ha reso il Midi con i suoi gialli pieni, con i suoi arancioni pieni, con il suo color zolfo pieno. La maggior parte dei pittori, non essendo coloristi propriamente detti, non vedono questi colori, e ritengono folle il pittore che vede con altri occhi rispetto ai loro. C’è da aspettarselo. Così io ho già preparato un dipinto tutto giallo, di girasoli (quattordici fiori), in un vaso giallo, contro un fondo giallo. E mi aspetto di esporlo un giorno o l’altro a Marsiglia. E vedrai che ci sarà qualche marsigliese, o qualcun altro, che ricorderà quello che Monticelli un tempo faceva e diceva”.
Bibliografia di riferimento
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo