A Lucca, tra gli splendori di Palazzo Mansi e del suo Museo Nazionale


Il Museo Nazionale di Palazzo Mansi ha una doppia anima: il palazzo nobiliare dei Mansi, una delle più ricche famiglie della Lucca antica, e la pinacoteca, che ospita una ricca raccolta in grado di rievocare il gusto collezionistico e le vicende storiche della città.

Era stato a Lucca, il padre della letteratura realista americana. William Dean Howells era arrivato a Lucca un giorno d’aprile, partito da Pisa sotto a un sole che già alle otto del mattino gli era parso caldo e nauseante, lui ch’era abituato al freddo del New England e si sgomentava pensando a come sarebbe stato veder la Toscana d’agosto. Aveva preso alloggio all’Universo (o forse in un altro hotel, non ricordava) e il giorno dopo era subito sprofondato tra i vicoli antichi di Lucca, per respirare l’aria di quella città ch’era stata capitale d’una repubblica indipendente per quasi mille anni, capace di mantenere intatte le sue antiche libertà fino al tempo della Rivoluzione francese. Piazza Napoleone non gli era parsa granché: “una vasta piazza polverosa, con qualche sicomoro capitozzato, e un enorme, brutto palazzo con solo una discreta galleria di quadri, di fronte alla polvere e ai sicomori”. La Lucca medievale lo aveva impressionato più della Lucca ducale: la Cattedrale, San Frediano, San Michele in Foro, la collezione archeologica che si trovava dentro Palazzo Pretorio, la torre Guinigi, piazza Anfiteatro e il mercato con le bancarelle che vendevano seta (“c’è molta più seta a Lucca che a Boston”), l’olio di Lucca, le mura. E poi Palazzo Mansi, l’unico palazzo lucchese che Howells era riuscito a vedere per bene. Si chiudeva proprio con Palazzo Mansi il suo resoconto della visita alla città. E Howells si diceva contento “di essere plebeo e di essere americano”, ma se fosse stato messo alle strette, se qualcuno magari gli avesse prospettato un’altra opzione, allora gli sarebbe piaciuto essere “un signore di Lucca, un marchese, un Mansi”.

Dall’esterno non è facile notare Palazzo Mansi. È il primo d’una serie di edifici che, uno dopo l’altro, si susseguono lungo via Galli Tassi, una strada cupa, poco frequentata e neppure molto centrale. È austero, non ci sono elementi decorativi particolari, l’aspetto è quasi dimesso. L’ingresso è però un poco più largo rispetto a quello degli altri palazzi, e se ci si fa caso, basta fare qualche passo all’indietro, si noterà un corpo di fabbrica dalle dimensioni decisamente più imponenti rispetto a quelle degli altri palazzi, le finestre modanate che si succedono con equilibrata regolarità, i marcapiani che corrono lungo tutta la facciata e già dall’esterno suggeriscono l’altezza dei soffitti delle sale. E in effetti tutti i viaggiatori che si sono soffermati a Palazzo Mansi non han potuto far a meno di notare il disaccordo tra la sobrietà di quel che si vede fuori e lo splendore di quel che c’è dentro. Un palazzo magnifico. La dimora d’una delle famiglie più ricche di Lucca. Era così a inizio Novecento, quando Howells scriveva. Era così nel Seicento, quando i Mansi comprarono questo palazzo e poi, sul finire del secolo, lo rinnovarono accorpando diverse case vicine e trasformandolo in una residenza sontuosa. È così oggi, anche se della splendida collezione che un tempo adornava queste sale oggi non rimane quasi più niente. Sono andati dispersi quasi tutti i dipinti dei Mansi. Se ne sono andati i Mansi, che hanno venduto il loro palazzo allo Stato nel 1965. È rimasto in silenzio il Salone della Musica, dove c’immaginiamo le feste, i ricevimenti, i Mansi che accolgono i loro ospiti mentre l’orchestra suona dal palchetto di legno scaldando le serate della nobiltà che qui conveniva, specialmente quando toccava riverire qualche personalità illustre giunta per soggiornare nelle stanze del palazzo. Rimane però il senso di quella prosperità ch’è sempre stata il marchio di Lucca nei secoli e che si riflette qui dentro, tra gli stucchi dell’appartamento di parata, sotto agli affreschi che celebrano lo status della famiglia, in mezzo all’Eneide di Giovan Gioseffo del Sole che copre tutte le pareti dello spettacolare Salone della Musica. E oggi, ogni tanto, quando il Museo Nazionale di Palazzo Mansi organizza i pomeriggi musicali, quel Salone risuona per un altro pubblico. Non più per gli amici dei Mansi: per tutti.

Howells era rimasto impressionato dalla ricca collezione di dipinti olandesi del marchese Mansi, era la prima cosa che aveva appuntato nel suo racconto del palazzo. Sono le opere che un antenato della famiglia, Girolamo Parensi, aveva ricevuto in dote nel 1675 sposando Anna Maria Van Diemen, figlia d’un mercante olandese che Girolamo aveva conosciuto durante un lungo soggiorno di lavoro ad Amsterdam: i loro ritratti sono ancora qui, al pianterreno del Palazzo. I Parensi erano a capo d’un’azienda attiva nel settore del commercio dei tessuti, le loro sete viaggiavano per tutta Europa, erano uno dei più solidi pilastri della loro ricchezza. Avevano un import export, diremmo oggi. Anche i Mansi, che per via matrimoniale ereditarono a inizio Ottocento la raccolta dei Parensi, lavoravano nel tessile, anche loro erano commercianti. La vocazione della famiglia è tenuta ancor oggi viva dal Laboratorio di tessitura rustica “Maria Niemack”, installato al pianterreno di Palazzo Mansi: è dedicato all’imprenditrice che, a metà Novecento, recuperò la tecnica della tessitura rustica e che alla sua scomparsa, nel 1975, volle donare i telai al Museo Nazionale di Palazzo Mansi. E da qualche tempo un’associazione di volontari, “Tessiture Lucchesi”, che si propone di dar valore alla tessitura a mano tradizionale, ha rimesso in movimento quei telai. Da Palazzo Mansi esce così una piccola, pregiata produzione di sciarpe, scialli, canovacci e via dicendo.

Palazzo Mansi, la sala d'accesso al pianterreno
Palazzo Mansi, la sala d’accesso al pianterreno. Foto: Ministero della Cultura
La Galleria del Tofanelli
La Galleria del Tofanelli. Foto: Ministero della Cultura
Il Salone della Musica
Il Salone della Musica
Il Salone della Musica
Il Salone della Musica
La Pinacoteca di Palazzo Mansi
La Pinacoteca di Palazzo Mansi. Foto: Comune di Lucca
La Pinacoteca di Palazzo Mansi, sezione moderna
La Pinacoteca di Palazzo Mansi, sezione moderna
Il Sacrificio di Isacco di Ferdinand Bol
Il Sacrificio di Isacco di Ferdinand Bol. Foto: Ministero della Cultura
Il pollarolo di Pietro Paolini
Il pollarolo di Pietro Paolini

Della collezione olandese ereditata dai Mansi (anzi: della collezione in generale) non è invece rimasto quasi niente. Sopravvive poca roba: il dipinto più importante è un Sacrificio di Isacco di Ferdinand Bol appeso in una delle due anticamere degli appartamenti privati. La grande quadreria che s’incontra passato il Salone della Musica non ha niente a che vedere coi Mansi: sono i dipinti che vennero donati alla città nel 1847 da Leopoldo II di Lorena dopo che Lucca venne annessa al Granducato di Toscana. L’ultimo duca di Lucca, Carlo Ludovico di Borbone, s’era venduto gran parte delle collezioni per ripagare i debiti che aveva accumulato. A prezzi peraltro ridicoli. E uno dei più illustri pittori neoclassici della città, Michele Ridolfi, dopo l’annessione chiese al granduca di colmare quella lacuna che aveva mortificato la comunità lucchese. Leopoldo II si mostrò magnanimo e regalò a Lucca ottantadue dipinti: vennero esposti a Palazzo Ducale e vi rimasero fino al 1977, quando la Pinacoteca fu spostata a Palazzo Mansi, dopo che lo Stato acquistò l’edificio. Se allora oggi nella quadreria del Palazzo possiamo ammirare capolavori del Pontormo, di Salvator Rosa, di Domenico Beccafumi, di Guido Reni, del Tintoretto, di Luca Giordano, di Jacopo Vignali, di Paul Bril e di altri grandi della storia dell’arte, ecco, questo è il risultato d’una complessa sequenza di vicende storiche non sempre felici per la città. È una ferita risanata.

Anche i Mansi comunque non erano stati granché oculati con la loro raccolta. La collezione della famiglia col tempo è stata smembrata. Quello che oggi si vede nelle sale storiche è frutto di donazioni e acquisti successivi: sono opere che servono a offrire al visitatore la suggestione di quel che un ospite dei Mansi poteva vedere qui in tempi antichi. C’è da dire che i Musei Nazionali di Lucca hanno profuso un impegno encomiabile per acquistare dipinti per la collezione, secondo un preciso programma d’arricchimento studiato e seguito fin dagli anni Ottanta. Sotto la passata direzione di Maria Teresa Filieri sono arrivate opere che hanno cercato di ricucire il più possibile quel ch’era andato strappato, riportando a palazzo anche opere ch’erano state un tempo nella raccolta dei Mansi: nel 2008, per esempio, vennero acquistate due tele di Mario Nuzzi che facevano parte di una serie d’undici dipinti raffiguranti altrettante fioriere, il genere in cui s’era specializzato il pittore romano, che per questa sua peculiarità venne soprannominato “Mario dei Fiori”. Testimonianze importanti della ricchezza dei Mansi, dal momento che Nuzzi era uno dei pittori più richiesti e più pagati del suo tempo, e soltanto un famiglia facoltosa poteva permettersi i suoi lavori. Due anni dopo è poi arrivato uno dei capolavori della raccolta, il bozzetto su tela di Stefano Tofanelli per il Carro del sole che orna il salone centrale della Villa Mansi di Segromigno, non lontano da Lucca (è a Tofanelli, peraltro, che si deve la splendida Galleria degli Specchi di Palazzo Mansi, l’elegante ambiente neoclassico che accoglie i visitatori al piano nobile). L’opera è andata a rinfoltire la sezione della pinacoteca, situata al secondo piano di Palazzo Mansi, che documenta le arti a Lucca tra la fine del Settecento e la metà del Novecento, offrendo al visitatore uno spaccato fondamentale per comprendere come in questo lasso di tempo si sia modificato il gusto in città, cosa ordinasse la committenza, e soprattutto quanto sia stata sempre vivace, pur in un periodo così lungo, la scuola artistica locale.

In passato la raccolta dei Mansi doveva esser qualcosa di favoloso. Un altro viaggiatore, il pittore tedesco Georg Christoph Martini, aveva scritto nel 1731 d’una sua visita a Palazzo Mansi, da non intendersi però come il palazzo di via Galli Tassi: Martini era stato in quello che oggi è noto come Palazzo Tommasi, di fianco alla chiesa di Santa Maria Forisportam, dall’altra parte della città. All’epoca era proprietà dei Mansi, e Martini sosteneva d’averci visto, oltre a “preziosi tappeti del Brabante” e a “teli da parata che per la festa del Corpus Domini vengono esposti alle finestre”, anche “notevoli dipinti di Michelangiolo da Caravaggio”. Che Martini abbia parlato di Caravaggio, non deve stupire: intanto, perché quando non si conosceva il nome dell’autore d’un dipinto, era piuttosto frequente che l’opera venisse attribuita con disinvoltura a un artista famoso. Valga l’esempio della Deposizione di Pietro Paolini che s’ammira nella vicina chiesa di San Frediano e che in passato venne attribuita allo stesso Caravaggio. E poi perché il Merisi, nel Settecento, non godeva d’una gran considerazione. La critica non gli riservava quell’attenzione che ha cominciato a dedicargli dagli anni Cinquanta del Novecento in poi, e se una cosa s’avvicinava ai suoi modi non pareva così strano assegnarla a lui. E ad ogni modo, anche se i Mansi non avevano opere di Caravaggio, avevano opere di caravaggeschi: nei loro inventarî sono attestati, per esempio, alcuni lavori di Pietro Paolini, ch’è stato il più fine e originale interprete del caravaggismo in terra di Lucca. Caravaggismo che, tra le mura della città, ebbe tanti seguaci. C’erano poi opere di Angelo Caroselli, di Dirck van Baburen, di artisti che dunque potevano tranquillamente esser equivocati per Caravaggio in un periodo storico nel quale non ci si curava granché delle ricostruzioni filologiche. Due opere di Paolini sono state peraltro acquistate in tempi recenti per le collezioni di Palazzo Mansi: il Mondinaro e il Pollarolo sono appesi dal 2000 negli appartamenti privati.

La Sacra Famiglia un tempo attribuita a Van Dyck
La Sacra Famiglia un tempo attribuita a Van Dyck
Gli arazzi dell'appartamento di parata
Gli arazzi dell’appartamento di parata. Foto: Comune di Lucca
Gli arazzi dell'appartamento di parata
Gli arazzi dell’appartamento di parata. Foto: Comune di Lucca
L'alcova
L’alcova. Foto: Ministero della Cultura
L'alcova
L’alcova
I tessuti del letto nell'alcova
I tessuti del letto nell’alcova

Nella stessa sala che accoglie le due scene di genere di Pietro Paolini s’ammira poi una Sacra Famiglia che in passato era attribuita a Van Dyck: assieme al Sacrificio di Isacco di Bol è l’unica opera superstite della dote di Anna Maria Van Diemen. La storia del dipinto è piuttosto avventurosa: andò dispersa assieme al resto delle collezioni dei Mansi, fu venduta all’asta nel 1970 dalla famiglia Cenami-Spada, e in quell’occasione fu acquistata dal Comune di Lucca che decise di restituirla al palazzo da dove proveniva. È una copia di quella di Rubens che oggi è conservata al Prado, non sappiamo chi sia l’autore. Ma soprattutto è testimone del gusto collezionistico dei Mansi, ed è testimone del lavoro che nei musei si fa per ricostruire i contesti, per evocare quel ch’è andato perduto. E poi, questo dipinto in passato doveva esser tenuto in una certa considerazione: in una popolare guida inglese dell’Ottocento, il Murray’s Handbooks for Travellers, la Sacra Famiglia era indicata come uno degli elementi di spicco del palazzo. Assieme agli arazzi fiamminghi.

Sono quelli appesi alle pareti delle quattro camere da parate che conducono all’alcova, alla camera da letto dove, nella finzione cinematografica, dormiva il marchese del Grillo nel film con Alberto Sordi. Sotto agli affreschi di Giovanni Maria Ciocchi, che in mezzo alle quadrature di Marcantonio Chiarini dipinse le allegorie dei quattro elementi, verso la fine dell’Ottocento il marchese Raffaele Mansi Orsetti volle sistemare quel grandioso ciclo d’arazzi seicenteschi che illustrano le Storie di Aureliano e Zenobia, aggiungendoci anche qualche pezzo non coerente, con le storie di Antonio e Cleopatra, identificati dalla scritta “pars accomoda”, a indicare ch’eran stati usati per colmare delle lacune. Un antenato di Raffaello, Ottavio Mansi, aveva comperato gli arazzi con le storie di Zenobia nelle Fiandre. È guardando questi arazzi, opera di Geraert Peemans della manifattura di Bruxelles su disegno di un allievo di Rubens, Justus van Egmont, che s’arriva al cuore di Palazzo Mansi, all’alcova, rimasta com’era quando Carlo Mansi, in occasione del suo matrimonio con Eleonora Pepoli, volle trasformarla in un ambiente d’alto impatto scenografico, con la serliana progettata dall’architetto Raffaele Mazzanti, in legno scolpito e dorato, le quattro cariatidi che immettono nella stanza coperta da tappezzerie in raso dorato, dove al centro spicca il baldacchino con rami, pappagalli azzurri, parrocchetti, passeri, merli, quaglie, pennuti di tutti i tipi appollaiati tra i melograni, i tulipani, le rose, i giaggioli, i garofani, i grappoli d’uva. È forse questa stanza l’immagine più evidente di come i Mansi vedevano se stessi, e di come volevano che fossero visti. Tant’è che di solito non la usavano. Se la lasciavano per le occasioni speciali, oppure per gli ospiti illustri. Il re di Danimarca, Federico IV, per esempio. Oppure il granduca Gian Gastone de’ Medici. Principi, duchi e re che dormirono su questo letto, che doveva sorprendere i visitatori antichi come sorprende quelli di oggi.

Di recente, la direttrice dei Musei Nazionali di Lucca, Luisa Berretti, ha fatto sottoporre l’alcova a un’accurata pulitura seguita al consolidamento dei tessuti, operazione, condotta dalla ditta RTBP, che ha fatto risplendere gli ori offuscati. Un intervento che ha seguito quello del 2021, quando è stato inaugurato il nuovo impianto d’illuminazione degli arazzi secenteschi, realizzato dalla ditta ZR Light con Erco Illuminazione, con l’obiettivo d’esaltare i colori, far risaltare i dettagli di quei panni che raccontano la storia della principessa di Palmira. Pensare che erano stati un acquisto sbagliato: Ottavio Mansi aveva chiesto a un suo agente nelle Fiandre, Ascanio Martini, di comprare delle tovaglie. E quello, non si sa perché, non si sa cos’avesse capito, gli spedì questi splendidi arazzi. Il marchese poi cercò di rivenderseli, senza riuscirci. E forse è andata bene così.


Se ti è piaciuto questo articolo abbonati a Finestre sull'Arte.
al prezzo di 12,00 euro all'anno avrai accesso illimitato agli articoli pubblicati sul sito di Finestre sull'Arte e ci aiuterai a crescere e a mantenere la nostra informazione libera e indipendente.
ABBONATI A
FINESTRE SULL'ARTE

Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).




Commenta l'articolo che hai appena letto



Commenta come:      
Spunta questa casella se vuoi essere avvisato via mail di nuovi commenti





Torna indietro



MAGAZINE
primo numero
NUMERO 1

SFOGLIA ONLINE

MAR-APR-MAG 2019
secondo numero
NUMERO 2

SFOGLIA ONLINE

GIU-LUG-AGO 2019
terzo numero
NUMERO 3

SFOGLIA ONLINE

SET-OTT-NOV 2019
quarto numero
NUMERO 4

SFOGLIA ONLINE

DIC-GEN-FEB 2019/2020
Finestre sull'Arte