Siamo ormai abituati, anche per via degli eccessi della retorica dei mezzi di comunicazione, della politica e della pubblicità, ad associare l’arte alla bellezza: niente di più errato. Fin da tempi antichissimi, l’arte ha raccontato le peggiori bassezze dell’essere umano: violenza, omicidî e uccisioni varie, stupri, guerre. In questa nuova galleria di immagini costruiamo una piccola storia dell’arte violenta e raccapricciante attraverso quindici opere che ci parlano di brutalità ed efferatezza, dal Medioevo fino al Novecento.
1. Duccio di Buoninsegna, Strage degli innocenti, dalla Maestà di Siena (1308-1311; tempera su tavola, 220 x 412 cm; Siena, Museo dell’Opera del Duomo)
La Strage degli innocenti, uno degli episodî più noti della vita di Gesù e in particolare della sua infanzia, ha dato modo a moltissimi artisti di riversare sulla tela o sulla tavola un vasto campionario di ferine efferatezze e sguardi atterriti o sgomenti. Uno dei primi a offrire una raffigurazione molto fosca dell’episodio è il grande senese Duccio di Buoninsegna (Siena, 1255 circa - 1319), che nel 1308 cominciò a dipingere la sua celeberrima Maestà per l’altare maggiore del Duomo di Siena. L’opera è diventata uno dei simboli della città ed è nota anche perché il retro è straordinario tanto quanto il fronte: se la Maestà occupa tutto il recto dell’opera, il verso è invece suddiviso nelle formelle che narrano le Storie di Cristo. Una di queste è proprio la strage: si noti, in particolare, il mostruoso dettaglio degli aguzzini che infilano le spade nei corpi dei bambini indifesi, sotto lo sguardo terrorizzato, smarrito e profondamente turbato delle madri, per poi estrarle intrise di sangue, mentre a terra già sono sparsi, sopra una pozzanghera di sangue, i corpi dei piccoli che non sono riusciti a sfuggire al massacro.
Duccio di Buoninsegna, Strage degli innocenti |
2. Gerard David, Giudizio di Cambise (1498; olio su tavola, 202 x 349,5 cm; Bruges, Groeningemuseum)
Nel 1498 il pittore olandese Gerard David (Oudewater, 1460 circa - Bruges, 1523) dipinse, su commissione del municipio di Bruges che voleva ornare la sala del borgomastro con una serie di tavole, un dittico raffigurante il Giudizio di Cambise. La storia è raccontata da Erodoto: Cambise II, re di Persia, aveva scoperto che uno dei suoi giudici, Sisamne, era corrotto, e questo lo portava a emettere sentenze ingiuste. Cambise lo avrebbe quindi fatto arrestare e condannare a morte mediante scorticamento, e sempre secondo la storia, la sua pelle sarebbe stata utilizzata per foderare lo scranno sul quale avrebbe preso posto il figlio, nominato giudice in luogo di Sisamne, affinché ricordasse tutti i giorni la fine che aveva fatto il padre per la sua corruzione. La scena, cruenta, è dipinta con gli accenni di naturalismo tipici delle scuole nordiche del Rinascimento: gli incaricati di eseguire la condanna sono già al lavoro sul corpo di Sisamne, con uno di loro che sta finendo di rimuovere la pelle dalla gamba (e tiene il coltello tra i denti), mentre altri hanno appena cominciato ad aprirgli braccia e petto. La violenza bestiale della scena è resa ancor più tragica dall’impassibilità di Cambise, che osserva la scena, e dei suoi dignitari, che come lui osservano il tutto senza essere toccati.
Gerard David, Giudizio di Cambise, pannello destro |
3. Niccolò Circignani detto il Pomarancio, Scene di martirio (1583; affreschi; Roma, Santo Stefano Rotondo al Celio)
Nel 1583, il manierista toscano Niccolò Circignani, detto il Pomarancio (Pomarance, 1530 circa - 1597 circa), ricevette l’incarico di di decorare l’ambulacro della basilica di Santo Stefano al Celio con scene di martirio: quando l’artista finì la sua opera, aveva realizzato uno dei cicli più cruenti e disturbanti dell’intera storia dell’arte. Le esecuzioni dei santi non vengono affatto mitigate, anzi, vengono sottolineati i particolari più sanguinarî e truculenti: sant’Agata è raffigurata con le tenaglie conficcate nel senso, legata a una tavolaccia dalla quale non può muoversi, san Primo è colto mentre le fiamme dei suoi aguzzini cominciano a bruciargli la pelle che comincia già a fumare, ci sono santi bolliti vivi o sbranati da cani, ma l’apice si raggiunge con il martirio di san Pietro d’Alessandria, letteralmente fatto a pezzi (con tanto di vistosi sanguinamenti) da un boia armato di scimitarra.
Niccolò Circignani detto il Pomarancio, Martirio di san Pietro d’Alessandria |
4. Alessandro Allori o Giovanni Maria Butteri, Caterina de’ Ricci atterra i figli di Babilonia (1588-1590; olio su tela; Firenze, Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze)
Alternamente attribuito ad Alessandro Allori (Firenze, 1535 - 1607) o a Giovanni Maria Butteri (Firenze, 1540 circa - 1606), questo dipinto presenta una rara iconografia di santa Caterina de’ Ricci, terziaria regolare domenicana che visse tra il 1522 e il 1590, passando quasi tutta la sua esistenza nel monastero di San Vincenzo a Prato, del quale fu anche madre superiora. La santa era particolarmente celebre in vita dato che aveva fama di mistica e quasi di santa vivente, tanto che sue raffigurazioni cominciarono a diffondersi ben prima della sua canonizzazione (fu proclamata beata nel 1732 e santa nel 1746), e quest’opera fu dipinta con tutta probabilità mentre la donna era ancora in vita. La fama di cui godeva è ben ravvisabile da questo dipinto, che la raffigura addirittura nei panni di una santa (ha il capo circondato con l’aureola: esiste anche un ritratto di Giovanni Battista Naldini che, in vita, la raffigurò nei panni di santa Caterina da Siena) mentre scaglia alcuni bambini contro un masso, sul quale si legge l’iscrizione “beatus qui allidit parvulos suos ad petram” (“beato chi scaglierà i suoi bambini contro la roccia”, tratta dal Salmo 137). I bambini sono ovviamente un’allegoria degli avversarî della Chiesa, ma la scena colpisce per la pazza crudeltà con la quale la donna lancia uno dei piccoli contro la pietra, mentre quelli già uccisi giacciono tutti a terra, pallidi.
Alessandro Allori o Giovanni Maria Butteri, Caterina de’ Ricci atterra i figli di Babilonia |
5. Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne (1617; olio su tela, 158,8 x 125,5 cm; Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte)
La Giuditta che decapita Oloferne di Artemisia Gentileschi (Roma, 1593 - Napoli, 1654) è diventata quasi un simbolo dell’arte violenta del Seicento, tanto più che l’autrice del dipinto è una donna: la scena fa riferimento all’episodio più celebre della storia dell’eroina biblica, condottiera ebrea ed avversaria dell’esercito assiro, comandato da Oloferne. Secondo il racconto biblico, Giuditta avrebbe finto di essere attratta da Oloferne, per poi ubriacarlo e ucciderlo, decapitandolo, con l’aiuto della sua ancella Abra. Artemisia Gentileschi realizzò un paio di versioni di questo dipinto: entrambe prodotte a Firenze, quella di Napoli fu dipinta per la nobildonna Laura Corsini (questo almeno secondo una recente ipotesi della studiosa Francesca Baldassari), mentre quella degli Uffizi di Firenze, meglio conservata ma di qualche anno più tarda, era destinata al granduca Cosimo II de’ Medici. Moltissimi studiosi hanno posto in relazione l’efferata violenza con la quale Giuditta decapita Oloferne, tra schizzi e fiotti di sangue che macchiano le lenzuola, con lo stupro che la pittrice subì per mano del suo collega Agostino Tassi, e hanno interpretato il dipinto come una sorta di desiderio di vendetta: forse però si tratta di una lettura troppo semplicistica che non tiene conto del fatto che il dipinto rientra pienamente nel suo contesto storico-artistico, dove abbondavano raffigurazioni altrettanto cruente dell’episodio (come quelle di Caravaggio, di Domenico Fiasella, o di Bartolomeo Manfredi, con quest’ultimo che si rende protagonista di un dipinto meno violento ma più macabro per il fatto che l’episodio è raffigurato a fatto compiuto e con in bella mostra il corpo privo di testa, e ancora sanguinante, di Oloferne). Restano comunque intatte la forza e la straordinaria potenza di questo dipinto, uno dei più entusiasmanti del suo tempo.
Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne |
6. Giuseppe Vermiglio, Giaele e Sisara (1620 circa; olio su tela, 130 x 103 cm; Milano, Pinacoteca Ambrosiana)
Durante il Seicento si contano numerosi dipinti violenti ed efferati, e uno di questi è Giaele e Sisara del piemontese Giuseppe Vermiglio (Alessandria, 1585 circa - 1635 circa), che racconta la vicenda dell’eroina biblica Giaele, che come la sua omologa Giuditta si trova ad affrontare il generale di un esercito nemico: in questo caso si tratta di Sisara, comandante dei cananei, che viene ospitato da Giaele nella sua tenda e convinto a riposarsi all’interno della tenda stessa. Addormentato, viene ucciso da Giaele con un grosso chiodo appuntito che la donna conficca nella sua tempia. Sono molti gli artisti che hanno raffigurato questa storia (tra i tanti, si ricordano, giusto per rimanere nel Seicento, Artemisia Gentileschi e Jacopo Vignali), ma l’opera di Vermiglio si distingue da molte altre perché rappresenta Sisara in termini insoliti, ovvero mentre si accorge della presenza di Giaele e cerca dunque di evitare il punteruolo dell’eroina, ma lei, con il suo martello, sta già per abbattersi con forza su di lui. L’omologo dipinto di Artemisia Gentileschi probabilmente ispirò l’opera di Vermiglio. Non sappiamo però quale sia la storia antica di questa tela, pubblicata per la prima volta nel 1991 e attribuita a Vermiglio soltanto nel 2000 in occasione di una monografica che seguì il ritrovamento di una serie di opere dell’artista.
Alessandro Allori o Giovanni Maria Butteri, Caterina de’ Ricci atterra i figli di Babilonia |
7. Gioacchino Assereto, Martirio di san Bartolomeo (1630-1635 circa; olio su tela, 120 x 170 cm; Genova, Museo dell’Accademia Ligustica di Belle Arti)
Dei pittori che a Genova subirono l’influsso e il fascino dell’arte di Caravaggio, Gioacchino Assereto (Genova, 1600 - 1650) fu tra coloro che portarono il realismo caravaggesco alle sue conseguenze più estreme. Prova ne è il suo Martirio di san Bartolomeo oggi conservato al Museo dell’Accademia Ligustica di Genova: è una delle più crude raffigurazioni del martirio del santo, che fu uno dei dodici apostoli di Gesù e che secondo la tradizione avrebbe subito il martirio in una non meglio specificata località del Medio Oriente, scuoiato vivo. In certe opere lo vediamo mentre, risorto o in gloria, porta con sé la sua pelle (celebre è il san Bartolomeo della Cappella Sistina), e solitamente i pittori che volevano evitare scene particolarmente spietate si concentravano sui primi momenti del martirio, quando il boia aveva appena tirato fuori il coltellaccio. Assereto non si fa questi problemi e coglie la scena nel momento in cui uno dei due aguzzini tira un lembo di pelle dalla gamba di san Bartolomeo scoprendo i muscoli sanguinanti: il Seicento abbonda di scene come questa, ma la foga e il sadismo dello sgherro di Assereto hanno pochissimi eguali.
Gioacchino Assereto, Martirio di san Bartolomeo |
8. Rembrandt, L’accecamento di Sansone (1636; olio su tela, 236 x 302 cm; Francoforte sul Meno, Städelsches Kunstinstitut)
La storia dell’eroe biblico Sansone è raccontata nel Libro dei Giudici: uomo dalla proverbiale e impressionante forza, che gli fu concessa direttamente da Dio, aveva sposato una donna filistea, ma il matrimonio era contrario al volere dei genitori di lei, per il fatto che Sansone, ebreo, era naturalmente nemico del popolo dei filistei (che, parimenti, non volevano il matrimonio). Dopo qualche tempo il padre della donna cedette la moglie di Sansone a un altro uommo, e per vendicarsi Sansone devastò i campi dei filistei, che reagirono uccidendogli moglie e suocero, dati alle fiamme. Sansone, al colmo dell’ira, afferrò una mascella d’asino e con soltanto quell’arma fece strage di filistei, uccidendo mille uomini. Dopo quest’episodio, l’eroe tuttavia incontrò Dalila, altra filistea, che lo tradì facendolo catturare: i filistei lo accecarono e lo ridussero in schiavitù. Infine, trovatosi a servire in una casa dove si erano riuniti i capi dei filistei, con la sua prodigiosa forza fece crollare l’edificio uccidendo tutti coloro che si trovavano all’interno, oltre, ovviamente, a se stesso (“che io muoia insieme ai filistei” è la frase che, nella Bibbia, Sansone pronuncia prima di far rovinare l’edificio). In questo dipinto conservato a Francoforte, Rembrandt van Rijn (Leida, 1606 - Amsterdam, 1669) raffigura l’episodio dell’accecamnto: alcuni soldati filistei lo tengono fermo, un altro lo minaccia con una picca, uno gli sta cavando un occhio con un pugnale, mentre lui si contorce dal dolore. La violenza dell’episodio è sottolineata anche dal chiaroscuro con gradazioni forti, tipico del Rembrandt degli anni Trenta.
Rembrandt, L’accecamento di Sansone |
9. José de Ribera, Apollo e Marsia (1637; olio su tela, 202 x 255 cm; Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts)
Narra il mito che il sileno Marsia, abilissimo con il flauto, avesse voluto sfidare Apollo, dio delle arti e della musica, convinto che il suo talento con lo strumento musicale fosse addirittura superiore a quello della divinità. Apollo accettò la sfida (secondo altre versioni del mito fu invece Apollo a voler sfidare Marsia per i suoi pavoneggiamenti), e a giudicare la contesa sarebbero state le muse. Ovviamente, Apollo vinse la gara e, per punire la superbia di Marsia, decise di scuoiarlo vivo. L’episodio, simbolo della superbia punita, tra quelli della mitologia è uno dei più rappresentati nella storia dell’arte, e nel Seicento, con il diffondersi del gusto per le scene realistiche, le raffigurazioni cominciarono a farsi sempre più violente e a indugiare sui particolari più truci della scena. In tal senso, una delle realizzazioni più efficaci è l’Apollo e Marsia di José de Ribera (Xàtiva, 1591 - Napoli, 1652) dipinta nel 1637 e conservata al Musée des Beaux-Arts di Bruxelles. Ribera, nello stesso anno, realizzò un’altra versione del dipinto, oggi custodita a Napoli, ma quella belga è sicuramente più violenta perché l’artista indugia di più sul dettaglio della gamba scorticata: come da tipica iconografia, il dio è serafico e impassibile nell’infliggere la terribile punizione, e la sua bellezza delicata ed effeminata cozza terribilmente sia con il particolare orripilante della gamba di Marsia, sia con l’aspetto di quest’ultimo, colto mentre urla e si dibatte con tutte le membra per il dolore.
José de Ribera, Apollo e Marsia |
10. Felice Ficherelli, Tarquinio e Lucrezia (1640 circa; olio su tela, 117 x 163,5 cm; Roma, Accademia di San Luca)
Felice Ficherelli (San Gimignano, 1603 - Firenze, 1660) narra in questo dipinto una vicenda della storia romana, lo stupro di Lucrezia, moglie di Collatino, da parte di Sesto Tarquinio, figlio dell’ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo. La donna, per l’oltraggio subito, decise di togliersi la vita, e questo sarebbe stato l’episodio che avrebbe dato il via alla ribellione contro Tarquinio il Superbo, conclusasi con la fine della Roma monarchica e l’inizio della Roma repubblicana. Quella di Ficherelli è una delle rappresentazioni più violente dell’episodio, tanto che il dipinto potrebbe assurgere a simbolo della lotta contro la violenza sulle donne: Lucrezia è nuda e inerme sul letto, tenta una timida difesa ma nulla può contro la forza bruta di Sesto Tarquinio, che all’umiliazione dello stupro aggiunge anche la tremenda minaccia del pugnale. Come tipico delle opere del tempo, l’opera è ambientata all’interno di un’abitazione seicentesca. Il dipinto è uno dei capolavori di Ficherelli: a lungo ritenuto opera di Guido Cagnacci, fu per la prima volta assegnato a un pittore di area toscana da Corrado Ricci nel 1915 (lo studioso formulò il nome di Giovanni Bilivert), mentre si deve a Mina Gregori il merito di averlo ascritto, nel 1960, alla mano di Felice Ficherelli, per un’attribuzione che da allora non è mai stata più messa in dubbio.
Felice Ficherelli, Tarquinio e Lucrezia |
11. Francisco Goya, Saturno divora i suoi figli (1820-1823; olio su intonaco trasportato su tela, 143,5 x 81,4 cm; Madrid, Prado)
Il dio Saturno (Crono per i greci), re degli dèi, avendo saputo dai suoi genitori Gea e Urano che uno dei suoi figli lo avrebbe spodestato, ebbe l’idea di divorarli per non permettere che qualcuno di loro lo cacciasse dal trono. Il suo destino però si compì comunque, perché Giove (Zeus) riuscì a scampare di nascosto al massacro (la moglie di Saturno, Rea, lo generò di nascosto) e, divenuto adulto, tornò per sconfiggere il padre. Francisco Goya (Francisco José de Goya y Lucientes; Fuendetodos, 1746 - Bordeaux, 1828), in uno dei suoi dipinti più conosciuti ed efferati, raffigura il dio mentre con sguardo animalesco è in preda a una terribile furia da cannibale e ha già cominciato a divorare uno dei figli (la testa è già stata staccata di netto ed è colto mentre mangia il braccio destro). Il tutto accade nell’oscurità: l’opera fa parte del ciclo passato alla storia come le Pinturas Negras (“dipinti neri”), perché tutti caratterizzati dall’utilizzo di colori molto scuri. I dipinti neri decoravano in origine un’abitazione nota come “Quinta del Sordo”, appena fuori Madrid, che fu acquistata da Goya nel 1819. Per questo dipinto sono state peraltro fornite interpretazioni che vanno al di là del mero episodio mitologico e delle sue più tradizionali letture (Saturno è anche dio del tempo e il mito è una metafora del tempo che divora ogni cosa): in particolare, potrebbe trattarsi di un’allegoria della follia, o anche una lettura sarcastica della situazione politica del tempo (“Saturno”, ha scritto lo storico dell’arte José Rogelio Buendía, “è simbolo della Spagna assolutista che divora i suoi stessi figli”).
Francisco Goya, Saturno divora i suoi figli |
12. Karl Pavlovič Brjullov, Ines de Castro nel momento di essere sacrificata (1834; olio su tela, 213 x 290,5 cm; San Pietroburgo, Museo Statale Russo)
Il pittore russo Karl Brjullov (San Pietoburgo, 1799 - Roma, 1852) narra in questo dipinto uno degli episodî più foschi della storia del Portogallo, l’uccisione di Ines de Castro e dei suoi figli per volere del suocero di lei, il re Alfonso IV, che non vedeva di buon occhio il suo matrimonio con l’infante don Pedro, erede al trono portoghese, futuro re Pietro I. Siamo nel 1355: Alfonso IV, incitato da alcuni nobili nemici della nobile famiglia dei Castro, gli suggerirono di eliminare la donna e i suoi figli, per timore che in futuro avessero potuto spodestare Pietro. Così, nel gennaio del 1355, mentre il marito era assente, Alfonso tese un agguato alla donna, recandosi, insieme ai nobili complici, nel monastero di Santa Clara a Coimbra, dove la donna viveva assieme ai figli. Alfonso manifestò le sue intenzioni e a nulla valsero le suppliche di Ines de Castro: i tre nobili si avventarono su di loro uccidendoli a coltellate. Pietro, estremamente furioso per l’assassinio della moglie, mosse una guerra contro il padre, che si risolse con una pace: tuttavia, appena salito al trono nel 1357, Pietro I si vendicò facendo giustiziare i carnefici della donna, morta appena trentenne. Brjullov raffigura il momento in cui Ines de Castro e i figli vengono condotti a forza davanti al suocero dai tre nobili, tutti pronti, con espressioni bestiali, ad avventarsi su di loro con i pugnali. La vicenda, ha scritto la storica dell’arte Elena Lissoni, “si prestava con i suoi risvolti oscuri alla messa in scena di passioni e sentimenti estremi, qui resi attraverso un linguaggio di grande enfasi drammatica, cui non era certo estranea la frequentazione dell’artista degli ambienti musicali. [...] La tela suscitò una forte impressione nella critica, che vi riconobbe prontamente il carattere di novità, sia nel tema, dominato dall’orrore, sia nei mezzi espressivi”.
Karl Pavlovič Brjullov, Ines de Castro nel momento di essere sacrificata |
13. Otto Dix, La guerra (1929-1932; tecnica mista su tavola, 204 x 468 cm; Dresda, Galerie Neue Meister)
Cadaveri mutilati, macerie, paesaggi in rovina, soldati totalmente privati della loro umanità, alberi spogli e drammatici personaggi in lutto sono i protagonisti del trittico della guerra di Otto Dix (Gera, 1891 - Singen, 1969), opera che ben racconta il dramma feroce della prima guerra mondiale. L’artista cominciò a dipingerlo nel 1929 e lo finì nel 1932: la guerra si era conclusa da più di dieci anni ma era ancora ben viva nella memoria dell’artista, che al conflitto dedicò diverse opere (in particolare una serie di cinquanta incisioni, note come Der Krieg, “la guerra”, stesso titolo del trittico, che causò reazioni sconcertate quando fu pubblicata nel 1924). La scena si legge da sinistra a destra, con una colonna di soldati tedeschi che attraverso la nebbia lascia il campo di battaglia per mostrare all’osservatore il risultato della guerra: un paesaggio totalmente devastato e orrorifico. Con, in alto, uno scheletro appeso a un albero, che punta il dito contro quello che i soldati hanno fatto, a imperitura memoria.
Otto Dix, La guerra |
14. Carlo Levi, Campo di concentramento o Le donne morte (Il lager presentito) (1942; olio su tela, 50 x 61 cm; Roma, Fondazione Carlo Levi)
Il grande pittore e scrittore Carlo Levi (Torino, 1902 - Roma, 1975) provò in prima persona la durezza del regime fascista, dal momento che fu arrestato nel 1934 per sospetta attività antifascista e, arrestato una seconda volta nel 1935, fu condannato al confino in Lucania, nel borgo di Grassano e poi in quello di Aliano: dalla sua esperienza in Basilicata sarebbe nato il celeberrimo libro Cristo si è fermato a Eboli. Dopo essere stato graziato, nel 1936 Levi si trasferì in Francia e, poco dopo l’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale, tornò nel paese natale per partecipare alla lotta clandestina contro il fascismo. Visse tutto il periodo bellico lavorando in clandestinità e, pur essendo di origini ebraiche, non conobbe mai l’orrore dei campi di concentramento nazista. Questo però non gli impedì di realizzare, nel 1942, le Donne morte, opera che raffigura i corpi nudi, pallidi e provati, di alcune donne uccise durante la guerra: l’opera rifletteva ciò che l’artista provava nei confronti degli eventi bellici, e di lì a poco, quando la tragica realtà dei campi di sterminio fu scoperta e mostrata al mondo intero, il dipinto di Levi avrebbe assunto il sinistro senso di un presentimento.
Carlo Levi, Campo di concentramento o Le donne morte (Il lager presentito) |
15. Aligi Sassu, Guerra civile (I martiri di piazzale Loreto) (1944; olio su tela, 116 x 200 cm; Roma, Galleria Nazonale d’Arte Moderna e Contemporanea)
La tela di Aligi Sassu (Milano, 1912 - Pollença, 2000), che oltre a essere stato un grande artista fu un fiero antifascista, tanto che fu arrestato per qualche tempo nel 1938, dipinse di getto quest’opera nel 1944 all’indomani della strage di piazzale Loreto, una fucilazione di quindici partigiani e antifascisti che ebbe luogo nella piazza milanese nell’agosto del 1944, e che fu ordinata dall’ufficiale delle SS Theodor Emil Saevecke (il quale, peraltro, in patria non subì mai alcun tipo di processo per i suoi crimini di guerra: fu condannato, nel 1999, all’ergastolo dal tribunale militare di Torino, ma non fu mai estradato). Sassu dipinse la sua opera nella più totale clandestinità e riuscì a esporla soltanto alla Biennale di Venezia del 1952: in quell’occasione fu vista da Giulio Carlo Argan che la fece acquistare dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, dove tuttora si trova. L’episodio della fucilazione viene reso da Sassu a fatti ormai compiuti: i corpi straziati dei partigiani fucilati vengono mostrati all’osservatore coperti di sangue, in un’atmosfera quasi irreale.
Aligi Sassu, Guerra civile (I martiri di piazzale Loreto) |