Il 1° Maggio è stato testimone di molti eventi significativi e rivoluzionari. Conosciuta come la Festa dei Lavoratori o il Giorno del Lavoro, la giornata commemora la lotta dei lavoratori per ottenere migliori condizioni di lavoro, diritti sindacali e una più equa distribuzione della ricchezza. Le sue origini risalgono al movimento per la riduzione dell’orario lavorativo, con la richiesta delle otto ore di lavoro quotidiano. Uno dei momenti cruciali che ha contribuito a consolidare la celebrazione del 1° maggio è stato il massacro di Haymarket avvenuto a Chicago nel 1886. Durante una manifestazione pacifica per la giornata delle otto ore, scoppiarono scontri tra polizia e manifestanti, con la conseguente esplosione di una bomba e la morte di diversi poliziotti e manifestanti (in questo articolo la storia nel dettaglio). L’evento attirò l’attenzione internazionale sulla causa dei lavoratori e ha contribuito a promuovere la lotta per i diritti dei lavoratori in tutto il mondo. Tuttavia, nonostante i progressi compiuti nel corso degli anni, molte sfide rimangono ancora aperte per i lavoratori di tutto il mondo. L’insicurezza economica, la precarietà del lavoro e la mancanza di protezione sociale sono solo alcune delle questioni che continuano a essere al centro del dibattito sul futuro del lavoro. Inoltre, con l’avvento della globalizzazione e delle nuove tecnologie, emergono nuove sfide e opportunità per i lavoratori. La crescente automazione e digitalizzazione del lavoro sollevano interrogativi sulla perdita di posti di lavoro ma anche sulla necessità di nuove politiche e strategie per garantire una evoluzione equa e inclusiva verso un’economia digitale.
In occasione della giornata del 1° maggio, ecco una raccolta di dieci opere d’arte che esplorano il tema dei mestieri e del lavoro, dall’antico Egitto fino al Novecento. La selezione offre uno sguardo sulle diverse sfaccettature del mondo del lavoro attraverso i secoli, evidenziando sia l’importanza pratica che il significato simbolico che il lavoro ha avuto nella storia dell’arte.
In questi affreschi tombali del XIV secolo a.C. nell’Antico Egitto, gli artigiani collaborano strettamente, dando vita a ceramiche ornamentali, sculture, geroglifici e gioielli destinati ad adornare i sepolcri dei faraoni e dei dignitari. L’atto condiviso di creare arte è immortalato nell’ambiente che accoglie il frutto del loro impegno, malgrado i loro mecenati di alta classe vedessero gli artigiani non con tutto quel rispetto ch’era loro dovuto. Gli antichi artigiani egiziani furono i precursori dello sciopero nella storia del lavoro, un evento attestato in una necropoli regale vicino al loro insediamento di Deir el-Medina. Sebbene non ci siano rappresentazioni visive dello sciopero, un documento su papiro, probabilmente redatto dallo scriba Amennakht, riporta le parole degli artigiani: “La minaccia di fame e sete ci ha spinti a questo”.
Le raffigurazioni di artisti al lavoro sono rare nelle opere d’arte antiche, ma la ceramica offre uno sguardo su un mestiere spesso trascurato. Il cratere apulo a colonne del 350 a.C. circa, custodito al Metropolitan Museum of Art di New York, fa parte della ceramica italiota a figure rosse ed è realizzato in argilla purificata modellata al tornio. Nella scena portante del vaso osserviamo, all’interno di un tempio (ce ne accorgiamo dalla colonna e dalla phiale, un vaso rituale che gli antichi greci appendevano, appunto, nei templi), uno scultore che sta lavorando su di una scultura collocata su un alto basamento che raffigura un eroe con indosso una pelle di leone (vediamo l’artista mentre sistema i dettagli della criniera, aiutato da un suo collaboratore), con alcune divinità che osservano dall’alto. Ecco dunque Zeus, il re degli dèi, e Nike, la dea della vittoria, riconoscibile dalle sue grandi ali. In basso a destra, Eracle in persona, giovane e senza barba, appare dietro l’artista (lo riconosciamo dalla clava). Il semidio si ferma e osserva con stupore la creazione della statua, dal momento che l’effigiato... è lui stesso: la scultura, armata di clava, arco e pelle di leone, è è infatti identificabile come una statua di Eracle.
Il Lupanare, scoperto a Pompei nel 1862, si presenta come un edificio composto da tre ingressi e due piani distinti. Il piano inferiore ospita cinque cellette dotate di letti in muratura e una latrina, mentre al piano superiore si trovano ulteriori locali accessibili tramite una scala che si affaccia sul vicolo. Le stanze erano divise da tende e adornate con dipinti erotici. I 36 graffiti rinvenuti sulle pareti del piano inferiore attestano l’utilizzo dell’edificio come luogo di prostituzione: le donne che lavoravano in questo postribolo erano prevalentemente schiave di origine greca e orientale, e il prezzo dei loro servizi, secondo quanto riscontrato dagli studiosi del Parco Archeologico di Pompei, si aggirava tra due e otto assi (all’epoca di Augusto, quindi qualche decennio prima che Pompei venisse distrutta, due assi consentivano di acquistare un litro di vino o un chilo di pane, mentre una tunica poteva costare dodici sesterzi, ovvero quarantotto assi). Il termine “Lupanare” deriva da “lupa”, parola latina uilizzata per indicare la prostituta. I graffiti erotici sulle pareti, ritraggono le prostitute del tempo. La loro condizione sociale e giuridica era segnata da un’ampia emarginazione.
La Bibbia Maciejowski, un manoscritto medievale miniato, è composta da 46 fogli e decorato con maestria da artisti francesi del Nord Europa nel 1250 circa. Nel terzo foglio del testo è raffigurata la storia del popolo di Babele, intento nella costruzione di una colossale città e di una torre che sfida il cielo. Il Signore, indignato per il loro orgoglio smisurato, confonde il linguaggio degli uomini, interrompendo così i loro ambiziosi progetti. La discordia si diffonde, il lavoro si interrompe e i costruttori si disperdono ai quattro angoli della terra. In questa miniatura vediamo un esempio di come si costruiva nel Medioevo. Si possono osservare ingegnosi sistemi di sollevamento, come le carrucole, manovrate da uomini all’interno di ruote di legno. Ai piedi della torre, alcuni operai si adoperano nella preparazione dei blocchi di pietra, trasportati con una sorta di lettiga dotata di cinghie per distribuire il peso. Un muratore, posto su una scala, porta un contenitore di calce sulla schiena, mentre un altro impiega un martello dalle dimensioni più ridotte per sistemare con precisione le pietre. Questa rappresentazione offre uno sguardo sulle tecniche e gli strumenti impiegati nella costruzione di monumentali opere architettoniche. Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel V secolo d.C., l’edilizia subì un declino, per rinascere soltanto a partire dal IX secolo. L’apice di questa rinascita si ebbe tra il XII e il XVI secolo, l’età d’oro dei maestri muratori. Molti di loro apprendevano l’arte sul campo: tuttavia, a partire dal XIII secolo, si diffuse l’usanza di accogliere apprendisti, rendendo così più formale il processo formativo. Mentre i rudimenti del mestiere venivano imparati direttamente dalle cave di estrazione, le tecniche più raffinate venivano trasmesse direttamente sul luogo di lavoro, testimoniando l’abilità della corporazione.
Tra il 1480 e il 1490, il Maestro del Parral dipinge un vivido quadro della vita monastica nell’opera che ritrae San Girolamo mentre lavora alla sua traduzione della Vulgata, circondato dai suoi devoti discepoli, all’interno dello scriptorium di un monastero. I monaci, figure che rispecchiano in concetto di “ora et labora” dell’ordine benedettino, sono raffigurati assorti nel loro lavoro, unendo preghiera e impegno manuale. L’opera è oggi custodita presso il Museo Lázaro Galdiano di Madrid. I monasteri avevano spazi dedicati alla preziosa attività di trascrizione dei manoscritti. Qui, i monaci amanuensi si dedicavano alla copiatura dei testi sacri e dei classici dell’antichità. Ogni copista poteva essere incaricato di trascrivere un intero manoscritto o parti di esso, seguendo le dettature dell’armarius o del bibliotecario. Nell’arte della copiatura vi era una divisione del lavoro: i copisti lasciavano spazi vuoti per le iniziali, i titoli e le illustrazioni, che sarebbero poi stati completati dai miniaturisti e dagli alluminatori. Questi ultimi arricchivano le miniature con pennellate d’oro, conferendo loro una lucentezza particolare. Nei dipinti che li ritraggono, i copisti sono spesso raffigurati con strumenti come coltellini, utilizzati per affilare le penne o correggere eventuali errori sulla pergamena. La preparazione delle penne, strumenti essenziali per la scrittura, era un processo accurato. Le penne di uccello venivano prima inumidite e poi indurite sotto la sabbia calda, per poi essere affilate con cura. Questi dettagli offrono un’immagine vivace delle pratiche e degli strumenti impiegati nell’arte della scrittura medievale e sottolineano la pazienza richiesta per creare i manoscritti dell’epoca.
Nel 1836, August Wilhelm Julius Ahlborn (Hannover, 1796 – Roma, 1857) dipinse Uno scorcio dell’età dell’oro della Grecia, copiato nel 1836 dall’originale del 1825 di Karl Friedrich Schinkel. Il dipinto raffigura un idilliaco panorama urbano greco dove eroi nudi costruiscono un tempio ionico con una doppia fila di colonne. La processione sul fregio del tempio richiama il Partenone, catturando il momento in cui viene posizionato l’ultimo blocco di marmo con grande fatica. Il progetto per le colonne si ispira all’antichità, mentre gli operai si fermano per osservare i soldati di ritorno dalla guerra. Schinkel considerava la costruzione di un tempio come il culmine di una società ordinata e il simbolo di un ordine mondiale migliorato. Il suo progetto architettonico per una nuova Atene a Berlino rifletteva questa visione. Nei suoi progetti per la sala con colonne del museo del Lustgarten, impiegò lo stesso stile di questo tempio. Il monumento centrale richiama il Leone combattente di Albert Wolff e l’Amazzone di August Kiß, presenti sulle scale dell’Altes Museum. La versione originale del dipinto di Schinkel è andata perduta, ma è stata preservata da Wilhelm Ahlborn che ne fece due copie nel 1826 e nel 1836. Oggi è esposta alla Nationalgalerie, Staatliche Museen di Berlino.
Affronta uno dei soggetti prediletti di Jean-François Millet (Gréville-Hague, 1814 – Barbizon, 1875), la vita contadina, il dipinto del 1857 esposto al Museo d’Orsay di Parigi: è il culmine di un decennio di ricerca sul tema delle Spigolatrici. Queste donne rappresentano la classe operaia rurale, e si potevano incontrare mentre giravano rapidamente per i campi al crepuscolo per raccogliere, una per una, le spighe lasciate dai mietitori. Il pittore le ritrae in primo piano: tre figure sono in primo piano e illustrano le tre fasi del duro e ripetitivo compito: chinarsi, raccogliere le spighe e rialzarsi. La loro semplicità contrasta con l’abbondante raccolto sullo sfondo: pagliai, covoni di grano, un carro e una folla di mietitori laboriosi. La luce del sole al tramonto enfatizza i volumi in primo piano, conferendo alle spigolatrici un aspetto scultoreo e mettendo in evidenza dettagli come le mani, il collo, le spalle e la schiena, così come i colori vivaci dei loro abiti. L’uomo a cavallo solitario sulla destra è probabilmente un incaricato a sorvegliare i lavori della tenuta e di far rispettare le regole ai raccoglitori. La sua presenza sottolinea la distanza sociale e richiama alla mente i proprietari terrieri che rappresenta. Senza ricorrere a dettagli pittoreschi, Millet dona a queste spigolatrici, indubbiamente povere ma altrettanto dignitose, un valore emblematico, privo di qualsiasi retorica.
Completato nel 1885 dopo un lungo processo di schizzi preliminari, I mangiatori di patate di Vincent van Gogh (Zundert, 1853 – Auvers-sur-Oise, 1890), esposto al Van Gogh Museum di Amsterdam, è un dipinto a olio su tela che ritrae una modesta capanna in cui cinque contadini gustano un misurato pasto di patate e caffè nero. L’atmosfera è cupa, illuminata appena da una piccola lampada a petrolio sospesa al centro della stanza. Nonostante la scarsa illuminazione, gli occhi dello spettatore sono attratti dai dettagli che affascinavano particolarmente Van Gogh in quel momento. Le mani rovinate dal lavoro nei campi e i volti segnati dalla fatica sono chiaramente visibili, testimonianze dirette delle lunghe ore trascorse sotto il sole cocente. La sensazione di miseria e desolazione è accentuata dalla tavolozza quasi monocromatica usata da Vincent, composta principalmente da toni terrosi come ocra, marrone, bruno, nero e verde. Come il maestro Jean-François Millet, Van Gogh aspirava a essere un autentico pittore contadino. Questo significava dipingere i suoi soggetti con profondo realismo, senza cadere nel sentimentalismo. Van Gogh descriveva quei contadini come conduttori di “uno stile di vita completamente diverso dal nostro, da quello delle persone civili”. L’artista olandese si sforzava perciò di catturare l’essenza di quei volti, “del colore di una buona patata polverosa, non sbucciata al naturale”, trasmettendo l’idea che quegli individui avessero “usato le stesse mani con cui ora prendono il cibo dal piatto per scavare la terra e guadagnarsi onestamente il pasto”.
La tela dipinta da Giuseppe Pellizza da Volpedo (Volpedo, 1868 – 1907) tra il 1868 e il 1902, ora esposta alla Galleria d’Arte Moderna di Milano dopo essere stato a lungo nel Museo del Novecento, è il risultato di un processo creativo decennale. La dignità dei lavoratori si manifesta attraverso pose e gesti eloquenti, che richiamano modelli rinascimentali come quelli di Raffaello e Michelangelo. Il Quarto Stato ha l’esplicito intento di documentare le rivendicazioni dell’Italia alla fine del XIX secolo, prendendo il nome dal termine usato durante la rivoluzione francese per indicare gli strati popolari subalterni, il “quarto stato”, accanto alla borghesia (il terzo stato), poi adottato per rappresentare la classe operaia durante la rivoluzione industriale. Pellizza da Volpedo, per realizzare questo dipinto, si confrontò con l’amico Angelo Morbelli sulle teorie politiche socialiste e sul divisionismo italiano. Quest’opera universale è fondamentale per la storia dell’arte italiana e mondiale, assumendo un’importanza crescente nel tempo, anche grazie alla sua diffusione nella cultura di massa, simboleggiando le rivendicazioni proletarie. L’avanzata del corteo è rappresentata in modo non violento, con Pellizza che vuole ritrarre una massa di lavoratori che procede lentamente verso la vittoria. Le figure dei contadini sono disposte orizzontalmente, richiamando sia il classicismo del fregio che in modo realistico una manifestazione di strada, ispirandosi direttamente a capolavori come L’Ultima Cena di Leonardo.
Lunch atop a Skyscraper è un’iconica fotografia scattata nel 1932 durante la costruzione del 30 Rockefeller Plaza nel Rockefeller Center di New York City. Sebbene attribuita a Charles C. Ebbets, vi è in realtà incertezza tra gli storici sul vero fotografo, poiché altri come William Leftwich e Thomas Kelley erano presenti quel giorno e potrebbero aver parimenti scattato la fotografia. La foto cattura undici lavoratori seduti su una trave d’acciaio a centinaia di metri sopra la città. Scattata il 20 settembre 1932, fu pubblicata dal New York Herald Tribune nel supplemento fotografico domenicale del 2 ottobre 1932. Una foto successiva, Resting on a Girder, li mostra sdraiati sulla trave al 69º piano del 30 Rockefeller Plaza. Le loro identità rimangono sconosciute, ma probabilmente erano immigrati europei, spesso impiegati nelle costruzioni in quel periodo. Queste immagini, durante la Grande Depressione con milioni di disoccupati, trasmettevano un’ottimistica visione di una New York in espansione, portando speranza di rinascita al paese.
L'autrice di questo articolo: Noemi Capoccia
Originaria di Lecce, classe 1995, ha conseguito la laurea presso l'Accademia di Belle Arti di Carrara nel 2021. Le sue passioni sono l'arte antica e l'archeologia. Dal 2024 lavora in Finestre sull'Arte.