Importanti novità a Mantova per Palazzo Ducale. Si allarga il percorso di visita: riapre infatti l’itinerario di Corte Nuova. È dunque possibile visitare L’Appartamento di Troia di Giulio Romano con un allestimento rinnovato, la Galleria dei Mesi appena restaurata e la Galleria della Mostra. Ecco le novità nel dettaglio.
L’Appartamento di Troia, progettato da Giulio Romano per Federico II Gonzaga intorno agli anni Trenta del Cinquecento (uno dei gioielli di Palazzo Ducale di Mantova), riapre al pubblico i quattro ambienti visitabili (la Sala dei Cavalli, la Camera delle Teste, il Camerino dei Cesari e la Sala di Troia) dove è ospitata l’importante collezione di statuaria classica, una delle più prestigiose del nord-Italia, che si pone in stretta relazione con i soggetti mitologici dell’apparato decorativo cinquecentesco. I lavori di riallestimento, affidati all’architetto Giampaolo Benedini, hanno ripristinato la continuità prospettica che, dalla Sala di Manto fino alla Galleria dei Mesi, attraversa la Sala di Troia. In precedenza, infatti, lo scorcio era interrotto da un grande pannello espositivo con i bassorilievi: ora l’elemento è stato suddiviso in due parti distinte lasciando libero il tratto centrale. In questo modo è resa nuovamente apprezzabile la continuità visuale lungo gli ambienti, elemento importante del progetto giuliesco. Inoltre, è stato qui collocato il celebre marmo Ciampolini, in passato appartenuto allo stesso Giulio Romano, il quale lo citò espressamente nell’episodio dell’Iliade della Lotta sul corpo di Patroclo affrescato sul lato nord della volta nella Sala di Troia. Le due opere – l’affresco e il rilievo che ne fece da modello – sono dunque oggi esposte una vicina all’altra, in modo da consentire al pubblico di apprezzare questa particolare relazione figurativa. Il rilievo Ciampolini è un frammento di un architrave di un monumento romano raffigurante una battaglia tra Romani e Galli: gli abiti e le armi dei soldati, con cimieri, scudi rotondi, lorica a maglie di ferro o squamata, le peculiarità degli avversari con lunghe brache, cinture in vita o completamente nudi con scudi esagonali, non lasciano dubbi sull’identificazione della scena. Si tratta di una battaglia delle campagne galliche del I secolo a.C., che Giulio Romano recupera nell’invenzione che sottende l’esecuzione dell’affresco sulla volta.
Il marmo, già collocato lungo un lato del portico del Cortile d’Onore nel lapidarium di Palazzo Ducale, ha una storia interessante. La denominazione del rilievo deriva dal collezionista di antichità Giovanni Ciampolini, vissuto a Roma tra quindicesimo e sedicesimo secolo. Il fregio in questione apparteneva alla sua collezione, nella casa presso Campo de’ Fiori, e godeva di una certa fama. Giulio Romano e il suo amico Gian Francesco Penni, entrambi già allievi di Raffaello, acquistarono la collezione dagli eredi di Giovanni Ciampolini nel 1520. Non sappiamo con esattezza quando l’opera entrò a far parte della collezione dei Gonzaga. Potrebbe essere stata ceduta dallo stesso Giulio Romano in vita; in ogni caso, la raccolta di antichità di Giulio fu dispersa da suo figlio, Raffaello, dopo la morte del padre (1546). Oltre al rilievo Ciampolini, sarà ancora possibile ammirare altri pezzi importanti della collezione di arte antica: tra questi si possono citare il fronte del sarcofago che raffigura il Mito di Endimione (fine II sec. / inizio III sec. d.c.) esposto nella Camera delle Teste, l’Amazzonomachìa (metà II sec. d.C.) e il bassorilievo con Le fatiche di Ercole appartenuto a Vespasiano Gonzaga, entrambi esposti nella Sala di Troia (170-180 d.c.).
Per quanto riguarda la Galleria dei Mesi, i restauri per il consolidamento della volta sono terminati da pochi giorni. Il lavoro è stato diviso tra restauro dell’intradosso – la parte a vista della volta a botte – e dell’estradosso, ossia la parte accessibile solo dai sottotetti. I due interventi, diversi per tipologia ma strettamente complementari, sono stati finanziati da Palazzo Ducale con i fondi di bilancio. Il progetto del restauro degli affreschi e degli stucchi dell’intradosso è stato realizzato sotto la responsabilità della restauratrice Daniela Marzia Mazzaglia di Palazzo Ducale ed eseguito dalla ditta Lithos srl. L’intervento strutturale, di miglioramento sismico della volta, è stato invece eseguito dalla ditta Lares srl, su progetto dell’ingegnere Giovanni Gualerzi e sotto la responsabilità dell’architetto Antonio Giovanni Mazzeri di Palazzo Ducale.
La presenza dei ponteggi è stata l’occasione per collocare sulla testata ovest due riproduzioni realizzate con tecniche di scansione tridimensionale dei bassorilievi che originariamente ornavano le parti superiori ai lati del passaggio, di fianco all’esedra di testata. I bassorilievi originali sono a Palazzo Te dai primi dell’Ottocento; nel 1811 furono staccati a massello, per essere destinati alla camera delle Cariatidi di Palazzo Te. Ne furono staccati in realtà solo tre, poiché il Kronos/Saturno che fu realizzato da Giulio Romano intorno al quadrante di un orologio – il primo orologio monumentale di un interno rinascimentale, rimase in sito. Intorno al 2005 fu posta sulla testata est una copia orologio, dell’‘Aurora’; oggi sono state realizzate due copie 3D, sulla testata ovest, del ‘Giorno’ e della ‘Notte’, grazie alla disponibilità della direzione di Palazzo Te, che ha consentito i rilievi, realizzati, assieme alle copie, da AD Metaheritage srl.
Novità anche per la Galleria della Mostra, il sontuoso spazio espositivo lungo circa 64 metri che i Gonzaga avevano fatto realizzare a cavallo tra Cinque e Seicento per esporvi la loro pinacoteca. Due sculture in terracotta raffiguranti angeli nell’atto di reggere un cartiglio in bronzo, erano collocate da decenni nella Galleria Nuova di Corte Vecchia, tra la Sala degli Arcieri e la Sala dei Papi. Recentemente le due opere sono state oggetto di un intervento conservativo, anch’esso con finanziamenti statali, affidato a Chiara Ceriotti della ditta Arké, sotto la direzione interna di Daniela Marzia Mazzaglia. Di pregevole qualità esecutiva, le due sculture presentavano diverse microfratture, probabilmente dovute alle fasi originarie della cottura, e danneggiamenti sul cartiglio. L’analisi ha permesso di rinvenire tracce di due diverse velature (applicazioni di sottili strati di colore) sopra la terracotta: una più antica a finto bronzo e un’altra a finitura bianca. Il restauro ha mantenuto le tracce di queste due stesure, senza integrarle. Dai documenti scopriamo che in origine le statue dovevano essere quattro: il quartetto di statue era stato pensato per ornare le due testate della Galleria della Mostra. All’epoca l’aspetto dei quattro angeli doveva essere caratterizzato dalla patina a finto bronzo, mantenuta almeno fino al 1769, anno in cui si fa menzione degli angeli in un documento, nominando la finitura nerastra a imitazione del bronzo confermata dalle tracce ancora presenti. Una successiva ridipintura bianca, diffusa su tutta la superficie, è da far risalire invece a prima del 1787, data indicata in un inventario dove si fa menzione della collocazione nell’appartamento di Guastalla. Con il cambio di collocazione, presumibilmente, si decise di “aggiornarne” la finitura in gusto neoclassico. Perduta la conoscenza dell’originaria provenienza delle sculture, esse rimasero a ornare la Corte Vecchia. Dai documenti scopriamo che le quattro statue si erano ridotte a due nel corso dell’Ottocento: della seconda coppia che formava il quartetto si sono perse le tracce nei meandri della storia e a oggi non se ne conosce il destino. Negli ultimi decenni le due statue superstiti si trovavano, su alti piedistalli, nella Galleria Nuova.
Fu il noto studioso mantovano Renato Berzaghi – scomparso pochi anni fa – a scoprire che le terrecotte un tempo erano poste nelle nicchie ai due lati delle testate della Galleria della Mostra e a suggerire il nome del loro autore: Carlo Pallago. Pallago fu un artista fiorentino che aveva lavorato lungamente nella Germania meridionale, con Friedrich Sustris a Burg Trausnitz presso Landshut, con Hubert Gerhard ad Augusta nella chiesa dei Santi Ulrico e Afra, a Kirchheim nel castello dei Fugger e soprattutto a Monaco di Baviera nel Residenz (nel Grottenhof, 1587-1588) e nella chiesa di San Michele. Aveva quindi lavorato negli stessi luoghi e negli stessi anni in cui Antonio Maria Viani aveva operato in Baviera. Se Viani si spostò a Mantova nel 1592, Pallago rimase a Monaco fino al 1596, lavorando soprattutto all’Antiquarium del Residenz, ma nel 1598 lo scultore era sicuramente a Mantova dove, colto dalla malattia, fece testamento indicando in Viani colui che avrebbe dovuto curare le sue esequie; a una figlia dell’architetto cremonese lasciava inoltre una collana con una medaglia d’oro. A Pallago vanno attribuiti i due angeli di terracotta, per le stringenti analogie con le figure in terracotta messe in opera nella chiesa di San Michele a Monaco, in particolare con gli Angeli con i simboli della Passione nel coro e nella navata della chiesa, opera di collaborazione dell’artista fiorentino e Hubert Gerhard. Considerando la presunta collocazione originaria nella Galleria della Mostra, il soggetto delle statue mantovane si dovrà ritenere di natura non religiosa e queste saranno forse interpretabili piuttosto come Vittorie. A conclusione del restauro, si è deciso di riportare le due opere nella Galleria della Mostra, nella loro originaria collocazione, dove il pubblico può attualmente ammirarle.
Chiude il percorso su Corte Nuova l’insolita collezione composta da reperti del mondo animale, vegetale e minerale della Wunderkammer gonzaghesca una sorta di enciclopedia tridimensionale del mondo visibile in un’epoca in cui scienza, folklore e mito si fondevano in una sintesi curiosa e bizzarra. Un coccodrillo, un dente di narvalo (il corno dell’unicorno), un armadillo, un raro bezoar, una mascella di squalo, fossili, pietre, lapislazzuli e altri reperti esposti a rievocare lo stupore di una collezione irripetibile, che affascinò viaggiatori e scienziati da tutta Europa nel corso dei secoli passati.
È ampliata e riccamente integrata la sezione dedicata alle conchiglie, a ricordarci la ricchezza di “Conchyliorum, Concharum, et Turbinatorum, quae a longinquis maribus allata, colorum varietate contendere inter se videntur” (conchiglie provenienti dai più remoti mari che gareggiano tra loro per forme e colori) descritte nel 1622. Sono presenti ancora i «Pessi marini et altri animali monstruosi» che già “ornavano” nel primo Cinquecento lo studiolo di Federico II; è presente una zampa d’elefante, simile a quella già ricordata in Palazzo Ducale nel 1601 da un francese, Pierre Bergeron («un pied tout entier de la grand beste»); le punte di freccia di selce, note allora come ceraunia, che si ritenevano i “fulmini pietrificati”. Al mondo dei simboli rimanda il camaleonte – ricordato già nella trattatistica medievale e rinascimentale come simbolo di versatilità (in termini positivi) – e la galleria accoglie oggi anche un pavone bianco. Nel 1593 se ne attendeva una coppia in dono da Firenze, dalla corte dei Medici, con i quali i Gonzaga erano imparentati. All’epoca questi uccelli giravano liberi per i giardini, così come nelle sale del Palazzo si potevano veder volare uccelli del paradiso e pappagalli tropicali.