Al Palazzo Ducale di Mantova è arrivato un... dente del mitologico unicorno, il celebre monoceros, il cavallo con un corno sul muso di cui si scrive fin dall’antichità, ovvero almeno dal V secolo a.C., quando Ctesia di Cnido, medico di Artaserse II Mnemone, re di Persia, affermava che nella pianura formata dai fiumi Gange e Indo, l’attuale Indostan, viveva una specie di asino dal vello bianco e dalla testa color porpora dalla quale spuntava un corno bianco vicino alla testa, nero al centro e cremisi sulla punta. Da quel momento, la leggenda dell’unicorno si diffuse fino a fargli assumere la forma del meraviglioso cavallo bianco con un corno in fronte.
Ovviamente stiamo parlando di un oggetto che, nella Wunderkammer dei Gonzaga, poteva essere ritenuto, date le conoscenze dell’epoca, il corno del favoloso animale: si tratta infatti di un dente di narvalo, che andrà ad arricchire la mostra permanente Naturalia e Mirabilia, allestita nella Galleria delle Metamorfosi di Palazzo Ducale con l’obiettivo di fornire una ricostruzione simbolica della camera delle meraviglie dei Gonzaga, mirata a evocarne atmosfere e suggestioni (leggi qui un nostro approfondimento). Il dente di narvalo, tra Quattro e Cinquecento, era un oggetto raro e costosissimo (il valore dell’oggetto era legato alla sua rarità, alla sua origine misteriosa, al suo intrinseco valore allegorico e alle sue presunte proprietà terapeutiche: se polverizzato, infatti, il corno era ritenuto secondo la medicina del tempo il miglior antidoto possibile contro il veleno), e fino alla metà del XVII neppure si sospettava l’esistenza di questo cetaceo dei mari del nord (almeno non in Italia): la sua lunga zanna a forma di vite passava proprio per essere il corno del misterioso e mitologico unicorno.
“L’unicorno”, scrive Stefano L’Occaso, direttore del Palazzo Ducale di Mantova, nel catalogo di Naturalia e Mirabilia, “era uno dei maggiori vanti della raccolta mantovana. Una prima attestazione certa della presenza dell’oggetto a Mantova è [...] tra i beni di Isbaella d’Este, la marchesa moglie di Francesco II Gonzaga. Un inventario redatto nel 1540-1542, poco dopo la sua morte, segnala nella sua Grotta ‘una corna di alicorno longa palmi sette e mezo, la quale è posta sopra l’armarii, suso duoi rampini torti de fuora via‘. Pezzi di unicorno erano però presenti a Mantova anche oltre un secolo prima. Il 4 febbraio 1404, Anna Visconti, terza moglie di Francesco I Gonzaga, ricevette un ‘petius de alicorno, cum catenella de argento’; in un elenco del 7 febbraio 1410, pertinente ai beni consegnati a Paola Malatesta, sposa di Gian Francesco Gonzaga, è indicato ‘unum frustrum frustrum ossii de unicorno fulcitum argento, cum una chatenela alba”, forse lo stesso pezzo attestato sei anni prima”.
Il corno di “palmi sette e mezo” (ovvero circa 175-180 cm) che si trovava nella Grotta di Isabella d’Este fu spesso studiato nel Cinquecento e nel primo Seicento. Nel 1571 l’insigne naturalista Ulisse Aldrovandi, accolto da Guglielmo Gonzaga a Palazzo Ducale, riportava di aver visto “un unicorno della lunghezza di nove palmi e della circonferenza di tre palmi in quella parte ove s’innesta nella pelle, poi gradualmente si rastrema verso l’estremità. Fatto a spirale, è scanalato e contorto, di colore bianchiccio”. Secondo Aldrovandi, il corno mantovano era uno dei due più belli d’Europa (l’altro era quello di re Sigismondo di Polonia: li avrebbe poi illustrati entrambi nella sua opera De quadrupedis solipedibus). Del resto, nel Rinascimento il corno era sinonimo di potere: il “Trono della Consacrazione” dei reali di Danimarca, nel Castello di Rosenborg a Copenaghen, è costruito in gran parte utilizzando i denti di narvalo. E di conseguenza non potevano mancare neppure nelle corti rinascimentali italiane.
Fu proprio nel corso del Seicento che l’oggetto perse progressivamente il suo valore mitico, anche se la sua fortuna era dura a morire. Il medico danese Olaus Worm spezzò infine l’incantesimo nel suo Musaeum Wormianum del 1655, seguito poi da altri studiosi: gli unicorni non esistevano, quelli che si ritenevano i loro corni erano in realtà denti di narvalo, un cetaceo che abita i mari del Nord e i cui esemplari maschi possiedono un dente che fuoriesce dal labbro superiore per formare una zanna della lunghezza anche superiore ai due metri. I denti di narvalo venivano trovati spiaggiati sui litorali del nord Europa, di solito senza teschio e senza carcassa. Di conseguenza a molti l’origine di questo oggetto risultava incomprensibile e questo mistero ne accresceva il valore. Tanto che nel 1582 Ambroise Paré, medico del re di Francia, poteva affermare che l’unicorno valeva più dell’oro.
Nelle sale di Palazzo Ducale a Mantova si trovano almeno tre rappresentazioni della creatura fantastica. Un affresco nel camerino degli Uccelli, in Corte Nuova, databile al 1570 circa; nello stemma della famiglia Petrozzani, sulla campana esafinestrata datata 1593 (corridoio di Santa Barbara) e nell’Età dell’Oro di Sante Peranda, dei primi del Seicento, ora nella sala del Labirinto. Adesso, alle immagini dipinte, si aggiunge così il dente di narvalo che nel Rinascimento si riteneva fosse il vero corno: la zanna di Palazzo Ducale, arrivata pochi giorni fa e già inserita nel percorso di visita del museo, è giunta dopo un lungo viaggio, con tanto di certificati che attestano come l’oggetto non derivi da caccia illecita. Le popolazioni Inuit infatti possono cacciare il narvalo da agosto a ottobre e le zanne raccolte possono uscire dal Canada solo per ragioni particolari. “Noi crediamo che le autorità canadesi non abbiano potuto resistere al fascino di Isabella d’Este”, dicono scherzosamente da Palazzo Ducale, “ed ecco quindi che il ‘suo’ corno, lungo proprio 178 cm, ora fa bella mostra di sé fluttuando sulle nostre teste nella Galleria delle Metamorfosi”.
Nella foto, il dente di narvalo già installato nella Galleria delle Metamorfosi di Palazzo Ducale.