Il libro Ecce Caravaggio. Da Roberto Longhi a oggi di Vittorio Sgarbi, pubblicato da La Nave di Teseo (264 pagine, 20 euro, EAN 9788834608173), è il primo corposo saggio sull’Ecce Homo emerso lo scorso aprile in un’asta della casa spagnola Ansorena e da molti studiosi attribuito a Caravaggio. Il volume, in una elegante veste editoriale con copertina cartonata e sovraccoperta e ricco d’immagini stampate su carta patinata, è suddiviso in quattro parti: la prima è dedicata all’Ecce Homo Ansorena e accoglie un’introduzione di Vittorio Sgarbi, una testimonianza di Antonello Di Pinto (l’antiquario che ha riscontrato la presenza del dipinto nell’asta dello scorso aprile, dalla quale, com’è noto, l’opera venne poi ritirata per eccesso d’interesse), e i contributi scientifici di Francesca Curti, Michele Cuppone e Sara Magister. La seconda ripercorre invece sette decenni di critica caravaggesca a partire dalla “riscoperta” longhiana del 1951, con contributi di Sgarbi e Cuppone. La terza contiene invece i saggi di Barbara Savina e Giacomo Berra su due questioni aperte, ovvero, rispettivamente, il noto problema delle repliche delle opere caravaggesche e il caso del San Francesco in meditazione sulla morte tra possibili originali e copie. Il libro si chiude con l’ultima parte che include contributi (di Gianni Papi, Mina Gregori e Sgarbi: i primi due sono saggi già editi e fungono da contestualizzazione per il nuovo contributo di Sgarbi) attorno a un’ulteriore novità caravaggesca, una Maddalena in estasi, riemersa dopo decenni di oblio, che è stata esposta per la prima volta al Mart di Rovereto in una mostra curata dallo stesso Sgarbi.
Nell’introdurre il tema principale affrontato dal libro, Sgarbi ricostruisce la storia recentissima dell’Ecce Homo Ansorena: l’autore ricorda di come il 25 marzo abbia ricevuto da Antonello Di Pinto la segnalazione del quadro che sarebbe andato in asta in Spagna, con attribuzione alla cerchia di José de Ribera. “Ma alla visione dell’immagine”, scrive Sgarbi, "io non ho dubbi. Non si tratta certo di Mattia Preti, e neppure di altro maestro nel genere di Bartolomeo Manfredi o Jusepe de Ribera, i primi ’ortodossi’ caravaggeschi; ma di ’lui’ in prima persona. Caravaggio. Inequivocabile". Sgarbi non si attribuisce il primato della scoperta, da lui ritenuta condivisa almeno con Massimo Pulini e con Maria Cristina Terzaghi, della quale si attende la pubblicazione di un articolo sul tema, non ancora disponibile nonostante le anticipazioni date da Finestre sull’Arte quando, a partire dall’annuncio dato il 28 luglio da El País, la sua uscita sembrava prossima (benché Sgarbi rivendichi di averne scritto per primo tra gli studiosi l’8 aprile, il giorno dopo il ritiro dell’opera dall’asta, per ragioni di prudenza, quindi non è possibile stabilire chi per primo si sia effettivamente accorto del dipinto). Stando allo storico dell’arte ferrarese c’è “poco da attribuire”, e le uniche questioni da risolvere riguarderebbero la datazione, l’occasione della realizzazione e i passaggi proprietari. Sgarbi prova poi a ricostruire le circostanze che avrebbero potuto dare origine al dipinto: non il soggiorno romano, come invece pensa Massimo Pulini, e neppure gli anni siciliani. Scartata anche l’ipotesi di una committenza Massimi (che risalirebbe al 1605 e quindi al soggiorno romano: un’ipotesi non percorribile a causa di incompatibilità con le notizie che si ricavano dai documenti), rimane aperta la possibilità che l’opera sia stata eseguita dall’artista lombardo a Napoli. Sgarbi ricorda pertanto, come hanno fatto in molti nelle ore successive alla scoperta (su queste pagine si leggano al proposito le interviste a Rossella Vodret e Antonio Vannugli), che un Ecce Homo è citato nel 1657 nell’inventario dei beni del conte di Castrillo García Avellaneda y Haro, viceré di Napoli, e in effetti le acquisizioni documentarie più recenti si collocano attorno a questa pista, che gli studiosi stanno cercando di tracciare a ritroso, a partire dagli ultimi proprietari (la famiglia Pérez de Castro, discendenti di Evaristo Pérez de Castro, presidente del consiglio spagnolo a inizio Ottocento che, come attesano i documenti della Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, permutò un’opera data a Caravaggio con una di Alonso Cano). C’è infine il problema dell’Ecce Homo di Palazzo Bianco a Genova, che in presenza di quello Ansorena forse dovrebbe essere espunto dal catalogo caravaggesco, benché rimanga aperta l’ipotesi di una variante autografa e pur restando un’opera di alta qualità (questa la posizione di Sgarbi) che certo non diminuirà l’importanza del patrimonio storico-artistico del capoluogo ligure anche se dovesse perdere l’attribuzione a Caravaggio.
La copertina del libro |
Francesca Curti, nel suo saggio, riepiloga i documenti e le fonti letterarie che riguardano o potrebbero riguardare l’Ecce Homo Ansorena o altri dipinti aventi lo stesso soggetto: in particolare, si menzionano le citazioni letterarie di Bellori, Giovan Battista Cardi e Filippo Baldinucci che parlano del quadro Massimi commissionato a Caravaggio nel 1605, e poi ancora un Ecce Homo registrato nell’inventario di Juan de Lezcano del 1631, e ulteriori Ecce Homo che compaiono negli inventari di don García Avellaneda y Haro, secondo conte di Castrillo, viceré di Napoli tra il 1654 e il 1658 (il passaggio inventariale è del 1657), in una nota sui beni di Lanfranco Massa (1630), e in un riferimento a un ciclo della Passione commissionato a Caravaggio da un messinese, Nicolò di Giacomo, nel 1609. Sulla base dell’analisi di queste fonti, secondo Curti l’artista sembra abbia dipinto almeno due Ecce Homo: “uno di grande formato per i Massimi”, spiega la studiosa, “e uno di dimensioni più ridotte (circa cinque palmi) di proprietà Castrillo che potrebbe anche essere quello Lezcano”. Che, a sua volta, potrebbe essere quello Ansorena, come ricordato sopra. È comunque probabile, data la folta presenza in Sicilia di Ecce Homo di artisti minori derivanti da prototipi caravaggeschi, che “il pittore abbia realizzato nell’isola una o più tele con questo soggetto”, che però non emergono dalle tracce archivistiche.
Quello che è invece possibile fare, è seguire le tracce spagnole, ed è ciò che ha fatto Cuppone nel suo saggio, presentando trascrizioni inedite (o rivedute) da documenti spagnoli. In particolare, come accennato sopra, si può ripercorrere all’indietro la storia del dipinto a partire dagli attuali proprietari, i Pérez de Castro, discendenti di quell’Evaristo che fu politico e diplomatico capace di ricoprire importantissime cariche nell’amministrazione spagnolo all’inizio dell’Ottocento (oltre che presidente del consiglio fu anche redattore della Costituzione di Cadice del 1812). Nel 1823, Evaristo Pérez de Castro acquisì il dipinto Ansorena: il passaggio è citato in un fascicolo di quell’anno della Real Academia de Bellas Artes de San Fernando che parla di una “permuta de un cuadro de Alonso Cano por un Ecce-Homo de Caravaggio, propuesta por don Evaristo Pérez de Castro”, che nel 1800 era accademico onorario (il quadro di Alonso Cano, un San Giovanni Battista, è peraltro tuttora proprietà dell’accademia madrilena). La domanda che occorre dunque porsi è: in che modo l’Ecce Homo dato a Caravaggio (senza alcuna esitazione) arrivò all’istituto? Negli inventari della Real Academia figura per la prima volta nel 1817, ma è interessante il fatto che Cuppone dia conto di un documento del 1824 (un inventario generale dei beni dell’accademia) in cui si parla della permuta e si dice che l’Ecce Homo era “perteneciente a los [cuadros] que se trageron del secuestro de Godoy”. Il Godoy citato è il nobile e politico Manuel Godoy, al quale l’opera sarebbe appartenuta: la notizia contenuta nell’inventario è però da verificare, spiega Cuppone (che avanza l’ipotesi che sia stata fatta confusione con un altro Ecce Homo, di Luis de Morales, effettivamente appartenuto a Godoy e passato poi all’Accademia), per, per il fatto che le ricerche di un’altra studiosa, Itziar Arana, hanno invece appurato che all’epoca della permuta un altro documento dichiarava che non era nota la provenienza dell’Ecce Homo. Se però la pista Godoy fosse valida (gli studi stanno vagliando proprio questa ipotesi) si potrebbe percorrere l’idea di una provenienza di altissimo livello per l’Ecce Homo Ansorena (si potrebbe azzardare che arrivi dalle collezioni reali di Spagna), che renderebbe ancor più probabile un’attribuzione a Caravaggio anche sulla base della storia dell’opera.
Caravaggio (attr.), Ecce Homo (olio su tela, 111 x 86 cm) |
Prima del secondo contributo di Cuppone, che ripercorre le principali notizie sull’Ecce Homo uscite sulla stampa a partire dal 7 aprile, e della vivace testimonianza di Antonello Di Pinto, Sara Magister si concentra sull’iconografia del dipinto evidenziando alcuni interessanti dettagli. Uno dei principali motivi d’interesse della tela Ansorena sta nel fatto che si colloca, scrive Magister, in un novero d’opere situate nella “via di mezzo tra narrazione e contemplazione, quando alla figura iconica del Cristo sono associati, spesso con fisionomie e atteggiamenti in forte contrasto, uno o due personaggi chiave del racconto”: una combinazione tipica della pittura di Tiziano o di quella lombardo-veneta del tardo Cinquecento, e che si riscontra anche nel dipinto Ansorena, “sintesi asciutta del racconto di Giovanni, tutta giocata sulla tesissima contrapposizione tra gli opposti: eleganza contro volgarità, solennità e grettezza, idealizzazione e realismo, bellezza e brutalità, controllo e istinto e, non da ultimo, luce e ombra”. Ancora, Magister indica nel rapporto tra i volti, pensato per coinvolgere l’attenzione dello spettatore, uno degli elementi di maggior interesse del dipinto, esaltato dal verismo delle espressioni: un insieme di idealizzazione e umanizzazione utile a manifestare la natura divina di Gesù nella sua umanità e ad anticipare la gloria della resurrezione. Poi, è possibile soffermarsi su alcuni elementi che hanno catturato l’attenzione degli studiosi, a cominciare dalla “macchia luminosa” al centro del capo di Cristo, non semplice da decifrare stante anche l’attuale stato di conservazione del dipinto, che attende una pulitura. Secondo Magister, che rifiuta l’idea di idealizzare questo dettaglio come hanno proposto altri (come Alessandro Zuccari e Pulini), potrebbe essere un dettaglio, al contrario, estremamente realistico, ovvero “il punto di strappo del lungo ramo utilizzato per la corona di spine”, come sostenuto per prima da Kristina Hermann Fiore e, successivamente, anche da Giacomo Berra. Altro elemento meritevole di approfondimento sono le mani di Pilato che non puntano su Gesù ma sul mantello rosso che gli viene posto sulle spalle dall’aguzzino: un particolare di estrema rilevanza perché potrebbe spostare leggermente in avanti la narrazione dell’episodio evangelico, quindi non più il momento dell’Ecce Homo in senso stretto, quando cioè Pilato mostra Gesù al popolo, ma quello, raccontato dal vangelo di Giovanni, in cui Pilato domanda al popolo se davvero vuole mettere in croce il “re” dei giudei (il mantello rosso è attributo regale). Un dettaglio di grande originalità che, secondo Magister, “centra ancora meglio il cuore teologico e il messaggio della vicenda sacra narrata, secondo una modalità interpretativa e di linguaggio che è tipica soprattutto del Merisi e della sua sofisticata committenza”: dunque non il momento della presentazione di Cristo al popolo, il momento in cui Gesù viene sottoposto a giudizio con, pertanto, un’ultima possibilità di ravvedimento, bensì il punto di non ritorno, quello in cui “la storia verrà cambiata per sempre”.
In ultimo, varrà la pena aprire una discussione sul contributo di Sgarbi attorno a una nuova Maddalena in estasi variante di una composizione ben nota (quella della Maddalena in estasi un tempo in collezione Klain che costituisce l’esemplare probabilmente più noto). “Al culmine di passioni e discussioni caravaggesche intorno al sorprendente Ecce Homo di Madrid”, scrive Sgarbi, “appare, con la immediatezza brutale e la semplicità di una esecuzione di getto, senza pentimenti, una inedita versione della Maddalena del Caravaggio che ha, con la conservazione verginale, una immediatezza nel volto e nelle mani, rese nelle altre versioni in modi più scolastici e sommari. C’è una naturalezza, nel dipinto che intenerisce le carni e nell’intreccio molle delle dita, che ha una vita calda e palpitante come un calco dal vero". Per Sgarbi, questa Maddalena in estasi conservata in una collezione privata di Roma e riemersa nel 2010 a seguito di una segnalazione di Nicoletta Retico (anche se si tratta di un dipinto che era già noto, seppur a pochi: tra gli anni Quaranta e Cinquanta fu restaurato da Pico Cellini, che lo fece vedere a Roberto Longhi e lo segnalò a Maurizio Marini nel 1969, il quale nel 1974 ne pubblicò un’immagine definendo il quadro “di gusto saraceniano e di sensibile qualità, non esente da rigidezze interpretative”), è il punto di arrivo delle ricerche che Caravaggio cominciò con la Maddalena della Galleria Doria Pamphilj. “La disinvoltura e la semplicità dell’esecuzione che abbiamo rilevato”, conclude Sgarbi, “potrebbero aprire la strada a riconoscere nel dipinto riemerso ora una prova eseguita di getto, senza pentimenti, come abbiamo osservato, per poi tornare, nell’arco di quei giorni torbidi e inquieti, a rimeditare sullo stesso soggetto, come d’altra parte piacerà, qualche tempo dopo, al Finson, suo seguace incantato davanti all’invenzione scabra ed essenziale del maestro dannato e perduto”. Altro materiale su cui discutere, dunque, casomai non bastasse l’Ecce Homo Ansorena.