Un nuovo libro dello storico dell’arte Stefano Zuffi che mette in parallello le vite di due grandi del passato: dopo Eterni ragazzi. Raffaello e Mozart, due vite allo specchio, lo studioso milanese da diversi anni prestato alla divulgazione di qualità firma il volume Giotto e Dante. Paradiso per due, ancora pubblicato da Enrico Damiani Editore (188 pagine, € 16,00, ISBN 9788899438821), in occasione del settecentenario della nascita di Dante Alighieri. Questa volta però il paragone non è più solo sul piano ideale, ma diventa un confronto più stringente, dato che Giotto e Dante furono coetanei (nato nel 1267 il primo, nel 1265 il secondo), erano della stessa città, probabilmente frequentarono gli stessi ambienti o ambienti simili, e quasi sicuramente si conobbero di persona.
Dante, com’è noto, cita Giotto in una celebre terzina del Canto XI del Purgatorio (“Credette Cimabue ne la pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura”), e a sua volta Giotto (o un suo collaboratore) inserisce Dante fra i beati nella schiera che si osserva nella cappella del Podestà del Palazzo del Bargello, peraltro al centro di una recente mostra (Onorevole e antico cittadino di Firenze. Il Bargello per Dante) che si è tenuta sempre in occasione dei settecento anni dalla morte del Sommo Poeta. “Coetanei e conterranei”, scrive Zuffi nell’introduzione del libro, “si sono certamente incontrati diverse volte, non solo da giovani a Firenze ma con ogni probabilità anche negli anni successivi, in altre città, come Padova e Ravenna; che si stimassero reciprocamente non c’è dubbio, fra le loro opere c’è una evidente relazione; ma molto meno probabile è che fossero davvero amici, il loro rapporto di stima era semmai mosso da una certa consuetudine e dal campanilismo fiorentino”. Le loro vite poi incrociarono destini completamente opposti: Dante fu esiliato nel 1302 e passò gli ultimi anni della sua vita lontano da casa, nella speranza, sempre frustrata, di poter fare un giorno ritorno (la sua memoria sarebbe stata riabilitata soltanto molti anni più tardi), mentre Giotto, al contrario, ottenne gloria e onori e mentre il poeta vagava ramingo per le corti d’Italia, Giotto diventava l’artista più acclamato di Firenze ottenendo lavori e incarichi dai più importanti clienti, dai Bardi e dai Peruzzi fino all’Opera del Duomo.
Con un percorso diviso in dieci capitoli, Zuffi traccia analogie e differenze tra le personalità di Dante e Giotto (la suggestione di legare in qualche modo le vite di questi due grandi risale già a Vasari: lo storiografo aretino aveva definito Dante come “amico suo grandissimo” riferendosi a Giotto e parlando del ritratto del poeta nella Cappella del Podestà) ma anche tra la poesia del primo e la pittura del secondo, sullo sfondo di una Firenze, quella di metà Duecento, che era all’epoca una delle città più popolate e ricche d’Europa e fu dunque terreno fertile per la fioritura delle arti e delle lettere. Un doppio ritratto che non risparmia neppure la descrizione del temperamento del poeta e del pittore, prescindendo dalla mera celebrazione ma andando anche a scavare nei difetti e nelle asprezze dei caratteri, in particolare di quello di Dante, che le fonti descrivono come un uomo lussurioso e che, nonostante la venerazione per Beatrice, non disdegnava la compagnia femminile anche al di fuori del matrimonio con Gemma Donati, e poi severo, arcigno, permaloso e orgoglioso fino all’eccesso (Zuffi raccoglie anche alcuni aneddoti che vedono Dante al centro di singolari episodi di orgoglio ferito). Giotto, al contrario, sapeva essere persona di compagnia, era uomo dalla battuta pronta e che sapeva stare allo scherzo (fino al punto di scherzare anche sui suoi figli), ma dall’altro lato era anche attaccato ai soldi (un difetto che invece non toccò Dante, che al contrario era più interessato alla politica, al prestigio e alla fama che al denaro) e portato all’accumulo (una sua opera poteva valere quanto le intere entrate annuali di una famiglia del ceto medio del tempo).
Zuffi trova poi altre interessanti connessioni: un intero capitolo, per esempio, è dedicato all’iconica pecora, l’animale da sempre associato a Giotto (lo storico dell’arte rileva come, nella scena della cacciata di Giacobbe dipinta nella Cappella degli Scrovegni e scelta come copertina del libro, le pecore che compongono il gregge di Giacobbe siano tutte una diversa dall’altra, “e così”, scrive Zuffi, sarà tutte le volte che Giotto dipingerà le sue pecore“), che in Dante è protagonista di una celebre metafora nel Purgatorio (”Come le pecorelle escon del chiuso / a una, a due, atre, e l’altre stanno / timidette atterrando l’occhio e ’l muso"... ) ma anche di un passaggio nel Convivio in cui gli ovini diventano simbolo degli uomini che agiscono seguendo gli altri e non ragionando per conto proprio. Ad accomunare però Dante e Giotto in modo più solido è la figura di san Francesco: un ulteriore capitolo è dedicato al Francesco degli affreschi della Basilica Superiore di Assisi e a quello del Paradiso dantesco. “Dante”, scrive l’autore, "fa scorrere la vita di Francesco come se si srotolasse davanti ai nostri occhi un nastro di scene affrescate da Giotto. Il punto però di massima vicinanza tra Giotto e Dante è, secondo Zuffi, la cappella degli Scrovegni, i cui affreschi nascono negli stessi anni della Divina Commedia: “come i singoli canti e i vari personaggi di Dante prendono senso e vigore, potenziandosi a vicenda nell’ambito della struttura del poema, così le scene affrescate da Giotto sono i capitoli di un incalzante e coerente racconto visivo, sul medesimo tema dantesco del cammino della salvezza dell’uomo. Giotto e Dante [...] non sono mai stati così vicini come sulle pareti della cappella degli Scrovegni”. Al punto che non è da escludere che i due possano essersi incontrati a Padova. C’è poi un capitolo in cui si rilancia l’ipotesi che Dante si dilettasse con la pittura: dai suoi scritti emergono competenze tecniche avanzate, conoscenza degli ambienti artistici del tempo (vengono citati non soltanto Giotto e Cimabue ma anche altri artisti, come il miniatore Oderisi da Gubbio, protagonista di alcuni versi che lo affiancano a un altro miniatore, un “Franco bolognese” del quale però non abbiamo notizie), e ci sono alcune notizie (Vasari dice per esempio che gli affreschi che decoravano una delle cappelle di Santa Chiara a Napoli, chiesa francescana, erano “per quanto si dice invenzione di Dante”) che indicano una vicinanza molto prossima di Dante all’arte. Chissà che dunque non si sia cimentato lui stesso con colori e pennelli, pensa l’autore del libro.
Mondi simili, dunque, mondi che si toccano: “mi piace immaginare (e non è davvero difficile farlo)”, scrive Zuffi, “che i personaggi che popolano la Divina Commedia abbiano l’aspetto, la corporatura massiccia, gli abiti, gli sguardi dardeggianti di quelli che animano gli affreschi di Giotto”. Ma non ci sono soltanto gli esseri umani: Zuffi trova analogie anche nel modo in cui Giotto e Dante guardavano alle stelle: quelle dipinte sul soffitto della Cappella degli Scrovegni e quelle con cui Dante chiude tutte le cantiche della Divina Commedia. Dante e Giotto guardavano con passione alle stelle, studiandone gli influssi e cercando di “ascoltare la mistica musica delle sfere che ruotano nel buio della notte”. Ecco, secondo Zuffi, uno dei lasciti più importanti di Dante e Giotto è proprio l’insegnamento che ci spinge a “guardare in alto”.