Definire cosa sia un viaggio è compito piuttosto semplice, almeno sulle apparenze: di solito s’intende per “viaggio” lo spostamento dal luogo in cui si risiede, stabilmente o temporaneamente, verso un altro luogo, che s’immagina per lo più lontano o come minimo raggiungibile impiegando una parte consistente della propria giornata. La verità dei fatti però è un’altra: ognuno intende il concetto di “viaggio” un po’ come gli pare. A costo di dire una banalità, un moto da un luogo A verso un luogo B può non esser da tutti identificato come un “viaggio”, o quanto meno non tutti sono mentalmente disposti allo stesso modo nei riguardi d’uno stesso tragitto. Nel ristretto orizzonte delle mie abitudini personali, posso dire che la mia definizione è ancorata ai motivi dello spostamento: se devo recarmi verso un altro luogo per ragioni di lavoro, non importa se in un posto raggiungibile in mezz’ora o se dall’altra parte del mondo, ho preso a riferirmi a questo tipo di spostamenti col termine “trasferta”. Se lo spostamento è per puro diletto, allora diventa una “vacanza”. Se è per entrambi i motivi, conta la dimensione prevalente o quella prioritaria. Per “viaggio” sono solito intendere tutto quel che accade tra la partenza e la destinazione, ammesso che la meta si trovi almeno a più di due ore di distanza dalla base, e che non sia un luogo consuetudinario.
Credo che questo mio modo d’intendere il viaggio abbia a che fare, più che con lo spostamento fisico che ogni viaggio comporta, con l’esperienza che un viaggio dovrebbe far maturare. È del resto comune ritenere che un viaggio sia un’attività che, tipicamente, arricchisce chi la svolge. Ora, non so chi sia stato il primo ad affermare ch’è possibile viaggiare ovunque senza che si stia realmente viaggiando, e che al contrario si può viaggiare anche attorno a casa, ma per inquadrare il concetto giunge in soccorso un frammento della Favola pitagorica di Giorgio Manganelli: “Il viaggio è fatto in primo luogo di se stesso. È uno spazio longitudinale, dentro il quale, come in una fessura del pianeta, cadono immagini, profili, parole, suoni, monumenti e fili d’erba. Si possono fare diecimila miglia senza per questo aver viaggiato; si può fare una passeggiata, e la passeggiata può diventare quella fessura, essere viaggio”.
Naturalmente mi riesce difficile pensare a una passeggiata come a un viaggio, per quanto il mio ideale di “viaggiatore” somigli, seppur in apparente contrasto con quel che s’è detto sopra, molto più al flâneur abituato a fare il turista nella propria città, o in quelle ch’è solito frequentare, che al globetrotter instancabile, impegnato ad aggiornare la conta dei paesi visitati, e che spesso vive e lavora in funzione del suo prossimo viaggio. Si può tuttavia presumere che ci sia un elemento comune a qualunque viaggio, da quello più avventuroso, stravagante ed esotico a quello più banale, ripetitivo, ordinario: ogni viaggio ha a che fare, in maniera più o meno intensa, con le dimensioni dell’immaginazione, della memoria, della fantasia, della stimolazione dei sensi. È ciò che scrive Remo Carulli, psicologo, psicoterapeuta ed esperto di letteratura odeporica (è anche prolifico autore per Lonely Planet), nel suo libro Psicologia del viaggiatore (Gesualdo Edizioni). Un viaggio, prima ancora d’essere uno spostamento attraverso lo spazio, è un movimento dentro noi stessi: estremizzando questo concetto, si potrebbe dire che è possibile viaggiare anche rimanendo seduti a casa propria. Nel raffinato libro di Carulli, impuntito di colti richiami letterarî, si parte giusto da un paio d’esempî estremi. Il primo è il giovane Des Esseintes di Huysmans, che spinto dal desiderio di visitare Londra decide, prima di prendere il treno per l’Inghilterra, di fermarsi in un ristorante inglese nella sua Parigi: ricordando però la disillusione d’un suo precedente viaggio in Olanda, che aveva finito per ritenere “un paese come gli altri” malgrado le aspettative, e così attratto dall’umanità varia ch’entrava e usciva dal ristorante da non riuscire a staccarsene, finisce per annullare il viaggio, chiedendosi “perché muoversi quando si poteva viaggiare così magnificamente su di una sedia”. Il secondo è il Viaggio intorno alla mia camera di Xavier de Maistre, commento in quarantadue capitoli della stanza dello scrittore, luogo in cui oggetto suscita all’autore ricordi, gli fa venire in mente racconti, lo induce a speculazioni filosofiche.
Controcorrente e Viaggio intorno alla mia camera non sono da classificare esattamente nella letteratura di viaggio, ma hanno somma efficacia nel dimostrare che “se non muovesse qualcosa di intimo il viaggio non sarebbe viaggio”, scrive Carulli. “Se non scatenasse nella nostra mente lo stesso dinamismo che ne contraddistingue lo sviluppo della materialità del mondo, esso apparterrebbe ad un’altra categoria di fenomeni”. Non esiste un viaggio che non produca un cambiamento interiore, anche se minimo o di minor conto. Da una trasferta di lavoro si può tornare soddisfatti, per aver contribuito a far crescere la propria azienda o per aver imparato qualcosa, o al contrario si può tornare delusi e frustrati, e in ogni caso il viaggio avrà avuto un effetto, positivo o negativo, o quanto meno avrà incrementato il proprio carico d’esperienza. Da una vacanza si può tornare rilassati o ancor più agitati di prima, e in ogni caso si sarà prodotto un cambiamento nella nostra mente, se non altro perché gli occhi si sono nutriti d’immagini nuove. Accade anche durante i viaggi apparentemente più regolari, più meccanicamente organizzati, anche se la propria disposizione d’animo non è, mettiamo, quella d’un Prosper Mérimée che, in una delle lettere del suo Viaggio in Spagna, si dispiaceva di non aver incontrato i briganti di cui aveva tanto sentito parlare, ritenendo che sacrificare una borsa da viaggio e qualcuno dei suoi effetti personali fosse un prezzo che valeva la pena pagare in cambio dell’opportunità di conoscere quei famigerati malviventi, rendersi conto di come vivessero, magari sentire qualche loro racconto. No: anche una settimana al villaggio vacanze di Sharm el-Sheikh, nonostante i pregiudizî di chi ama viaggi più inusuali o più rocamboleschi, secondo Carulli non può essere esclusa dall’esperienze di viaggio, per quanto indiscutibilmente più “annacquata” rispetto alle peripezie di chi, per esempio, sceglie di spostarsi lungo il Nilo con lo zaino in spalla. E questo perché, nonostante “i limiti di alcune forme prettamente vacanziere […], non bisogna sottovalutare un elemento decisivo, per quanto banale, da cui sono contraddistinte: il fatto che regalino ai nostri sensi stimoli inediti”.
“La mente”, spiega Remo Carulli, “ha bisogno di immagini che permettano al linguaggio di vitalizzare le esangui analisi della razionalità e, defluendo nelle diverse figure retoriche, spingere il pensiero oltre i limiti della realtà tangibile”. È questo il fondamento su cui occorre cercare di sondare le basi psicologiche del viaggio, proposito cui aspira il volume di Carulli: un libro che si rivolge a tutti i viaggiatori, una lettura utile anche per chi non viaggia mai, un’esplorazione dei meccanismi che muovono i pensieri di chi viaggia, senza tecnicismi ma non per questo senza rimandi scientifici, con una prosa fresca, vivida ed elegante, con continui rimandi alla filosofia, alla poesia, all’arte, alla letteratura, per comporre un coloratissimo tappeto di riferimenti culturali utili per consentire al lettore d’orientarsi, d’approfondire, di misurarsi di continuo con l’esperienze dei viaggiatori del passato e del presente.
Psicologia del viaggiatore, dopo aver definito il perimetro del viaggio, prende in esame le motivazioni del viaggiatore riscontrando, sulla base della letteratura scientifica, che viaggiare è un’attività radicata nell’essenza profonda degli umani, tanto che se ne possono individuare i prodromi fin dalla primissima infanzia, e poiché tutti, in fondo, siamo viaggiatori, il viaggio assume caratteristiche particolari per ogni persona e, di conseguenza, riflette la personalità d’ognuno. “Tutti i nostri limiti, modelli operativi, meschinità, slanci ideali, timori, capacità si riversano nel modo in cui viaggiamo, e già solo dal contenuto della valigia o dello zaino potremmo ricavare più informazioni su una persona che in un colloquio clinico”. La direzione non ha importanza, poiché per la mente, spiega Carulli, l’importante non è la destinazione, ma il viaggio in sé. Si può anche viaggiare agognando tremendamente il ritorno: nei Microcosmi di Claudio Magris è quel che capita agli abitanti della Valcellina costretti a lasciare i loro paesi per andare a lavorar lontano (“In queste valli aspre, un tempo fra le più povere del povero Friuli pedemontano, gli uomini emigravano, andavano a scavare miniere o a costruire strade e ferrovie in Francia o in Siberia, e le donne, con le gerle sulle spalle piene di cucchiai e mestoli di legno, si recavano a piedi da un villaggio all’altro a vendere la loro roba di casa in casa, dormendo nei fossati e nei fienili, ma la meta del viaggio era per tutti, ogni volta, il breve ritorno”). Il viaggio, del resto, è sempre motivato da un desiderio, e la capacità di desiderare qualcosa, se da intendersi come l’impeto di volontà che muove una persona ad attivarsi per possedere un oggetto, vivere un’esperienza o raggiungere un traguardo, è un impulso che separa l’essere umano dagli altri animali: si potrebbe dunque concludere che l’essere umano è per sua natura viaggiatore. Benché qui riassunta malamente, la si può considerare una delle constatazioni più interessanti e rivelatrici del libro di Remo Carulli, uno dei punti salienti della trattazione, che giunge alla fine d’una prima, appassionante perlustrazione della psiche del viaggiatore, e produce l’effetto d’offrire argomentazioni convincenti anche a chi non ama viaggiare o non viaggia per niente.
C’è poi, tra i tanti, un altro elemento interessante: l’idea che, durante il viaggio, non esistano gradi di separazione tra la conoscenza di ciò che s’osserva durante il viaggio e la conoscenza di noi stessi. Per rendere chiaro il concetto, Carulli si rifà all’esempio del Viaggio in Italia di Goethe, soffermandosi, in particolare, sulla sua visita a Verona: il grande scrittore tedesco elenca le opere più interessanti ammirate in città, dall’Assunzione di Tiziano nel Duomo fino ai tanti quadri di nobilissimi artisti conosciuti nelle gallerie dei privati cittadini. Goethe è consapevole di capire poco di arte, ma non è questo il punto: “lo scopo di questo mio magnifico viaggio”, scrive, “non è quello d’illudermi, bensì di conoscere me stesso nel rapporto con gli oggetti; e allora devo dire con tutta sincerità che poco m’intendo dell’arte del pittore, del suo mestiere”. Nella sua breve premessa alla descrizione delle meraviglie di Verona, Goethe intende dire che “ciò da cui la nostra attenzione è attratta”, scrive Carulli, “è rivelatore della nostra vita interiore, del nostro modo di percepire, di relazionarci con il mondo: di fronte a quella stessa Assunzione della Vergine di Tiziano custodita nel Duomo, un credente coglie lo sguardo ieratico che la Madonna rivolge verso il basso, un esperto d’arte paragona quest’opera ad altre di Tiziano sullo stesso tema, un poeta è magari catturato dalle nubi che scandiscono vaporosamente la parte superiore della pala; ed ancora, c’è chi rimane a bocca aperta per l’uso strabiliante del colore, chi cerca di decifrare le espressioni degli uomini sottostanti, chi si diletta a studiare gli abiti come in una rivista di moda, chi s’intristisce per non cogliere proprio nulla in ciò da cui altri rimangono così rapiti, e chi dallo stesso sconfortante pensiero ricava l’idea che l’arte è una stupidata, e coloro che se ne dilettano degli stupidi”. Tutto ciò che s’osserva durante il viaggio è una sorta di proiezione di noi stessi nel mondo e, segnatamente, contribuisce a disvelare la maniera in cui noi osserviamo il mondo, il nostro atteggiamento nei riguardi del mondo, oppure a modificarlo se l’esperienza è sufficientemente forte. Di sicuro, la nostra mente ne serba traccia.
E se il viaggio è racconto di noi stessi, a prescindere dal piacere o dal fastidio, dal dolore ch’è in grado di provocare (un intero capitolo del libro è dedicato alle “Sofferenze, beatitudini e patologie del viaggio”), può diventare allo stesso tempo anche una sorta di psicoterapia, argomenta l’autore (consapevole, tuttavia, che un viaggio di per sé non ha finalità specifiche, è semplicemente “vita pura”): consente al viaggiatore di analizzare il proprio passato nel profondo, gli fornisce strumenti per rompere le proprie gabbie mentali, “ristabilisce una distanza propedeutica alla riflessione, concede una possibilità di elaborazione quando ci si trova in relazioni incancrenite”. Legata in certa misura a questo tema è poi l’idea del viaggio come esperienza vicina alla spiritualità: pur senza essere paragonabile alle discipline spirituali, il viaggio può avere elementi che lo avvicinano a una pratica mistica. Ricerca d’una verità o d’una conoscenza, rituali, incontri: nell’interrogarsi sulla relazione tra viaggio e spiritualità, Carulli trova il principale elemento di sovrapposizione in quello che lui chiama “l’incontro con l’alterità”, a sua volta capace di dischiudere alla mente nuove possibilità mai sondate.
Cos’è dunque il viaggio? È ricerca, incontro, esplorazione, conoscenza, piacere, dolore, cambiamento, desiderio, movimento, ascesa, discesa, simbolo, metafora, realtà, fantasia, sviluppo, distruzione, rinascita, crescita, abbandono, psicoterapia. Ogni dimensione, in Psicologia del viaggiatore, viene esplorata per restituire al lettore un volume agile, da cui diventa difficile separarsi ogni volta che si pensa a un viaggio, un punto di riferimento su cui tornare e ritornare ogni volta che s’avverte l’esigenza di approfondire un aspetto del viaggiare, un libro da cui partire per ulteriori viaggi verso le mete filosofiche, letterarie, culturali che ne sostengono le fondamenta, un libro straordinariamente efficace nel catturare la natura più profonda del viaggio: “Viaggiare, nelle situazioni più esaltanti come nei momenti meno piacevoli, si configura come quell’esperienza che mobilita il corpo in luoghi diversi da quelli abitualmente frequentati e la mente verso altrettanto inusuali approdi”.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).