Edoardo Tresoldi (Cambiago, 1987), l’artista della “Materia Assente” e delle cattedrali in rete metallica, nominato da Forbes nel 2017 tra gli artisti under 30 più influenti d’Europa, si racconta in un dialogo a confronto con Giorgia Salerno, curatrice che ha selezionato la sua opera “Sacral” per il MAR – Museo d’Arte della città di Ravenna, primo museo pubblico ad acquisire una sua opera.
GS. Nel 2019 ti ho contattato per prendere parte alla mostra dantesca Un’Epopea Pop realizzata al MAR – Museo d’Arte della città di Ravenna in occasione del VII centenario della morte di Dante Alighieri e di cui ho curato la sezione d’arte contemporanea. Il progetto curatoriale, nato in forma sperimentale attribuendo alle opere d’arte selezionate un’identità dantesca e creando così uno stretto e dialogo tra letteratura e arte, ti è piaciuto e abbiamo scelto Sacral, realizzata nel 2016 e reinstallata nel chiostro cinquecentesco del museo. Un’architettura che ricorda quelle del Bramante e di Michelangelo, un’opera immaginifica che per me ben rappresentava idealmente il “Castello degli Spiriti Magni”, luogo emblematico che Dante inserisce nel IV canto dell’Inferno, abitato da filosofi e poeti, gli spiriti magni dell’antichità che in vita furono uomini degni di lode ma destinati alla sofferenza infernale perché privi delle virtù teologali. Come ti sei trovato in questa veste di interprete di Dante che ti ho voluto attribuire?
ET. Fin dall’inizio il progetto mi ha colpito molto pensando di essere distante dal mondo dantesco che in qualche modo avrei dovuto interpretare con Sacral, ma tu hai avuto la capacità di rintracciare una lettura calzante e particolarmente idonea rispetto al Nobile castello di Dante. Anche se Sacral non è stata inizialmente pensata per questo luogo si è creato un dialogo naturale che difficilmente avrei potuto progettare in modo più efficace. Sacral è stata esposta in Cina, a Roma… Eppure qui ha trovato il suo spazio ideale. È “un’anti-architettura” scavata all’interno di un blocco cubico decomposto che porta elementi classici. È un reperto di una serie di elementi che fanno parte di una struttura culturale comune a tutti noi ed è qualcosa che si ricollega ad un nostro panorama, ed è questo il motivo per cui sembra che sia nata per stare lì. È una delle opere a cui sono più legato e sono contento di questo dialogo con Dante così armonioso creato nella contaminazione degli spazi e di mondi così lontani e vicini fra loro.
Facciamo un passo indietro e parliamo del tuo esordio prima di diventare l’artista della “Materia Assente” e delle cattedrali in rete metallica. La tua carriera artistica inizia prestissimo dopo gli studi di scenografia a Roma e nel 2013 realizzi la tua prima grande opera in Calabria: “Il collezionista di venti”, un uomo che guarda il mare. Tu sei nato a Cambiago, come mai hai scelto il mare come primo paesaggio su cui lavorare?
Quando ho iniziato a lavorare con la rete metallica il paesaggio entrava pienamente dentro le figure e donava loro o una nota di serenità o di turbamento in relazione alla tipologia della luce presente; al tramonto o durante un temporale ad esempio, e mi sono accorto che il lavoro che stavo portando avanti sulla trasparenza non era solo qualcosa di istintivo che percepivo come necessario per me, ma era un modo per assorbire il paesaggio e annullare la separazione astratta che esiste tra noi e quello che abbiamo di fronte. Le sculture che ho realizzato all’inizio del mio percorso inserivano un ulteriore filtro, tra le persone e il paesaggio e io cercavo una chiave per interpretare il mare… Sono nato e cresciuto in pianura e il mare l’ho conosciuto molto tardi ma la pianura mi ha dato quello che in qualche modo oggi mi dà il mare. Viviamo in grandi città ma ci sono dei momenti in cui cerchiamo il vuoto: è la necessità propria dell’uomo di entrare dentro il paesaggio e di fare entrare il paesaggio dentro di noi. Questo è quello che faccio con il mio lavoro. Esiste un paesaggio esterno e uno interno e ci sono degli elementi che dialogano fra quello che c’è fuori e quello che abbiamo dentro. È qualcosa che tutti facciamo quotidianamente con semplicità vivendo luoghi e persone. Il collezionista di venti non è altro che una figura umana capace di instaurare una relazione con tutti coloro che vivono quel luogo, anche solo per una passeggiata, perché questo è quello che facciamo tutti: instaurare in modo empatico una relazione con i luoghi attraverso specifici elementi.
Hai parlato del vuoto di cui gli uomini hanno bisogno e che tutti noi, in qualche modo, ricerchiamo anche attraverso il paesaggio. A vent’anni ti sei trasferito a Roma, una città complessa e visivamente ricca di ‘pieni’ dal punto di vista architettonico; una città in cui per trovare il vuoto e il silenzio è necessario cercare riparo nelle chiese, isole sacre in edifici maestosi e potenti. Quanto effettivamente Roma, la sua storia e le sue cupole, Michelangelo e Bernini hanno influito sul tuo lavoro da scultore, scenografo e artista?
Il mio lavoro si basa sul costruire una relazione attraverso dei codici, e attraverso quello che leggo e interpreto del paesaggio e, al tempo stesso, tutto quello che creo è una serie di archetipi che ho assorbito durante il mio percorso. La sensibilità con cui leggo e definisco i miei progetti giunge da un’esperienza più intima, personale e infantile dei miei paesaggi che passano attraverso il periodo degli studi di scenografia e soprattutto passano attraverso questo grande filtro prepotente che è stata la città di Roma. Prima di arrivare a Roma vivevo in un piccolo centro di ottomila abitanti e nel trasferirmi in una città così caotica ed eterogenea indubbiamente sono stato travolto da una serie di elementi e input che mi circondavano e che hanno permesso la costruzione di una libreria di codici che forse tutti noi abbiamo dentro. Cerco di lavorare attraverso l’architettura e sui codici linguistici che sono riconoscibili per tutti in modo semplice; si tratta degli archetipi dell’architettura. Non scelgo delle figure complesse e quando utilizzo un colonnato, una cupola o una chiesa per raccontare qualcosa sono certo che, soprattutto in Europa e in Italia, la maggior parte delle persone abbiano già costruito una relazione con quel tipo di elemento. Quando ho cominciato a lavorare con più consapevolezza sullo spazio ho sentito la necessità di utilizzare quegli elementi che proprio Roma mi aveva fatto assorbire. La chiesa, come anche tu hai affermato, è una sorta di bolla che riesce a costruire un’intimità ed è lo stesso con le mie opere. Col tempo ho capito che il mio lavoro doveva principalmente occuparsi di arte pubblica, con opere da realizzare in spazi pubblici condivisi in cui si vive un rito collettivo. L’esperienza più interessante e che penso sia davvero ‘sacra’ è quella di riuscire a costruire dei luoghi nei quali le persone possano condividere un momento di intimità e solitudine, più si riesce a costruire questa relazione più forte sarà la sacralità percepita e in una chiesa accade esattamente la stessa cosa. Non so quale sia il motivo preciso per cui ho iniziato riflettere sul concetto del vuoto ma ho sentito la necessità di lavorare con qualcosa che non si imponesse nello spazio e così ho capito che quel qualcosa era proprio l’assenza delle cose. Da quel momento ho iniziato a sviluppare in modo più specifico questo percorso di indagine. Il paesaggio personale che noi viviamo è composto da presenze assenti che possono essere delle mancanze che abbiamo vissuto oppure delle proiezioni mentali, una serie di elementi che adoperiamo per filtrare quello che vediamo e viviamo perché il nostro paesaggio non è fatto solo di elementi puri e veri e l’arte cerca di lavorare sull’immateriale.
Da qualche anno hai formato il gruppo di ricerca interdisciplinare STUDIO STUDIO STUDIO che si occupa di promozione di altri artisti e sviluppo di nuove progettualità, sempre nel campo dell’arte pubblica. Come scegli il lavoro di altri artisti e che tipo di progetti prediligi?
Nel tempo mi sono reso conto che l’arte pubblica è una pratica specifica, una disciplina che mette al centro del banco di lavoro lo spazio pubblico che è composto da una serie di letture e di elementi che fanno parte delle comunità che vivono i posti. Quando realizzi un’opera in una città, diventa parte stessa della città e si costruisce una relazione diretta tra l’opera e le persone che abitano quel luogo e che pertanto sono in diritto di esprimere un parere o interagire con questa. È necessario, dunque, iniziare un ragionamento proprio con le comunità instaurando un dialogo che si costruisce con il tempo. Possiamo identificare diverse tipologie di paesaggio relativo ad un luogo: quello naturale, sociale, culturale, storico o anche quello legale. Lo spostare gli elementi fra questi paesaggi è come la pennellata su una tela con la quale si costruisce l’opera. Da queste riflessioni nasce STUDIO STUDIO STUDIO con l’idea di portare avanti dei progetti che in modo specifico si occupano di arte pubblica. Fare arte pubblica necessita una struttura più grande di quella che può utilizzare un artista, nell’uso più tradizionale del termine. Per “fare paesaggio” servono non solo materiali e strumenti specifici, come ad esempio le ruspe, ma anche una serie di diverse professionalità. Nel caso di grandi opere realizzate negli spazi pubblici ci sono moltissime figure coinvolte, dall’idea più astratta del progetto fino agli aspetti più tecnici e tutti questi elementi, così come gli attori interessati, fanno parte della costituzione dell’opera d’arte.
Per “fare paesaggio”, dunque, serve un’ampia rete di collaborazione e una conoscenza approfondita del territorio e della comunità con cui si instaura una relazione. Nel 2016 nel Parco Archeologico di Siponto hai sperimentato uno fra i dialoghi artistici più difficili da instaurare, quello tra arte contemporanea e archeologia, costruendo una struttura che rievoca la Basilica Paleocristiana non più esistente ma senza ricostruirla fedelmente. Si tratta di una delle relazioni più estreme fra due mondi apparentemente lontani. La tua Basilica è stata anche premiata con la Medaglia d’oro all’Architettura Italiana. Come ti sei approcciato a questo lavoro che certamente ha comportato diversi studi tecnici e anche la responsabilità di intervenire sulla storia di quel territorio e sul suo genius loci?
Proseguendo nella mia ricerca ho sviluppato un sistema che mi ha consentito l’utilizzo della rete metallica nelle grandi dimensioni, senza dover inserire elementi solidi che avrebbero spezzato la forza espressiva della trasparenza. Siponto sancisce un momento importante nel mio percorso, tracciando la possibilità di intervenire con il mio sguardo di artista d’arte contemporanea direttamente sul patrimonio storico. L’obiettivo non era però quello di raccontare il passato attraverso l’arte contemporanea perché è il passato che ha dato all’arte contemporanea la possibilità di esprimersi. È stato un progetto particolarmente elogiato dalla critica e dal mondo dell’archeologia, dell’arte contemporanea e dell’architettura perché c’è stata la possibilità di ricostruire la Basilica con un linguaggio innovativo senza creare un falso storico e sperimentando la contaminazione fra diverse discipline.
Tra i paesaggi che hai citato ce n’è uno particolarmente complesso che include diversi aspetti del processo di realizzazione dell’opera, da quello organizzativo e logistico a quello conservativo. Si tratta del paesaggio legale che si compone di differenti esigenze e anche di molte figure tecniche. Un tema che fa parte di questo paesaggio specifico è quello della manutenzione e restauro delle opere. Qual è il tuo pensiero in merito alla tutela delle tue installazioni e che valore dai al segno del tempo su queste?
Questo per me è un tema molto caro e centrale nel mio percorso artistico. Realizzo opere di arte pubblica che nascono in ambienti aperti e che sono soggette ai fenomeni metereologici e, dunque, alla loro trasformazione. Quando ho lavorato a Siponto la maggior parte delle domande riguardavano proprio la ‘durata’ dell’opera. Ci sono artisti che scelgono di realizzare opere effimere costruite con elementi naturali o destinati a degradarsi, questa è l’esperienza ereditata dalla land art. Nonostante la rete metallica sia certamente più duratura è chiaro che le mie installazioni prima o poi cadranno. Siponto prima o poi cadrà, è impossibile negarlo ma negare ad un’opera d’arte la possibilità di ‘morire’ significa anche negargli la possibilità di esprimersi come essere vivente. Mi sono dovuto confrontare con questa realtà proprio progettando la Basilica di Siponto e mi sono chiesto come avrei potuto realizzarla con materiali più resistenti. È stato come avere a che fare con un essere vivente che si trasforma nel tempo e invecchia. Il monumento è una figura retorica che fa parte della nostra civiltà culturale che originariamente nasce come testimonianza storica, ma il pensiero umano cambia e cambiano anche i valori delle nostre società, motivo per cui accade oggi di non condividere eticamente il profilo umano di un soggetto ritratto in una scultura o in un monumento. La nostra società si evolve con grande velocità e il pensiero umano fra vent’anni sarà del tutto diverso da quello odierno, basti pensare oggi alla lontananza fra i nativi digitali e le persone nate negli anni Sessanta, e la distanza culturale di questi mondi crea forti contrasti. Il Novecento è stato il secolo della accelerazione e adesso stiamo vivendo la seconda fase di questo processo. Il monumento ha dunque modificato il suo valore e oggi potrebbe apparire come un’azione pretenziosa nei confronti delle generazioni future. I monumenti celebrano i valori di una società nel momento stesso in cui li stiamo ancora definendo e con il rischio, dunque, di un rapido cambiamento. Ma la celebrazione dei valori è un’azione propria della contemporaneità che può limitarsi al presente senza la necessità di lasciare una testimonianza ai posteri. Solo così fra dieci, venti e trent’anni saremo liberi di modificare quella presenza con la consapevolezza che la sua esistenza non rappresenti un’eredità culturale immutabile.
Le tue sculture, dunque, possiedono un proprio ciclo vitale, nascono come figure impalpabili e maestose che dialogano con il paesaggio e, in un lontano futuro, al termine della loro esistenza, potrebbero fondersi del tutto con questo per poi rinascere attraverso il pensiero e lo sguardo di altri visionari, artisti o architetti, come del resto la storia ci insegna… Per le opere pensate per progetti temporanei, non durevoli come Siponto, ma che comunque richiedono una lunga progettazione, hai un pensiero e un approccio differente?
Ci sono opere d’arte che possono avere una fine e, dopo anni di esistenza, possono lasciare un vuoto oppure evolversi e trasformarsi in altro. La storia è fatta di stratificazioni d’identità ed è possibile ipotizzare degli interventi aggiuntivi sulle opere, sulle architetture che non esistono più, ma ciò che importante per me è che sia ben evidente la differenza temporale perché ogni strato rappresenta il suo tempo. Questo per me è fare paesaggio. Le opere che hanno una durata più breve instaurano comunque una relazione con il territorio entrando nella quotidianità delle persone, permettendo di creare con il paesaggio pubblico momenti di intimità. In alcuni luoghi preferisco installare opere temporanee che hanno comunque una durata media, come possono essere cinque anni, il tempo giusto per un bambino di potersi abituare ad una architettura nel suo territorio, costruire un suo paesaggio visivo e dopo riconoscerne il vuoto. Quel vuoto sarà per il bambino il traino per immaginare nuove prospettive, per lasciar spazio alla costruzione di nuove idee. La relazione che si instaura con le opere, anche nel breve tempo, permette la creazione di una presenza e, successivamente, di sviluppare la consapevolezza della sua assenza conferendole maggior valore.
In riferimento agli interventi d’arte pubblica e proprio all’assenza e al vuoto che si crea con la “fine” di un’opera ti chiedo cosa ne pensi della Cattedrale Vegetale di Giuliano Mauri, la seconda Cattedrale ricostruita a Lodi su progetto di Mauri dopo la sua morte e da poco distrutta. Sei d’accordo su una sua eventuale ricostruzione?
In generale non condivido l’idea di ricostruire questo tipo di progetti. Credo certamente nell’opportunità di creare qualcosa di nuovo, ma ricostruire fedelmente un’architettura che è stata distrutta rappresenta per me una mancata trasformazione del presente.
Ad Arte Sella, parco naturale a Borgo Valsugana che ospita diverse sculture d’arte contemporanea, hai realizzato Simbiosi, un’opera differente dalle tue altre architetture che, pur mantenendo sempre i tratti distintivi e identitari del tuo lavoro, si caratterizza per una forte componente materica: la pietra. Guardando a quest’opera e ai tuoi altri progetti ti chiedo come sia cambiato il tuo percorso artistico, come ancora credi si evolverà nel futuro e se c’è un progetto irrealizzato o irrealizzabile, anche folle, che ti piacerebbe sperimentare.
Ho iniziato nove anni fa a raccontare la trasparenza, elemento principale nel mio percorso di ricerca che prosegue con un’indagine linguistica sempre più attenta nei confronti del paesaggio. Adesso sto analizzando una serie di temi e ne sto valutando la fattibilità, sto anche pensando al virtuale. Parlando di progetti impossibili, mi piacerebbe anche lavorare sul crinale di un vulcano…immaginando un’opera che si sciolga con la lava. Pensavo inoltre da tempo di voler lavorare sul territorio in cui sono nato, quello dell’hinterland milanese e dal giugno 2022 ho iniziato un progetto di ricerca sul paesaggio in un campo agricolo a Carnate dove ho installato una scultura realizzata nel 2016 e il cui processo di assorbimento da parte della natura sarà oggetto di osservazione negli anni a venire.
Oggi, grazie all’amministrazione del Comune di Ravenna e al prezioso contributo del Gruppo Marcegaglia, l’opera scelta per la mostra dantesca, Sacral, entra a far parte delle collezioni del MAR - Museo d’Arte della città di Ravenna, prima istituzione pubblica in Italia ad acquisire una tua opera. Io sono molto contenta di avere scelto te per questo progetto e di questa acquisizione che arricchisce il patrimonio d’arte contemporanea del museo. Sacral in breve tempo è diventata un’opera iconica e identitaria del MAR e che oggi diventa parte della stratificazione culturale di questo luogo rimandando ad un immaginario evocato che ricongiunge storia, narrazione e contemporaneità.
A un anno dall’installazione di Sacral sono felice che entri a far parte della collezione permanente del museo, soprattutto perché è il primo museo ad acquisire una mia opera, e qui potrà continuare la sua relazione con il luogo.
L'autrice di questo articolo: Giorgia Salerno
Storica dell'arte e curatrice. Attualmente è conservatrice del MAR - Museo d'Arte della città di Ravenna. Formatasi tra Palermo e Roma, ha lavorato nel settore dell'organizzazione di mostre e come registrar per la Galleria Lorcan O'Neill.