Dopo cinque anni, è tempo di bilanci per il MACRO di Roma diretto da Luca Lo Pinto. Fra pochi mesi il museo di arte contemporanea romano, nato un po’ più di vent’anni fa in un ex-birrificio della capitale, avrà un nuovo direttore. Il MACRO di Lo Pinto in numeri? 250 artisti coinvolti, 65 mostre, 5 personali di cui due antologiche di Nathalie Du Pasquier e Elisabetta Benassi, almeno due retrospettive tra Arte Povera e Transavanguardia degli italiani Salvo e Prini, 2 grandi collettive chiamate “Editoriale” e “Post-Scriptum” ad apertura e chiusura del suo museo-magazine. Le pubblicazioni? Due cataloghi di mostre che Lo Pinto definisce legittimamente “libri”, il secondo e l’ultimo ancora in corso di lavorazione e che andrà a chiudere il suo programma espositivo entro febbraio 2025. È riuscito Lo Pinto nel suo intento di fare un museo-magazine? O meglio: quanto questo originale format museale lo distingue effettivamente dall’offerta culturale generale? Quali obiettivi sono stati raggiunti e quali no? Cerchiamo di capirlo in questa intervista fatta negli uffici del MACRO.
REF. Ti dividi fra l’attività curatoriale e quella editoriale, dal 2020 fra il MACRO e la rivista Nero Magazine fondata vent’anni fa con Lorenzo Gigotti, Francesco de Figuereido e Valerio Mannucci. Hai fatto in modo che le tue due attività fossero interconnesse?
LLP. Resto il co-fondatore di Nero, diventata nel frattempo anche casa editrice, anche se negli ultimi anni me ne sono occupato in maniera meno diretta. Sicuramente l’attività editoriale è una passione che anche nella mia attività di curatore continua ad influenzarmi.
Il tuo contratto al MACRO scade a febbraio 2025. A cosa ti stai dedicando in questi ultimi mesi al museo di Roma?
Stiamo lavorando al catalogo dell’ultima mostra della mia programmazione, Post Scriptum, un museo dimenticato a memoria. Al MACRO non ho mai fatto i cataloghi delle mostre. Per la mia prima mostra al MACRO cinque anni fa, intitolata Editoriale, avevo invitato una serie di scrittori a visitarla chiedendo a ciascuno di contribuire al catalogo, una pubblicazione di soli testi senza immagini. Per Post Scriptum invece, la mia ultima mostra al MACRO, stiamo preparando un libro con sole immagini come se fosse una rivista di moda. Ho chiesto alla stylist Francesca Cefis e a due fotografi Lukas Wassmann e Alassan Diawara di realizzare due editoriali dentro la mostra, due servizi fotografici, uno in collaborazione con Adidas e l’altro con Armani. Una selezione di questi scatti è ora allestita qui al museo MACRO. L’idea classica del catalogo di mostre per me è irrilevante.
Mescolando i due linguaggi ottieni un ibrido fra rivista d’arte e rivista di moda, e in più inviti due fotografi di moda ad esporre al MACRO fra gli artisti in mostra.
Esatto, con il cortocircuito che ne deriva.
Sia con il tuo primo catalogo che con il secondo, hai voluto quindi sovvertire il format del catalogo di mostra.
Sì, è una scelta che nel caso di “Editoriale” ha portato il libro [catalogo] a una circolazione più ampia. Non a caso è andato sold out.
Hai dato carta bianca agli scrittori che hai incaricato per scrivere il tuo primo catalogo, invece di commissionare articoli e recensioni a critici o giornalisti.
Ognuno degli scrittori ha avuto piena libertà di scrivere quello che voleva dopo aver visto la mostra. Il nuovo libro di Emanuele Trevi inizia proprio con il testo che aveva scritto per questo catalogo. Il testo parte dal suo rapporto con l’arte: racconta la mostra al MACRO attraverso il ricordo della prima visita alla Biennale di Venezia con suo padre.
Una tecnica narrativa ma anche cinematografica chiamata mise en abîme da André Gide, in italiano messa in abisso, cioè una storia nella storia.
Non c’era l’obbligo di menzionare le opere in mostra. Magrelli ad esempio ha scritto delle poesie. Questa operazione è stata fatta durante il Covid dove a mio parere c’è stata una iperproduzione di immagini da parte di tutto il sistema dell’arte. Ho pensato che fosse inutile aggiungere altre immagini e preferito concentrarmi sulle parole.
La grafica di questo catalogo è stata decisa insieme al tuo team del MACRO?
Lavoro anche in questo caso con il grafico Marco Campardo che ho coinvolto dall’inizio come art director del museo.
Quindi non hai semplicemente trasferito tutto il tuo team di Nero Magazine al MACRO con te?
No, non ho mai fatto nulla con loro qui e nemmeno a Vienna, non solo per evitare un conflitto d’interesse, ma anche per una questione di opportunità.
Com’è lavorare a Roma dopo Vienna?
In Austria c’è un forte sostegno economico, pubblico e privato, e la politica è molto meno invadente che in Italia, le istituzioni sono meno soggette ai cambiamenti politici. Quando lavoravo alla Kunsthalle di Vienna, che non è un museo, avevo tre volte il budget che abbiamo qui. Lì se cambia una giunta o il governo, non stravolge le istituzioni.
In questo caso, qui è cambiato il governo già da un po’ di tempo e hai potuto comunque contare su una proroga del tuo contratto al MACRO.
Il cambio di governo ha un impatto diretto sui musei statali come il Maxxi e la Galleria Nazionale, non è il caso del MACRO che è un museo comunale. Io ho avuto un incarico di tre anni, esteso di un anno per via del Covid (e del lockdown). Quando poi è entrato il nuovo CDA di Azienda Palaexpo, l’anno scorso, c’è stata una proroga di un altro anno.
Avresti preferito che il CDA ti rinnovasse il mandato? Ti sembra di lasciare il MACRO con un progetto non portato a termine?
La decisione dell’ultima proroga è stata fatta a luglio 2023, abbiamo avuto solo cinque mesi per programmare il lavoro di un anno intero, il 2024. All’estero nei musei, si programmano le mostre tre anni prima.
Stai dicendo che quest’ultima mostra Post Scriptum non era in programma dall’inizio del tuo mandato o che non l’avresti fatta adesso?
Sicuramente avevo in programma di chiudere in modo coerente la mia programmazione.
Cosa avresti voluto fare al MACRO se avessi avuto più tempo?
Avrei mantenuto la struttura del museo come magazine contando su un meccanismo che ormai il pubblico aveva fatto suo, per poi concludere con Post Scriptum.
Quindi avresti mantenuto il tuo programma di mostre distribuite nel corso dell’anno e nelle varie sezioni del museo piuttosto che un’unica grande collettiva come Post Scriptum?
Anche Editoriale è stata un’unica mostra in tutto lo spazio del museo. Era un po’ un manifesto, per condividere con tutti la nostra idea di museo. Subito dopo è stata applicata l’idea del museo come magazine con le sue 8 “rubriche” o sezioni dall’architettura al design e così via. Ma il MACRO, un po’ per la conformazione della sua architettura, fin dalla sua creazione ha sempre inaugurato più di una mostra contemporaneamente.
Perché aspettare la fine del tuo contratto per riproporre questo tipo di mostra, sicuramente più coinvolgente? È una sfida dal punto di vista logistico?
Perché sono spazi molto ampi e in più con un’architettura molto difficile. Non a caso nei musei come il Pompidou, non vedi mai questo tipo di mostre che occupano tutto lo spazio del museo. L’approccio era di fare mostre diverse in ogni sezione esattamente come i vari contenuti o articoli o rubriche che ritrovi in ogni nuovo numero di un magazine.
Hai mai pensato di brevettare questo format di un museo-magazine?
No! In realtà non saprei a chi potrebbe interessare.
Potresti applicarlo in qualche altro museo che ti viene in mente?
Questa idea è nata al MACRO perché ha un’architettura adatta, nell’ala vecchia ha sale tutte identiche che quindi si prestano all’idea delle sezioni di magazine. Al Maxxi non si potrebbe applicare la stessa idea, sarebbe una forzatura.
Quindi questa idea si apre e si chiude con il MACRO, a meno che qualcuno non ti imiti dopo. Un domani, chissà qualche commissione potrebbe scegliere direttamente un direttore di giornale a dirigere un museo.
Non saprei!
A differenza però di un magazine che uno può rileggere, manca una visione chiara, un “sommario” (per restare in tema) di tutte le mostre che hai fatto o “pubblicato” tra Editoriale e Post Scriptum.
Le mostre in tutto sono più di 60, in cinque anni sono effettivamente tantissime. Abbiamo una lista che serve anche a me ogni tanto per guardarmi indietro.
Questo format funziona se a un museo serve battere un record di mostre a livello di numero.
Non nasceva per battere i record, né da una volontà nevrotica o frenetica di “fare numero”, ma dalla necessità di dare nuova energia all’identità del museo e un ritmo che consentisse ogni volta di attrarre nuovamente il pubblico.
E la risposta del pubblico è arrivata alla fine, all’inaugurazione di Post Scriptum c’è stata una grande affluenza.
Sì stavamo andando a buon ritmo negli ultimi due anni, anche perché abbiamo investito molto sulla comunicazione. Riuscire a compattare il pubblico e raggiungere questa velocità di crociera non è stato facile.
Avevi chiaro subito come avresti applicato questa idea di museo-magazine o è stato tutto sperimentale?
È stata prima un’intuizione. Il resto, come mettere a frutto questa idea da zero, è stato frutto del lavoro fatto con Marco Campardo e tutto il team. Non sapevo se questa cosa avrebbe funzionato, c’era un rischio. Alcuni aspetti li ho aggiustati strada facendo. Ad esempio all’inizio avevo immaginato di aprire una sezione alla volta e di fare otto inaugurazioni in un mese, per evitare che tutta l’attenzione si concentrasse solo sull’inaugurazione. Volevo fosse un museo a cui si va a prescindere dall’inaugurazione.
Questo obiettivo pensi di averlo raggiunto con la dispersività (volontaria) della programmazione? La mia sensazione personale era, frequentando regolarmente il MACRO, che non si capiva più quali sezioni fossero state appena inaugurate e quali già viste in precedenza. Si crea un effetto anacronistico o comunque estraniante.
L’importante è che, per chi viene per la prima volta, nulla sembri escludere il resto della programmazione.
Visto come hai impostato strutturalmente il museo, come hai invece scelto gli artisti per cui hai fatto l’equivalente di mostre personali all’interno del MACRO?
L’80% della programmazione è stata dedicata a mostre personali. L’obiettivo era di creare una polifonia di voci senza cacofonia. Per cui il nostro avatar era un polpo, un’unica testa e tanti tentacoli.
La testa saresti tu?
No, il museo.
Non hai pensato invece di fare un numero speciale su un solo artista, e quindi dedicare l’intero museo ad un unico artista per te capitale?
La cosa più divertente di questo approccio del museo come magazine è proprio di poter immaginare varie opzioni. Non ho pensato ad un artista in particolare, ma a come impostare questa eventualità di mostra. Forse lo farei con un artista comunque vivente.
Quindi non hai un artista o un’estetica di riferimento?
Penserei ad un artista capace di leggere questo spazio. Ragiono in funzione delle peculiarità degli artisti per restringere il campo. Il problema di oggi non è di dirigere un museo secondo un gusto: chiunque può fare una mostra su William Anastasi o Pippa Garner. Per me non basta scegliere delle opere e metterle in uno spazio. Ovvio che non farei mai una mostra su un artista che non m’interessa, però penso a tanti aspetti, le valutazioni che faccio sono altre.
Quali sono le valutazioni che fai?
Primo penso alla storia di questa città senza metterci per forza l’artista romano. Per esempio, Simone Carella è stato uno dei primi che ho voluto in mostra qui, una figura di un certo peso qui a Roma ma sconosciuta ai più.
E questa è stata una scelta e un gesto molto apprezzabile. Includere una figura dell’avanguardia romana, tra l’altro morto da poco, come Simone Carella, e in qualche modo abilitarlo.
Questa sezione su Simone è stata un po’ una lente per guardare alle avanguardie del teatro e della scrittura, una pagina assolutamente unica e specifica di Roma. Il mio obiettivo è sempre stato di mettere più discipline insieme, trovo sia svilente costringere in delle categorie i produttori di cultura come fanno in certe istituzioni. La libertà di una persona come Simone è una cosa che le istituzioni devono imparare a vedere. Tutto quello che ho fatto al MACRO è stato ispirato direttamente dagli artisti, da quello che mi hanno raccontato o da quello che ho appreso su di loro.
Quello che sicuramente il tuo MACRO o la tua idea di museo ci costringe a fare è di cambiare lessico. Intanto perché più che fare mostre personali o collettive, tu pubblichi contenuti.
Se la programmazione fosse stata semplicemente una successione di mostre, il discorso si sarebbe fermato a una questione di gusto. L’obiettivo che penso di aver raggiunto invece è di aver spostato l’attenzione su altro, qui ognuno si crea il suo modo di guardare la programmazione.
Quali sono le altre tue soddisfazioni personali?
Uno degli artisti più famosi al mondo, Richard Serra, ha fatto la sua prima mostra alla Salita a Roma, nessuno lo sapeva. Abbiamo quindi presentato al MACRO delle immagini inedite di quella mostra che poi sono state comprate e incluse da Richard Serra stesso nel suo catalogo ragionato. Serve fare un’altra mostra di Serra? Se ti permette di scoprire cose nuove su Richard Serra e per di più a Roma, sì. Gli Americani sono molto bravi ad auto-storicizzarsi. Noi purtroppo ci dimentichiamo la nostra di Storia. Simone Carella era una figura da storicizzare. Questo è la funzione del museo: produrre la Storia.
Quello che hai fatto con la sezione Retrofuturo è invece più azzardato. Invece di tirare fuori dai depositi le opere in collezione e mostrarle al pubblico come da contratto, commissioni ad un’artista un reportage fotografico direttamente nei depositi delle opere per lo più ancora incartate nel pluriball. Immagini da backstage quindi, stampate in carta da parati che ha fatto da sfondo alla tua collezione privata di artisti lungo i tuoi cinque anni al MACRO.
Il tentativo – completamente anti-museale – con la sala Retrofuturo, era di costruire una collezione del futuro con giovani artisti italiani, quaranta in tutto. In questi vent’anni il MACRO non ha più fatto acquisizioni né arricchito la collezione, che bisogna specificare è di competenza della Sovrintendenza di Roma. Le ultime opere entrate in collezione credo risalgono alla direzione di Bartolomeo Pietromarchi, con una parte delle opere prodotte con Enel Contemporanea. Ancora prima c’era MACRO Amici, che dava forma al supporto di alcuni collezionisti e che ora non c’è più. Le quaranta opere di Retrofuturo sono state quasi tutte prodotte per il MACRO sotto forma di donazione o comodato d’uso, da Diego Marcon a Monia Ben Hamouda, Davide Stucchi, Sagg Napoli, Alessandro Cicoria, Gabriele Silli, Riccardo Benassi, Michela De Mattei, per citarne alcuni. Pochi mesi fa, ho chiesto alla Sovrintendenza di rinegoziare il comodato e di estenderlo ma non hanno accolto questa possibilità.
Forse la Sovrintendenza non è interessata ad acquisire la tua collezione. Al di là delle motivazioni ufficiali, non è una decisione che dovevi aspettarti? Lo consideri un fallimento?
Il fallimento non è mio, ma per il museo, per la città. Per me è molto grave. Due dei tre artisti finalisti del MAXXI Bulgari Prize, Monia Ben Hamouda e Riccardo Benassi, hanno prodotto opere ad hoc per Retrofuturo. Diego Marcon è forse l’artista di quella generazione con maggior successo. A quest’ora il MACRO avrebbe già in collezione delle opere dei giovani artisti italiani oggi più rilevanti.
Quindi se non fa acquisizioni, possiamo dire che è dalla direzione di Pietromarchi che tecnicamente il MACRO non è un museo.
Il MACRO è sicuramente un museo fragile perché non ha un’autonomia né sulla collezione, né sull’architettura e né sulla governance perché è gestito da Azienda Palaexpo e prima ancora da Zetema. Un museo deve avere una sua continuità sennò perde la sua identità. È come un orfano che viene dato continuamente in affidamento a famiglie diverse. O come un ristorante che nasce come trattoria poi diventa un ristorante di sushi.
E con te il MACRO è stato più una trattoria o un ristorante di sushi?
Non saprei, io ho cercato di ridare al MACRO un’identità forte e di riportarlo in un panorama internazionale.
Arrivi al MACRO dopo la polemica del mancato rinnovo del mandato dell’antropologo Giorgio De Finis, il tuo predecessore, e quando l’artista Cesare Pietroiusti, che in una conferenza stampa avevi dichiarato considerare come un tuo maestro, era Presidente di Palaexpo. Cosa auguri ai tuoi successori?
Mi auguro che la pluralità di sguardi sia sempre connessa ad offerte culturali di alto livello.