Samia Halaby (Gerusalemme, 1936) è l’unica artista palestinese della mostra principale della Biennale d’Arte di Venezia. Il suo dipinto del 1969 Black is Beautiful, un crocefisso di tubi che cita l’Optical Art ma potrebbe benissimo anche essere l’ingrandimento di un dettaglio dei dipinti di Fernand Léger, è esposto nella sala dedicata all’arte astratta internazionale nel Padiglione Centrale, sezione Nucleo Storico. Un’altra artista di origini palestinesi, Dana Awartani, figura invece all’Arsenale con un’installazione tessile e dalla composizione sempre molto astratta che nell’insieme, per il gioco di trasparenze e le sfumature arancioni, rievoca Rothko. Halaby è stata premiata dalla giuria della Biennale di Venezia con una Menzione Speciale durante la cerimonia ufficiale di premiazione il 20 aprile scorso. L’attivismo della Halaby è sottile nella sua pittura quanto determinato nelle sue risposte dal vivo, e lei non è tra quanti correggono il tiro dopo la premiazione. Ha approvato questa intervista, registrata qualche giorno prima che la Biennale le assegnasse la Menzione Speciale della giuria, senza cambiarne una virgola. Con la guerra nella Striscia di Gaza, e in un momento storico in cui il governo israeliano è scrupolosamente osservato dalla Corte Internazionale, Samia Halaby ci spiega perché, senza una riforma strutturale della Biennale di Venezia, la mostra più ambita e invidiata dal mondo non può a suo avviso rivendicarsi come internazionale.
REF. Ti ho vista nei Giardini della Biennale alla protesta del gruppo A.N.G.A. davanti al Padiglione Israeliano. Eri lì per caso?
SH. Conosco l’ANGA e ho letto la loro dichiarazione. Ho anche scritto loro una lettera di amorevole sostegno critico. Ieri li ho visti per caso e mi sono accorta che stavano manifestando davanti al Padiglione Israeliano. Naturalmente mi sono unita a loro.
Cosa pensi del Padiglione Israeliano e della decisione di chiuderlo parzialmente quest’anno? Come hanno potuto constatare tutti, il Padiglione di Israele, anche se chiuso, è tutto vetrato e il video dell’artista israeliana è proiettato in loop di modo che si possa comunque guardare dall’esterno.
Non ho letto la loro dichiarazione sul motivo ufficiale per cui hanno “chiuso”, ma era abbastanza ovvio, dato che il governo israeliano sta facendo così tante cose orribili, che il team del Padiglione israeliano avrebbe dovuto rispondere a delle domande e sarebbe stato sottoposto ad un attento esame. È stata una mossa politica da parte loro. Hanno scelto di difendere le bugie del governo israeliano con il silenzio. Sono scappati e dovremmo continuare a farli scappare.
Quindi non pensi siano stati sinceri?
Ovvio che no! Non c’è alcuna sincerità in questo, perché la richiesta ufficiale è la stessa che fanno da sempre ma il governo israeliano continua a sparare e uccidere, quindi la loro sincerità deve essere messa in dubbio da chiunque abbia un po’ di buonsenso. Quelli che ci credono e li sostengono sono persone che la pensano come loro.
Cosa pensi del rifiuto da parte della Biennale di Venezia della richiesta di instaurare un padiglione palestinese?
Non è possibile fare un padiglione palestinese perché non esiste uno Stato palestinese. La Biennale di Venezia dovrebbe avere un’amministrazione abbastanza coraggiosa da invitare i popoli indigeni apolidi a creare i propri padiglioni indipendentemente dagli Stati che li opprimono e occupano le loro terre. Occasionalmente, l’amministrazione della Biennale ha concesso aperture speciali per i Palestinesi. So che la prima volta che l’hanno fatto, forse è stato vent’anni fa, era una mostra che si svolgeva tra i viali dei Giardini. Si trattava di una coppia sposata, uno era italiano e l’altro palestinese. La partecipazione palestinese alla Biennale dipende molto da chi è il curatore.
Controlli in ogni edizione della Biennale se sono presenti artisti palestinesi?
Non sono molto interessata alla Biennale di Venezia perché non c’è speranza che i palestinesi vi partecipino. La Palestina non ha uno Stato e la Biennale di Venezia è organizzata secondo strutture statali. Questa è una debolezza che spero l’amministrazione della Biennale corregga.
Pensi sia importante che la Palestina abbia un padiglione?
La situazione attuale è la seguente: la Biennale di Venezia è amministrata dallo Stato italiano che sceglie altri Stati che espongono con totale libertà di curatela nei propri padiglioni. Questo è il modello che la Biennale di Venezia ha stabilito. Con una tale struttura della Biennale di Venezia, io resto un’outsider qui e guardo la Biennale di Venezia come la guarda un outsider. Certo ho l’opportunità di vedere la grande varietà culturale e imparare da essa; ma sono anche consapevole che mancano molte cose. Non posso permettermi l’errore di credere che questa mostra rappresenti l’arte mondiale né posso accettare che la Biennale di Venezia sia il giudizio universale sull’arte. Devo rimanere fedele alla mia visione del mondo.
Quindi non ti senti pienamente inclusa in questa Biennale?
Non sono inclusa, sono scelta da un curatore. C’è una netta differenza. È merito del curatore. Ma la Biennale strutturalmente resta la Biennale. E quello che sto dicendo è che se l’amministrazione della Biennale di Venezia vuole che più della metà della popolazione mondiale riconosca la sua posizione di leadership, deve essere in grado di riconoscere quest’altra metà del mondo. Per ora l’amministrazione della Biennale vede le cose solo da un punto di vista: è una scelta che sta limitando l’apprendimento di tutti quelli che, artisti compresi, vengono alla Biennale.
Sei stata sorpresa di essere invitata da Adriano Pedrosa?
Non sono sorpresa, la mia ricerca artistica è ottima! E non sono l’unica, il mondo è pieno di bravi artisti! Ci sono centinaia di migliaia di bravi artisti, e gli italiani non potranno vederli. A perdere è l’Italia e l’Occidente, non io, non noi. Vale la pena pensare al futuro e provare a cambiare. Un giorno l’Occidente perderà questa occasione.
È il messaggio che vuoi rivolgere all’Italia?
Gli italiani sono un popolo meraviglioso con una grande storia che amo e che ho studiato. Non considero l’atteggiamento della Biennale come rappresentativo degli italiani. Non si tratta degli italiani, hanno lo stesso spirito dei palestinesi, sono emotivi, hanno legami familiari forti e ci accolgono. Sono commossa dal loro gentile e accogliente sostegno.
Italiani e palestinesi restano mediterranei, si può dire che in Italia ti senti un po’ a casa?
Sì, mi sento a casa in Italia, ma la Biennale di Venezia non è mai stata una potenziale casa per me. Sono venuta due volte prima di quest’anno per osservare e imparare.
Quindi sei venuta a vedere le edizioni precedenti prima di questa.
Sì, perché mi piace l’arte e mi piace la Storia italiana.
Quand’è stata l’ultima volta che sei venuta in Italia?
Sono venuta per una conferenza chiamata “Biennale di Venezia Mondo Arabo”, ho scritto un articolo sulla mia teoria personale della storia dell’arte che ho dovuto riscrivere perché l’insegnamento dell’arte è ancora molto limitato ed eurocentrico. Ad esempio, quando ero al college studiavo storia dell’arte, il nostro libro di testo si intitolava “Storia dell’Arte Mondiale” ed era quasi di mille pagine. Ebbene su quelle mille pagine, il continente asiatico dalla preistoria ad oggi contava circa solo dieci pagine.
È di questo che hai parlato alla conferenza?
Questo è quello che ti ho appena detto: l’insegnamento della storia dell’arte è distorto e molti di noi lo hanno constatato. Questo dovrebbe essere imbarazzante per gli amministratori della Biennale di Venezia che tranquillamente allestiscono un padiglione israeliano mentre Israele sta commettendo un genocidio contro i palestinesi. Non si sono minimamente interessati all’arte palestinese né hanno valutato le possibilità. Vi faccio un esempio: non appena è iniziato il genocidio, il Museo Palestinese in Cisgiordania ha creato un’enorme mostra di dipinti provenienti da Gaza. Era una selezione di dipinti posseduti dalla gente che vive o viveva a Gerusalemme, a Ramallah e in tutta la Cisgiordania, persone che amavano l’arte, la compravano e l’appendevano nelle loro case. Questa mostra dovrebbe essere invitata qui, dovrebbe venire qui per sostituire il padiglione israeliano. Insegnerebbe al mondo lo spirito del “sumoud” palestinese, la volontà indelebile di vivere ed essere liberi. Questo avrebbe collocato la Biennale di Venezia in una posizione di notevole rilievo nella storia. Avere il coraggio di dire al mondo “ecco, guardate quello che i popoli oppressi, che subiscono genocidi e oppressioni da oltre settantacinque anni, riescono comunque a creare con amore”. Invito gli organizzatori della 60a Biennale di Venezia a sostituire il padiglione israeliano con i dipinti provenienti da Gaza senza porre standard di qualità. Rispettate il diritto del pubblico di vedere e giudicare. La situazione è sorprendente. Non trascurate una delle grandi manifestazioni del nostro tempo.
Vuoi menzionare gli artisti palestinesi che vorresti vedere qui in particolare?
C’è un’opera meravigliosa, Centoquaranta giorni, in corso nella mostra Beyond Boundaries qui a Venezia, di un artista di Gaza chiamato Maisara Baroud. È un meraviglioso diario di disegni potenti fatti dall’artista ogni giorno, di ciò che ha visto e vissuto durante il genocidio, dall’omicidio dei bambini all’uccisione delle madri e della stampa, alla fame, ai bombardamenti e altro ancora.
Faccio l’avvocato del diavolo: qualcuno potrebbe sostenere che questa è arte politica.
No, è documentario ed è arte ad alti livelli. Sai, i doppi standard mi sono tutti familiari. Le opere di guerra di Goya sono forse arte politica o sono grande arte?
Il tuo lavoro esposto nel Padiglione Centrale qui ai Giardini della Biennale di Venezia è un dipinto astratto. Lo definiresti documentario o politico?
Non è documentario; è politico solo in quanto l’astrazione è l’arte della rivoluzione della classe operaia. I primi passi preziosi verso l’astrazione furono evidenti prima negli impressionisti, poi nella pittura degli artisti sovietici, poi nei muralisti messicani e negli espressionisti astratti americani. Questo è il percorso che ho scelto. Ho una visione globale e una responsabilità globale, ho studiato l’arte di tutto il mondo, con la stessa apertura mentale, e sono intellettualmente capace, quindi perché mai dovrei restringere la mia visione? Non c’è motivo.
La tua ricerca è tuttora astratta da quando, negli anni Sessanta, dipingevi l’opera esposta alla Biennale?
Intuitivamente questo è ciò che è importante per me. Secondo il mio studio, l’astrazione è l’arte del futuro. Sono ancora molto astratta nella mia pittura, ma faccio anche arte documentaristica e arte schiettamente politica come poster e striscioni.
Vuoi dire che, in confronto all’astrattismo, l’arte figurativa è superata?
Parlo di progresso. Documentazione, arte politica, poster, cartoni animati, mappe, fotografia, tutto questo è venuto fuori dalla pittura. Quindi si deve stare attenti quando si parla in modo generico di ognuno. I medici hanno tuttora bisogno di illustrazioni mediche e ai bambini serve imparare a partire di materiali divertenti. Dall’arte rupestre ci siamo evoluti, andiamo avanti, i nostri disegni sono diventati sempre più complessi, ci sono discipline diverse. I risultati passati non sono andati perduti.
Sei soddisfatta dell’allestimento di Adriano Pedrosa nella sala dedicata all’arte astratta in cui è esposto il tuo dipinto Black is Beautiful?
La mostra della Biennale è enorme e adoro davvero la varietà, ma avrebbe potuto contenere molta più astrazione. Mi dispiace di essere dovuta partire presto [nda: prima della cerimonia di premiazione dei Leoni] perché mia sorella è stata ricoverata d’urgenza all’ospedale. Posso solo dire che Adriano Pedrosa ha la mia ammirazione per il magnifico lavoro che ha svolto.