Roma, chiude la galleria Divario: “funzione culturale e commerciale assieme? È insostenibile”


A Roma, ha chiuso da qualche settimana la galleria Divario, aveva aperto solo da cinque anni, nel 2019. Le cause della chiusura? Secondo il titolare, il modello di business tradizionale è diventato ingestibile. Inoltre, molti sono secondo lui i problemi del mercato. Ecco quali.

Dopo appena cinque anni di vita, a Roma ha chiuso la galleria Divario. Era stata fondata nel 2019 dall’imprenditore Filippo Tranquilli e negli anni si era distinta per una proposta raffinata, centrata particolarmente sulla fotografia, con nomi soprattutto giovani. Partita con una mostra di Simone Bossi, si erano poi aggiunte le esposizioni di Robocoop, Michela Picchi, Marta Abbott, Lorenzo Catena e Valeria Tofanelli, Ovidiu Leuce, Renzogallo, Max Renkel, Leonardo Magrelli, Giulio Bensasson fino ad arrivare alla mostra conclusiva, terminata nella primavera 2024, di Francesca Cornacchini. Le cause della chiusura? Secondo Tranquilli, è in crisi il modello di business tradizionale delle gallerie, ovvero spazi che abbiano assieme funzione commerciale e funzione culturale, e poi diventa difficile lavorare coi giovani, coltivare nuovi talenti, il pubblico è molto meno presente rispetto a un tempo. Ma diversi altri sono i problemi: in questa intervista, Filippo Tranquilli ne parla con Luca Rossi.

Filippo Tranquilli. Foto: Studio Daido
Filippo Tranquilli. Foto: Studio Daido

LR. Recentemente hai preso la decisione di chiudere la Galleria Divario a Roma che svolgeva un lavoro prezioso e di qualità sul contemporaneo. Quali sono state le difficoltà che ti hanno portato a questa scelta?

FT. Caro Luca, come puoi immaginare la decisione di chiudere Divario è stata una scelta ponderata e allo stesso tempo molto sofferta. Un piccolo lutto da elaborare per me e forse un’altra sconfitta da digerire per il sistema. Personalmente non credo che sia stato un fallimento, tutt’altro. Nel mio piccolo credo di aver avuto successo e di aver raggiunto risultati importanti. A prescindere da come sono andate a finire le cose penso che sia stata un’esperienza indimenticabile, un privilegio che mi sono goduto fino in fondo. Come ha scritto l’imprenditore Seth Godin nel suo libro Il vicolo cieco: “Un lavoro, un progetto, una relazione: tutto, all’inizio, costituisce un’esperienza eccitante. Poi subentrano i primi ostacoli e, infine, arriva la fase più difficile. Quella in cui non vi divertite più e dovete solo stringere i denti. A quel punto vi domandate se ne vale davvero la pena”. Quando si investe tutto il proprio tempo, parte del proprio denaro e molte delle proprie energie in un progetto imprenditoriale come il mio e, a un certo punto, sopraggiunge l’amara consapevolezza che tutti i nostri sforzi per arrivare all’autosufficienza economica sono inutili, non si può fare altrimenti, bisogna chiudere.

Come è maturata la decisione?

Dopo cinque anni di attività ho capito che il modello di business della galleria d’arte intesa come siamo soliti immaginarla, ossia come spazio espositivo che alla funzione commerciale affianca una funzione culturale, è fortemente deficitario. È insostenibile sia dal punto di vista economico, perché comporta molti oneri che non sono controbilanciati da sufficienti entrate, soprattutto se si lavora con i giovani artisti e non si vogliono sparare prezzi irragionevoli, sia dal punto di vista umano, perché il mondo dell’arte è diventato irrimediabilmente viziato, incredibilmente classista, pigro e superficiale. Se sei una galleria che fa il lavoro della galleria, ossia cercare talenti con un approccio da curatore/museo, il mercato non ti premia. Inoltre, dal punto di vista della partecipazione del pubblico, le gallerie d’arte sono sempre meno vissute o attraversate ed è una realtà che ho constatato sulla mia pelle. Il più delle volte si trascorrono le giornate nella logorante attesa di un visitatore o nella speranza di una vendita. Naturalmente prima di prendere questa decisione mi sono confrontato con altri galleristi, con alcuni curatori e qualche collezionista; ho parlato con direttori di musei, di fondazioni e fiere; ho consultato art dealer e art advisor. Tutti vedono e conoscono il problema ma nessuno sa concretamente cosa fare per invertire questa terribile tendenza. Nessuno ha la bacchetta magica. Mi è stato detto: dovresti fare più fiere, in particolare andare all’estero; dovresti entrare nel giro giusto, frequentare i salotti importanti; dovresti investire di più, avere molti più soldi; dovresti costruire una reputazione solida, sfruttare l’immagine imprenditoriale della tua famiglia; dovresti indire un premio, magari a tuo nome; dovresti organizzare cene per coccolare e compiacere i collezionisti; dovresti avere una seconda entrata importante per sostenere tutte le spese; dovresti presenziare agli eventi che contano, avere i contatti giusti; non dovresti lavorare con gli artisti emergenti, semmai implementare il secondo mercato; dovresti invitare critici importanti e lavorare con curatori influenti; dovresti finanziare eventi esterni e collaborare con le istituzioni; dovresti partecipare a festival e biennali; dovresti produrre cataloghi, fare multipli e implementare le vendite on-line; Potrei andare avanti all’infinito ma non voglio tediarti. Io ho fatto molto di quello che mi è stato suggerito senza trascurare mai la qualità della mia offerta, mantenendo alti quelli che secondo me dovrebbero essere gli standard di una galleria, ma ero da solo a dover gestire tutta questa “mole di lavoro” che, secondo me, non ha niente a che fare con l’acquisto di un’opera d’arte. Una giovane galleria non può, materialmente, fare tutto quello che il sistema si aspetta da lei. Quando ho deciso di aprire Divario tutti gli addetti del settore, da subito, mi hanno trattato come se fossi un povero pazzo, un ingenuo. Alcuni addirittura hanno tentato di mettermi in guardia. Ma io non sono uno scriteriato, avevo le mie “chance”. Alla fine mi sono fatto l’idea che oggi, in Italia, è praticamente impossibile che uno spazio di ricerca e sperimentazione possa emergere, crescere, autodefinirsi ed essere autosufficiente senza autofinanziarsi e avere le spalle molto coperte. Sto ancora aspettando che qualcuno smentisca questa idea.

Galleria Divario. Foto: Studio Daido
Galleria Divario. Foto: Studio Daido
Galleria Divario. Foto: Studio Daido
Galleria Divario. Foto: Studio Daido
Galleria Divario. Foto: Studio Daido
Galleria Divario. Foto: Studio Daido

Sia in Italia che all’estero, nelle grandi città, le gallerie cercano modalità collaborative. Hai riscontrato problemi di collaborazione tra le diverse gallerie della scena romana?

Non posso rispondere in maniera esaustiva a questa domanda perché non ho collaborato con altre gallerie del mio territorio e non posso neanche parlare a nome di tutta la scena romana. Con alcuni galleristi c’è stato un po’ di dialogo, soprattutto con i più giovani, ma niente di approfondito. C’è stato maggior dialogo con i galleristi di altre città come Miilano, Torino, Bologna, e Palermo. Forse a Roma è difficile a causa della conflittualità territoriale, per questioni di concorrenza, per capirci. Tuttavia ho percepito sempre molta riservatezza da parte di tutti i miei colleghi, non soltanto da quelli romani. Pochissimi si sono sbottonati e sono stati sinceri parlando del reale stato di salute della loro attività. Posso anche capire questa difficoltà nell’essere trasparenti o per lo meno schietti, per qualcuno è un modo per tutelare i propri interessi ma, a mio avviso, per poter collaborare si deve avere un confronto aperto, ci deve essere un dialogo costruttivo, bisogna avere un obbiettivo comune. Ci deve essere un’intenzione reale di collaborazione per uscire dal fossato in cui ci troviamo ormai da decenni. Per farti un esempio, due anni fa le gallerie d’arte contemporanea romane hanno promosso un’iniziativa culturale per valorizzare la scena artistica che caratterizza la città, la Rome Gallery Weekend, ma Divario non è stato invitato. Nessuno mi ha contattato e quindi non ho potuto prendervi parte. L’ho scoperto a cose fatte. Magari è stata una leggerezza, magari si poteva rimediare, ma non spettava a me rimediare. Ad ogni modo ho partecipato da visitatore e alla fine ho riscontrato talmente tanti problemi dal punto di vista dell’organizzazione, della gestione, della logistica e della comunicazione che non esserci, l’anno seguente, è stata una mia scelta. Fare un evento della durata di due giorni in cui più di 30 gallerie, fra cui le major, inaugurano una mostra o un evento nella propria sede, in un comune con la nostra estensione geografica, è una scommessa persa in partenza. Mettere insieme tutte le gallerie del territorio rimanendo ognuno a casa propria per me non ha senso e non ne avevamo bisogno, bastava la Rome Art Week. In sostanza non penso che quel tipo di iniziativa avrebbe potuto cambiare in qualche modo le sorti di Divario. I problemi che un giovane gallerista si trova a dover fronteggiare ogni giorno per poter sopravvivere in questo settore sono endemici e non si risolvono in un weekend. A Roma ho provato un forte isolamento, però mi è parso che tutti fossero isolati, ognuno a suo modo e per differenti ragioni.

Alcuni collezionisti sostengono che le nuove generazioni si limitano ad elaborare linguaggi e codici derivativi del secolo scorso. Nella tua esperienza hai riscontrato questo?

Prima di tutto bisognerebbe sapere chi sono questi collezionisti, che cosa stanno guardando e soprattutto in che direzione stanno guardando. Forse stanno guardando la cosa sbagliata nel posto sbagliato. Forse stanno cercando qualcosa di nuovo nei soliti posti. Sicuramente, parlo per esperienza personale, alcuni di loro pensano che le ultime generazioni di artisti si stiano limitando, diciamolo chiaramente, a “copiare” i grandi maestri del passato. Qualche collezionista pensa addirittura che non siano abbastanza originali da meritare la loro attenzione, e forse hanno ragione. Magari qualche giovane artista ha pensato che assecondando i gusti della vecchia guardia avrebbe avuto maggiori chance di successo sul mercato. D’altra parte sono i collezionisti che finanziano gli artisti attraverso l’acquisto delle loro opere. Tutto plausibile. Però mi rifiuto di prendere tutti i giovani attivi sulla scena contemporanea e farne un unico fascio. Mi rifiuto di pensare che tutti si stiano comportando nello stesso modo o che stiano seguendo lo stesso approccio. Non è così. Nei vari anni di ricerca per la mia galleria ho attenzionato il lavoro di una cinquantina di artisti italiani delle ultime generazioni, alcuni super acerbi, altri più maturi, e in nessuno di loro ho mai riscontrato questa tendenza volontaria all’emulazione. Bisognerebbe parlare di alcuni artisti, non di tutti. Bisognerebbe escludere quelli che non corrispondono ai nostri criteri di ricerca e promuovere quelli che, secondo noi, hanno imboccato la strada giusta. Fare una cernita. Bisognerebbe avere una visione chiara di quello che si sta cercando. Inoltre, sul fatto di “rielaborare codici e linguaggi derivative dal secolo scorso” io non ci vedo niente di male. Ma poi perché solo del secolo scorso? Per quanto mi riguarda gli artisti potrebbero arrivare a rielaborare anche il Codice di Hammurabi se quell’operazione portasse a qualcosa di originale. Durante gli anni di studio e di pratica della professione ho imparato che i “riferimenti” sono molto importanti e che dalla rielaborazione di una forma o di un concetto del passato può nascere qualcosa di nuovo e di molto attinente al presente. Il nuovo non è qualcosa che non è mai esistito, appartiene a un passato recente o a un futuro prossimo. Forse i collezionisti di cui parli cercano un’invenzione, qualcosa che ancora non esiste.

C’è forse un atteggiamento arrendevole da parte degli artisti delle ultime generazioni?

Gli artisti delle ultime generazioni non si sono arresi, sono semplicemente ostaggio di un sistema fortemente compromesso. Nella mia esperienza di gallerista ho constatato che pochi di loro amano presenziare a tutti gli eventi e a tutte le inaugurazioni, compiacere i collezionisti, i curatori e via dicendo; fare i PR di sé stessi, in sostanza. La maggior parte di loro ne farebbe volentieri a meno. Ma subiscono la pressione e le conseguenze di un sistema viziato, invischiato, fondato sull’amichettismo e sul familismo, che gli concede pochissime possibilità di carriera. Alcuni di loro, anche i più insospettabili, per poter vivere e finanziare la loro arte fanno un secondo lavoro. A lungo andare questo sistema ti sfinisce, ti consuma, ruba tempo al tuo vero lavoro. Come fanno a ribellarsi? Un prigioniero potrà anche tentare di fuggire, ma se tu lo sfianchi, dove potrà mai arrivare? Per un artista avere una galleria che lo rappresenta significa avere qualcuno che ti conosce e crede nel tuo lavoro, che ti capisce e ti apprezza, che ti promuove e ti aiuta, che vende al posto tuo e che si occupa delle pubbliche relazioni, cosicché tu possa trascorrere più tempo in studio e sviluppare il tuo linguaggio artistico, migliorare. Se le gallerie di ricerca e sperimentazione chiudono, gli artistici a chi si possono affidare? Solo a loro stessi.


Se ti è piaciuto questo articolo abbonati a Finestre sull'Arte.
al prezzo di 12,00 euro all'anno avrai accesso illimitato agli articoli pubblicati sul sito di Finestre sull'Arte e ci aiuterai a crescere e a mantenere la nostra informazione libera e indipendente.
ABBONATI A
FINESTRE SULL'ARTE


Commenta l'articolo che hai appena letto



Commenta come:      
Spunta questa casella se vuoi essere avvisato via mail di nuovi commenti





Torna indietro



MAGAZINE
primo numero
NUMERO 1

SFOGLIA ONLINE

MAR-APR-MAG 2019
secondo numero
NUMERO 2

SFOGLIA ONLINE

GIU-LUG-AGO 2019
terzo numero
NUMERO 3

SFOGLIA ONLINE

SET-OTT-NOV 2019
quarto numero
NUMERO 4

SFOGLIA ONLINE

DIC-GEN-FEB 2019/2020
Finestre sull'Arte