Koen Vanmechelen (Sint-Truiden, 1965), uno dei maggiori artisti belgi contemporanei, con all’attivo diverse mostre importanti in tutto il mondo, dal 1999 porta avanti il singolare progetto The Cosmopolitan Chicken Project: si tratta di un progetto di ibridazione e incroci di polli provenienti da diverse parti del mondo con l’obiettivo di creare un “Cosmopolitan Chicken” (un pollo cosmopolita) che abbia i geni di tutti i polli del mondo. Il pollo diventa così metafora delle relazioni umane, della diversità culturale, dei nostri comportamenti sociali. Il pollo di Koen Vanmechelen è stato esposto in moltissimi contesti ed è alla base di altre opere create dall’artista belga (come il “Padiglione dei Diritti Umani”, uno dei suoi progetti più recenti). Abbiamo incontrato Vanmechelen per parlare con lui di The Cosmopolitan Chicken Project. L’intervista è a cura di Federico Giannini.
Koen Vanmechelen. Foto di Florian Voggender (2013) |
FG. Il prossimo anno, quando si terrà la Biennale di Venezia 2022, Lei presenterà il Suo “Padiglione dei Diritti Umani” che è nato in occasione della Biennale del 2019, come appello al mondo e come possibilità per la nascita di un Padiglione dei Diritti Umani permanente. Può spiegarci il Suo progetto?
KvM. È piuttosto complicato, perché questo lavoro in realtà nasce da più lontano, e affonda le radici nel mio progetto The Cosmopolitan Chicken Project che ruota attorno a un sistema di incroci tra polli: il significato risiede nell’idea che dobbiamo abbattere i confini, che dobbiamo unirci. Grazie a questo progetto abbiamo scoperto tante cose che potrebbero aiutarci a migliorare i nostri comportamenti sociali: è un progetto che parla di migrazioni, globalizzazione, ingegneria genetica e molti altri argomenti. Ed è da qui che nasce il Padiglione dei Diritti Umani, che ha poi trovato la sua concretizzazione a seguito di un evento specifico: mi trovavo a Venezia in occasione di una Biennale e Adriano Berengo mi ha portato al Global Campus of Human Rights al Lido, al Monastero di San Nicolò, dove ho incontrato il segretario del Campuos, Manfred Nowak [giurista esperto di diritti umani, ndr]. Abbiamo cominciato a parlare di tante cose, e una di queste era la creazione di un simbolo dei diritti umani: per puro caso avevo già cominciato a sviluppare un’idea simile per un’opera in marmo, avevo anche un bozzetto sul mio telefono. Si tratta di un’opera composta da cinque libri che parlano di diritti umani, impilati, con un bambino seduto sopra: il bambino è la democrazia, il futuro. Parlando con Nowak è sorta dunque l’idea del Padiglione dei Diritti Umani, che nasce con lo scopo di rompere i confini tra i diversi padiglioni nazionali della Biennale di Venezia. Ci sono tanti padiglioni di tante nazioni diverse, perché non crearne uno che possa superare i confini? C’era però un problema: la Biennale di Venezia non voleva che per il progetto usassimo la parola “padiglione”. Mi sembrava una presa di posizione molto forte, così decisi di organizzare dei Cosmocafe, ovvero degli incontri in cui invitavo le persone a immaginare un padiglione dei diritti umani, radunando un pubblico da tutto il mondo. Ne ho organizzati più di quaranta, per parlare con artisti, filosofi, persone: l’idea è stata quella di portare tutto il risultato della discussione al Monastero e creare lì il Padiglione dei Diritti Umani. Il Padiglione è dunque allo stesso tempo una grande installazione e un luogo dove poter discutere.
Il Global Campus of Human Rights |
Koen Vanmechelen, Imagine human rights. Foto di Kris Vervaeke |
Koen Vanmechelen, Imagine human rights |
Vorrei ricollegarmi a TheCosmopolitan Chicken Project cui ha accennato nella prima parte della Sua risposta perché lo trovo un progetto estremamente interessante, dato che racconta molto del nostro presente ma anche del nostro futuro. Oltre ai temi che Lei ha citato (le migrazioni, la globalizzazione, l’ingegneria genetica) mi viene da pensare alla diversità, al razzismo, e addirittura alla questione dell’immunità e dei vaccini: credo che il Suo progetto abbia in qualche modo previsto tutto quello che è accaduto negli ultimi due anni (e mi riferisco ovviamente alla pandemia di Covid-19). Che cosa vuole comunicare al pubblico con The Cosmopolitan Chicken Project?
Credo di aver previsto una situazione simile già diversi anni fa (da trent’anni dico che prima o poi l’umanità si sarebbe trovata nella situazione di dover fuggire da un virus), e anche nel 2011, alla Triennale di Guangzhou in Cina, avevo creato una grande installazione, Modified Spaces, dove il pubblico era tenuto a entrare indossando una mascherina, a muoversi con attenzione e così via. Quello era un ammonimento: credo che il senso del mio lavoro, e vale ovviamente anche per The Cosmopolitan Chicken Project, sia emerso in maniera dirompente durante questa pandemia, perché ci siamo spinti troppo oltre nello sfidare la natura. E in questo confronto la natura ha la meglio, cosa che non è difficile da prevedere se si comprendono le logiche della natura. Attraverso il mio lavoro ho sempre provato a comprendere le logiche della natura. E col mio progetto The Cosmopolitan Chicken Project ho affrontato sei pandemie diverse con i miei polli, quelle dell’influenza aviaria: dovevo spostarli in continuazione, sottoporli a quarantene e diverse misure di sicurezza. Un’esperienza significativa. In generale, lo ritengo un progetto interessante perché ci fa capire molto sull’umanità, sui conflitti di cui è piena la strada verso i diritti umani, sul nostro rapporto con la natura.
C’è poi un’altra domanda che sorge spontanea da queste considerazioni: dobbiamo proteggere la natura, o quello che creiamo? Qual è la posizione che gli artisti e la società in generale dovrebbero assumere nei confronti di questo problema?
Intanto, la posizione dell’artista si colloca sempre nel mezzo, nel mezzo del conflitto: con le opere d’arte si può mostrare sia come fare le cose in maniera corretta sia come farle in maniera sbagliata. Noi, in quanto esseri umani, spesso non sappiamo come muoverci, ma l’arte può indicarci una strada. Nel mio lavoro c’è sempre questo conflitto: io credo che occorra stare attenti a come ci si comporta nei confronti della natura. Se noi proteggiamo la natura allora proteggiamo noi stessi, e se proteggiamo noi stessi allora proteggiamo anche la natura. Questa è la logica che dobbiamo imparare.
Koen Vanmechelen, The Cosmopolitan Chicken Project. Foto di Stoffel Hias |
Koen Vanmechelen, The Cosmopolitan Chicken Project. Foto di PD Rearick |
Koen Vanmechelen con uno dei suoi polli |
Koen Vanmechelen, Modified spaces |
Koen Vanmechelen, Collective memory |
Koen Vanmechelen, Collective memory |
Il Suo lavoro ha mai ricevuto critiche pesanti?
Certo, un’opera d’arte che non riceva critiche non è un’opera d’arte. Se l’opera d’arte rimane sulla carta è facilmente protetta, ma se viaggia per il mondo allora ecco che arrivano le critiche. Faccio un esempio: trent’anni fa, quando ho cominciato a parlare di diversità, non c’era nessuno che capiva di che cosa si parlasse perché “diversità” era una parola che non era nell’aria, e non era neppure nell’arte. Anche oggi tutti parlano di “diversità”, ma si tratta per lo più di un hashtag, non si parla di come praticare la diversità. Oggi invece ricevo tante critiche quando parlo di ibridazione: sono stato paragonato alla Monsanto, sono stato accusato di “creare polli ibridi”. Credo che occorra recuperare la parola “ibridazione”, in quanto operazione che combatte la monocultura. E in questo caso le critiche nascono quando sfugge il senso dell’operazione.
E non solo: io penso, ad esempio, al fatto che il Suo pollo ibrido è diventato nel tempo sempre più forte e ha offerto un aiuto considerevole nella lotta alla fame. Pensa dunque che l’arte possa fare anche qualcosa di forte e concreto per il mondo in cui viviamo?
Ne sono sicuro, perché i miei polli ne sono un esempio: la filosofia alla base di questo lavoro sta nel fatto che, quando s’incrocia, si ottiene sempre una sorpresa. Gli scienziati che hanno seguito questo progetto hanno scoperto che il mio pollo ibrido ha una forte diversità genetica, cosa che rende il suo allevamento più sostenibile, perché il pollo è più forte. Attraverso un’opera d’arte ho creato dunque un Cosmopolitan chicken che può vivere anche tra le popolazioni più povere del mondo. Ad esempio, i polli che ho cominciato ad allevare cinque anni fa in Zimbabwe sono ancora vivi. I polli che invece vengono importati dagli allevamenti industriali da quelle parti vivono solo sei mesi. È una grande avventura. Anche in Etiopia, ad Addis Abeba, abbiamo avviato un allevamento di polli creato come un’opera d’arte: quando si entra si viene accolti da grandi immagini di polli, ci sono video illustrativi, ma c’è anche il programma di allevamento che soddisfa le necessità delle comunità povere di Addis Abeba. L’idea è quella di diffondere il modello in tutta l’Africa.
Incubated Worlds, il grande allevamento aperto da Koen Vanmechelen in Etiopia |
Inaugurazione di Incubated Worlds |
Koen Vanmechelen in Etiopia. Foto di Eliza Deacon |
Come ha appena dimostrato, il Suo progetto ha fatto il giro del mondo. Solitamente il pubblico come reagisce?
Ci sono sempre due punti di vista, opposti: o si infuriano, o si innamorano. Nessuna via di mezzo. Ci sono però sempre più persone che ne comprendono il contenuto, e di conseguenza se ne innamorano. Perché se si comincia qualcosa di nuovo (come penso che sia il mio lavoro) è molto difficile farlo arrivare al pubblico.
Qualcuno magari lo avrà trovato surreale, com’è nella tradizione delle Sue zone: solitamente quando in Italia pensiamo all’arte delle Fiandre o del Belgio pensiamo a qualcosa del genere. Peraltro di recente la sua estetica è stata definita “neobarocca” da Didi Bozzini: cosa pensa di aver ereditato dalla tradizione della Sua terra?
Quando Bozzini ha parlato di “neobarocco” faceva riferimento a Rubens, ma io citerei anche Bruegel: penso al suo umorismo (vedere un allevamento di polli come un’opera d’arte del resto comporta una certa dose di humour), penso alla critica alla borghesia (prendi un pollo, lo metti su di un piedistallo e lo porti dentro a un museo). Ma non solo: io attraverso un pollo cerco di spiegare l’umanità. Qualcosa di simile avviene anche in Bruegel, lui con i suoi dipinti affronta i grandi temi dell’umanità ma anche i suoi aspetti più minuti, e gioca su questi elementi. Ma dirò di più: trovo che il mio lavoro sia vicino al Rinascimento, perché credo che il mio progetto, se così posso dire, ha dato vita a una sorta di Rinascimento cosmopolita: ha messo assieme intellettuali da tutto il mondo.
Per concludere, quali sono i Suoi progetto per l’immediato futuro?
Sono stato selezionato per la Biennale di Gerusalemme, ho dei piani per la Biennale di Venezia, ho adesso una mostra personale in Belgio, ho inaugurato cinque nuove installazioni nel mio spazio Labiomista, e altre cose interessanti arriveranno nel 2022: toccherà però vedere come evolverà la pandemia, perché mi ha già cancellato una trentina di progetti e occorrerà capire come recuperarli.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).