Nato a Milano nel 1978, Paolo Maggis è uno degli artisti italiani più interessanti della sua generazione. Ha studiato all’Accademia di Brera tra il 1996 e il 2000, per poi trasferirsi nel 2005 a Berlino e nel 2008 a Barcellona, dove tuttora vive e lavora. La sua arte, forte, espressiva, energica, con originali soluzioni che coniugano astratto e figurativo, comunica grande vitalità e fa emergere le motivazioni più intime per cui un essere umano è spinto a produrre arte. Abbiamo parlato con lui delle sue opere, delle sue considerazioni sull’arte, dei suoi progetti futuri. L’intervista è a cura di Ilaria Baratta.
Paolo Maggis |
IB. Ho notato che nei Suoi ultimi lavori c’è sempre un contatto tra i soggetti raffigurati: contatti affettuosi, amorevoli tra madre e figlio, e anche contatti violenti. È un tema che soprattutto in questo periodo di pandemia e di distanziamento fisico diventa molto significativo e attuale. Le chiedo quindi se i Suoi ultimi dipinti nascono proprio dalla situazione attuale e da questo bisogno di contatto che abbiamo.
PM. Certamente questa situazione di isolamento incide molto: il gesto più umano di tutti ovvero il contatto che nel mio lavoro è sempre stato presente, in qualche modo torna ad essere soggetto in maniera prepotente. Ho sempre lavorato sull’interazione tra i soggetti e dei corpi, per cui, dopo una fase in cui mi ero allontanato dalla forma perché avevo bisogno a livello pittorico di capire il senso di ogni pennellata, ho sentito la necessità di tornare attraverso il segno della pittura a ricostruire una immagine. Ho ripreso quindi una narrativa, un’iconografia, legata al corpo e alla relazione tra persone che è quella da cui ero partito. Per me è più un ritorno all’origine che una ricerca legata a una situazione attuale che ovviamente incide, però penso che l’incidenza sia un effetto collaterale: molte volte è più quello che le persone vedono all’interno di una scelta specifica piuttosto che una decisione cosciente e lucida. Tornare alla forma attraverso la costruzione architettonica dei corpi, il quale contatto crea delle reazioni psicologiche tra i soggetti e anche, soprattutto, per chi li vede, è stata una necessità artistica.
Paolo Maggis, Keep me with you (2020; 170 x 130 cm) |
Paolo Maggis, The secret (2020; 110 x 80 cm) |
Le Sue ultime opere si allontanano molto da quelle più propriamente astratte: ho notato questo cambiamento a partire dal 2014-2015... cosa l’ha portata a questo cambiamento verso un’arte più figurativa?
Penso proprio la pittura in sé. Nel 2015 ho capito che nel mio lavoro figurativo c’era un problema: il soggetto era più importante dell’atto pittorico; la pittura talvolta non aveva in ogni segno, in ogni tratto, in ogni pennellata, quell’intenzionalità che in realtà doveva avere. A un certo punto ho ritenuto fondamentale che ogni gesto, ogni azione che io compiessi sulla tela fosse fondamentale, non una correttezza formale e gestuale che non mi mai interessata, ma che fosse frutto di una scelta e di un’azione specifica cosciente. Quindi quando ho visto che la pennellata iniziava a seguire quell’intenzione ho intuito che potevo provare a riprendere l’immagine, ridare una forma a quella pittura che si stava sempre più allontanando dal soggetto. Infatti per quella tipologia di ricerca avevo bisogno del close-up, cioè dovevo prendere dei particolari ed ingigantirli al limite dell’astrazione lasciando che il mio corpo si esprimesse attraverso la pennellata e l’intenzione.
In questi ultimi lavori ho voluto cercare un equilibrio, d’altronde la mia ricerca si è sempre basata sul trovare un equilibrio tra forma e contenuto. Ho sempre pensato che la verità di una cosa non dipendesse dal suo aspetto narrativo, ma da come questo venisse detto: un bambino che dice “Mamma ti voglio bene” esprime una verità talmente grande che continuerà ad essere vera ed emozionare nella sua eterna esternazione perché la verità non risiede nella somma delle quattro parole, ma nella necessità del bambino di esprimerle. Io cercavo e cerco nella pittura quella coscienza del gesto che in qualche modo possa dare verità alla stessa forma; un punto di equilibrio in cui la pittura non sia secondaria, ma anima del soggetto stesso.
Nonostante la Sua formazione accademica a Brera, ha scelto di realizzare arte astratta che si libera dalla correttezza formale e dai limiti imposti dalle convenzioni. Perché ha sentito questa necessità di liberarsi dalla correttezza formale, di uscire dai limiti?
Perché fondamentalmente ho capito che non mi apparteneva. Ho frequentato un’Accademia molto classica e un Liceo Artistico che anch’esso lo era. Questi anni di percorso scolastico mi hanno insegnato come dipingere o disegnare perfettamente un volto, un corpo, un’immagine, ma sentivo che non esisteva una consonanza tra questa conoscenza e quello che ero io come persona e non rispondeva alla necessità espressiva che mi scuote. Dovevo fare in modo che il tratto ed il gesto diventassero fondamenta della mia opera così da poter esprimere meglio quello che sento e vivo nella relazione con la realtà.
Paolo Maggis, Storm (2015; 89 x 116 cm) |
Paolo Maggis, H1747 (2017; 160 x 180 cm) |
Le Sue opere sono fortemente espressive ed energiche e soprattutto questa espressività prorompente è resa attraverso il colore, con grandi e dense pennellate ben visibili e marcate sulla tela. Il colore diventa quindi l’elemento fondamentale della Sua arte. Perché il colore è protagonista nelle Sue opere e cosa intende significare attraverso il colore?
Per me il colore è vita. Quando dipingo non scelgo il colore, è il mio corpo che lo sceglie: molte volte non guardo neanche il tubetto che prendo. Il colore è vita, passione. Ho vissuto a Berlino e poi a Lipsia e in quelle città si ha la sensazione che il colore non esista, si vive la mancanza di luce: è tutto grigio anche quando c’è il sole. La luce ed il colore dànno vita alle cose, catapultano il soggetto nell’ambito della vita. La scelta del colore è legata a questa esigenza di espressione vitale, che magari si discosta da una visione più intellettualistica o legata a scelte concettuali dell’arte contemporanea, ma che é parte del mio desiderio. Attraverso il colore io vivo.
Lei definisce i Suoi dipinti come “il risultato di una lotta della materia pittorica che si libera dai limiti imposti dal soggetto”... addirittura in alcuni “le pennellate lottano per la sopravvivenza”. C’è una sorta di filosofia quindi all’interno delle sue opere...
Non so se chiamarla filosofia, perché la filosofia è razionale, riflette sulla vita attraverso il pensiero. La mia non è solo riflessione sulla vita, la vedo più come un tentativo del mio corpo di esprimersi nella relazione con il mondo. Penso che il nostro cervello sia una macchina pazzesca che contiene molto di più di ciò che la nostra stessa ragione può concepire. Ad un certo punto ho compreso che dovevo dare fiducia al cervello e alle possibilità infinite che esso può generare, al di fuori della mia tentazione di contenerlo: la pittura lotta con il soggetto perché in realtà ogni cosa che fai all’interno di un quadro è una scelta di vita. Le pennellate distruggono il soggetto e quest’ultimo cerca di resistere in una evidente contraddizione che é semplicemente parte di un processo totalmente oltre la mia capacità di poterlo contenere. Perché io amo fare arte? Perché è il miracolo di vedere che il tuo corpo, nel senso unitario del termine, seguendo un ordine che non è nella tua logica e forse nemmeno nel subconscio, crea un’immagine nonostante te, oltre la tua idea preconcetta; nel momento in cui tu introduci all’interno di quell’atto creativo il pensiero, rischi di ucciderne il risultato. Quando creo c’è un momento in cui perdo la coscienza di quello che sto facendo: come se vi fosse una coscienza superiore o altra per cui le pennellate scorrono, il soggetto si costruisce o si decostruisce, ma, in quel momento io non sto pensando, son solo io, libero.
Anche nei dipinti più astratti, la Sua arte parte dalla realtà. Può spiegare questo rapporto con la realtà?
Credo che l’arte sia tutta astratta perché tutta l’arte è un’operazione di astrazione. Quando prendo un soggetto e lo estrapolo da un contesto sto compiendo un gesto di astrazione condizione di cui nemmeno la pittura più formale é in grado di liberarsi. D’altra parte noi non siamo in grado di vivere senza la realtà fondamentalmente perché questa è l’unico strumento che noi abbiamo ricevuto per conoscere, ragione per cui credo che in fondo l’arte astratta e quella figurativa condividano la stessa madre. Quando un artista dipinge la tela di un colore (faccio l’esempio di Yves Klein) quel colore è qualcosa, è una parte di realtà. Personalmente anche nei miei quadri più astratti son sempre partito da un’idea di forma tangibile o che avevo in mente, da un’architettura formale che si potesse descrivere attraverso linee e geometrie tanto da convincermi che anche il quadro più astratto parta sempre da un qualcosa che è stato visto e che si è sedimentato nella mente sede in cui ha trovato un luogo dove vivere per poi prosperare. Tutto ciò che io faccio è prendere un pezzo di realtà e trasportarlo sulla tela.
Paolo Maggis, H1744 (2017; 147 x 195 cm) |
Paolo Maggis, H1805 (2018; 83 x 92 cm) |
Quali sono i suoi modelli per la Sua arte? Se s’ispira a qualche artista...
Evidentemente nel mio lavoro ci sono tantissimi riferimenti come immagino avvenga per la maggior parte degli artisti. Noi tutti abbiamo studiato, vissuto e sentito l’arte, e abbiamo frequentato musei: le cose che noi vediamo si immagazzinano nel nostro cervello per poi riemergere. Come dicevo, di riferimenti ne ho tantissimi che abbracciano tutto il corso della storia dell’arte. Un artista che ho sempre amato moltissimo è Tiziano, soprattutto nell’ultima fase del suo lavoro; adoro il lavoro di Vedova, molto più astratto e contemporaneo; mi piace moltissimo la grande figurazione da Masaccio a David Hockney; però faccio molta fatica ad individuare degli elementi in concreto. Riconosco che nel mio lavoro c’è una visione centripeta, dove tutti gli elementi convergono verso un centro, e posso anche riconoscere una radice profondamente italiana dal punto di vista pittorico. Procedo per grandi pennellate, che se all’inizio della mia ricerca erano giustapposte ora sono sedimentate creando una superficie strutturata in layers. Non sono più quindi colori isolati, ma il colore si presenta al fruitore vibrante grazie alla somma di sovrapposizioni più o meno trasparenti come avveniva per le velature nella pittura del Seicento.
Lei ha dichiarato: “Sì, l’arte, chiamiamola utopia, può cambiare il mondo”. Cosa intende con questa affermazione? Che ruolo ha per Lei l’arte?
Mi riferivo alle arti in generale, che sia arte, filosofia o letteratura. Credo che l’arte sia quella magia, quel miracolo che, in qualche modo come è successo a me, ti può cambiare la vita, la visione delle cose, ti può far riflettere in maniera diversa. L’arte, per la sua capacità di generare pensiero, ma anche emozioni, sensazioni, subconscio, ha una forza motrice per la quale il nostro cervello e la nostra persona possono cambiare. Mi è successo molte volte vedendo delle opere o leggendo dei libri, poesie molte delle quali all’inizio non ho nemmeno compreso o considerato sufficientemente, ma che senza accorgermene si sono impresse nella memoria. Con il tempo queste cose lette e viste in qualche modo mi hanno spostato fisicamente da una posizione ad un’altra o da una visione miope a una più chiara ed ampia. Credo che l’arte possa cambiare il mondo se vissuta come relazione e se vissuta in relazione alla vita, può cambiare la testa delle persone e cambiare il punto di vista con cui tornare ad affacciarsi alla realtà. L’arte può cambiare il mondo nel senso umano ed esperienziale del termine: quella parola detta, quel quadro visto possono farti riscoprire la vita. Nelle opere vedi, vivi qualcosa di grandissimo capace di scatenare il desiderio di impossessarti, di tornare a fare esperienza di quella bellezza, di quella grandezza, e questo desiderio ti spinge a compiere delle azioni che ti cambiano per sempre.
Lei ha vissuto a Berlino e ora vive e lavora a Barcellona. Come vede la situazione attuale dell’arte contemporanea negli altri paesi europei rispetto all’Italia?
Premettendo che la Germania e la Spagna sono situazioni molto molto diverse tra loro e poco hanno a che spartire con la situazione italiana, credo che l’arte italiana in questo momento stia soffrendo molto. Sia a livello istituzionale che a livello culturale generale, c’é una mancanza totale di avvicinamento all’arte. In Germania le persone sono abituate a visitare i musei che frequentano senza complessi portando incluso i loro figli, mentre in Italia, e in Spagna in maniera ancora più accentuata, c’è molta meno frequentazione delle sale d’arte. Ciò genera evidentemente tutta una serie di conseguenze per cui l’arte rischia di diventare sia a livello della sua produzione che a livello della sua fruizione, un linguaggio specifico sconnesso dal mondo, assolutamente antidemocratico, cioè fuori dalla possibilità di tutti di accedervi, e dall’altra parte incapace di generare. Se l’arte è generazione di pensiero, generazione di bellezza, e anche di critica sulla vita, nel momento in cui non si stimola il suo interesse ed esercizio nelle scuole e nella vita quotidiana familiare, la sua potenza viene completamente annichilita. In Germania tutti accedono ai musei, le persone sono abituata a frequentare i musei, le scuole portano i ragazzini a vedere i musei, cosa che in Spagna non avviene e in Italia poco e sporadicamente. Il problema dell’arte, come tutte le cose legate all’ambito culturale d’altronde, è che non basta vederla una sola volta per essere capita ma ha bisogno di costanza e dedizione. È molto difficile che vedendo un’opera all’anno una persona possa comprendere cos’è l’arte, ha bisogno di frequentazione, cosa che in Italia non è mai mai stata stimolata, né a livello scolastico né educativo. Oggi viviamo uno scollamento tra arte e vita, quasi l’arte fosse antagonista inutile del percorso cognitivo dell’essere. Se da un certo punto di vista l’arte contemporanea ormai non parla più a nessuno se non a se stessa perché asettica, ermetica, la vedi e non puoi capirla a meno che non abbia letto tutta una serie di volumi e scritti che la giustifichino, dall’altra il pubblico, ha smesso di cercarla quindi guardarla e di chiedere qualsiasi cosa. L’arte proprio per il suo essere visiva ha bisogno di essere guardata e guardare richiede tempo ed amore.
Quali sono i Suoi progetti futuri?
I progetti futuri in questa situazione sono un po’ volatili, fumosi, comunque in questi giorni inaugura la mostra Close-Up a Milano dove avrei voluto essere presente. Da tempo vorrei tornare in Italia con il mio studio. Sicuramente ci saranno altri eventi sia privati che pubblici, ma è tutto ancora molto confuso. In questo momento viviamo nell’incertezza ed è tutto bloccato o si muove a tentoni. Anche se vuoi fare, fai molta fatica a fare. Ma noi continuiamo: l’arte non finirà mai.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.