Federico Fusj (Siena, 1967) è un eclettico artista contemporaneo, sperimentatore alla costante ricerca di nuove possibilità e nuovi linguaggi per fondere esperienze artistiche anche apparentemente lontane. Sua è per esempio l’idea di una “radio arte”, che considera disciplina simile alla pittura o alla scultura. Formatosi all’Istituto d’Arte di Siena e all’Accademia di Brera, Fusj ha studiato con Alik Cavaliere, Andrea Cascella e Luciano Fabro, ha esposto in contesti nazionali e internazionali (per esempio al Troubleyn Laboratorium di Jan Fabre ad Anversa, al Museum SMAK di Ghent, alla nona edizione di Sonsbeek ad Arnhem, alla settima Biennale dell’Avana). È inoltre fondatore della stazione radiofonica Radioarte e dell’etichetta di produzione artistica Inner Room. Lo abbiamo raggiunto per farci raccontare le sue particolarissime ricerche. Intervista a cura di Ilaria Baratta.
Federico Fusj, Ambiente@Troubleyn.be (2016; pigmenti su carta, suono, ottone; Anversa, Troubleyn Museum) |
IB. Nel 2016 ha organizzato un trekking culturale per porre sull’eremo di Sant’Onofrio la scultura in onice bianco Fonte Y accompagnata da una Peshitta, una versione siriaca del Nuovo Testamento. L’iniziativa era legata al monachesimo cristiano: cosa ha significato per Lei quest’iniziativa? Come le è nata l’idea? In quale misura le Sue opere sono legate al sacro?
FF. La manifestazione è stata organizzata dall’Accademia di Belle Arti dell’Aquila, ideata dal suo direttore, il professor Marco Brandizzi, e la mia area curata dal professor Enzo de Leonibus. Si trattava di individuare dei percorsi di arte e spiritualità negli eremi dell’Abruzzo, riportando alla luce questa grande tradizione precedente a Celestino V. Nel caso specifico, ho organizzato questo trekking culturale perché intendevo partire dalla realtà del territorio, ovvero l’eremo di Sant’Onofrio all’Orfento, che è uno degli eremi più isolati, e peraltro è semidistrutto: il senso non era tanto quello di esporre un lavoro in una sede, ma creare una sorta di percorso. Mi interessa creare una dinamica attorno alle opere, non mettere me in prima posizione né, tanto meno, affrontare un aspetto isolato: andare in quel posto ha significato coinvolgere tutta una serie di energie e creare una serie di sinergie. Quanto al discorso del sacro, il mio presupposto non risiede tanto nell’andare in un luogo sacro, ma cercare di ragionare su ciò che può essere sacro oggi. Vorrei introdurre un termine, ha-makom, “il luogo” [in ebraico, ndr]. Per quanto mi riguarda il sacro non è un luogo al di fuori. Il sacro è il luogo dell’esperienza rivelativa, della consapevolezza e della memoria dell’esperienza stessa. È ovvio che il termine “sacro” significhi “messo da parte”, per un’occasione speciale o per un evento speciale, o anche per una dimora speciale, come nel caso degli eremi. È con questi propositi che mi sono avvicinato alla mostra e ho pensato di portare una fonte, da cui potessero scaturire delle nuove esperienze per tutti coloro che fossero entrati in contatto con l’opera stessa. Straordinario è stato il momento in cui siamo arrivati lì, improvvisamente sono apparse delle persone, attraverso la boscaglia, la sterpaglia. Pensavamo di non trovare nessuno, perché è un luogo davvero impervio. Abbiamo quindi documentato il tutto, siamo stati piacevolmente contraddetti da queste presenze che spuntavano improvvise.
Nello spazio della Inner Room ch’era stato temporaneamente allestito a Firenze nel 2013, si è tenuta la sua retrospettiva personale Altolocato. Una mostra che ha sottolineato la Sua attenzione per la riflessione personale, metafisica, in uno spazio, presentato da Lei come “città interna”, in quanto luogo in cui ogni membro dell’abitazione sviluppa il proprio talento e non come semplice luogo della quotidianità. Quanto è importante per Lei la ricerca meditativa nell’arte? È fondamentale per Lei esporre le Sue opere in uno spazio che sia legato in un certo modo al significato delle Sue opere?
Inner Room è un’etichetta di produzione artistica, fondata con Romeo Giuli a Siena nel 2010, con un programma ciclico nella propria sede ed altrove. Ha operato a Firenze su invito di amici proprietari di un appartamento della tradizione architettonica fiorentina del secondo Dopoguerra che prende in considerazione lo spazio e la luce, con una sorta di quinta di proscenio. Riprendendo un linguaggio architettonico fiorentino risalente all’età rinascimentale. La riflessione sullo spazio, e sulle opere nello spazio, senz’altro può essere riferita a quanto ci siamo detti poco fa. A me piace dialogare con lo spazio, piace assumere lo spazio, piace assumere anche le accidentalità nel corpo d’opera. E mi piace non rimanere isolato e non cercare un isolamento: credo che noi tutti in realtà siamo un uno, e ci muoviamo tutti insieme. E lo stesso vale per le opere, chiamate a muoversi e ad abitare dentro uno spazio. Quindi l’opera d’arte non ha un ruolo di occupazione di uno spazio, ma ha un ruolo di dialogo e di riformulazione continua dello spazio. In questo può risiedere la parola “meditazione”. Nella mia cultura, la parola “meditazione” ha quell’accezione che significa “mettere in pratica”: chi ascolta la parola e la mette in pratica è altrimenti tradotto “chi ascolta la parola e la medita”. Il senso di meditazione è allora riferibile alla poesis, cioè al fare, dove questo “fare” significa ricostituire continuamente, attraverso l’opera, lo spazio attorno a noi: la vita.
Federico Fusj, Aleph (2017; marmo scolpito). Ph. Credit Bruchi |
Federico Fusj, Ritratto morale dell’HaMashiah VIII (2017; marmo scolpito). Ph. Credit Bruchi |
Lei ha introdotto nell’attività artistica lo strumento radiofonico, creando la “Radioarte”: una novità per l’arte contemporanea. È una commistione tra arte e suono. Come Le è nata quest’idea?
Quest’idea è nata dalla distanza, se vogliamo, nella quale mi sono trovato a vivere, per scelta e per necessità, rispetto ai centri della mia formazione artistica, come Milano, e ai centri della mia successiva operatività, prevalentemente Roma e altre città europee. Intuivo come un limite nella forma visiva parimenti al l’urgenza di coniugare una mia passione, la radio, uno strumento con il quale mi sono formato, che ho amato e tuttora amo e che tuttora sento vicino, con l’arte. Così facendo, quasi ad occhi chiusi, ho sentito il desiderio di creare il concept “radioarte”, dedicata a un mondo dell’arte e a tutti coloro che lo vivono. Proseguendo ho avuto la possibilità, nel 2001, durante la mostra Sonsbeek 9 ad Arnhem in Olanda, grazie alla sensibilità di Jan Hoet e del suo staff curatoriale che hanno sposato quest’idea, di poterla attuare per la prima volta con una trasmissione-interazione in una radio FM locale. L’esperienza poi si è arricchita in modo aperiodico: attraverso Mario e Dora Pieroni del l’Associazione Zerynthia, quando abbiamo progettato RadioArteMobile nel 2002. Poi con la EuropeanCulturalFoundation in RadioarteJump nel 2004 e con la sperimentale RadioCantonuovo a Siena nel 2008. Di recente con l’Accademia Musicale Chigiana, diretta da Nicola Sani, abbiamo iniziato una collaborazione per cui Radioarte produce dal 2016 anche CHIGIANAradioarte, sezione sound-radio art e radio ufficiale del Festival Internazionale chigiano. Radioarte oggi è una sorta di galleria, museo, open space, in una web-radio compartecipativa. Così mi sono trovato da mero artista sperimentatore della radio nell’arte contemporanea ad anche editore, di un linguaggio artistico, la radio art, che nel frattempo si è evoluto mettendo a regime quelle esperienze pionieristiche con la radio ed il suono iniziate in modo organico alla fine degli anni Quaranta del Novecento. Quindi sono partito senza sapere cosa mi aspettava, e nel frattempo abbiamo tutti visto crescere e svilupparsi quella che poi, secondo me, è una vera e propria disciplina. Pertanto a Radioarte oggi promuoviamo questa disciplina artistica, al pari della scultura, la pittura o altre esperienze d’arte sia contemporanea che classica.
In occasione della Sua mostra “Roeh”, nel 2012 ha avuto l’onore di esporre una serie di marmi alla Pinacoteca Nazionale di Siena. Una di queste opere è stata inserita nella collezione permanente della Pinacoteca. Da artista senese, cosa ha provato nel vedere le proprie creazioni nel museo più importante della Sua città d’origine?
Onestamente... incredulità: questa è stata la prima parola, la prima reazione. Tutto è nato durante l’assegnazione dell’incarico per il monumento al 150° anniversario dell’Unità d’Italia. L’iter prevedeva anche un parere critico della Soprintendenza (ente che presiede anche alla Pinacoteca) sulle mie opere. Nel momento in cui il soprintendente Mario Scalini è entrato in contatto con l’opera Roeh, ha proposto di averla in collezione alla Pinacoteca. E da qui è nata l’idea della mostra con la direzione di Annamaria Guiducci e la cura di Maria Mangiavacchi. La Pinacoteca Nazionale di Siena, inutile dirlo, non è solo uno dei musei più importanti di Siena, ma è uno dei musei più importanti del mondo, perché vi sono conservate opere che hanno segnato la storia dell’arte. Per quanto mi riguarda, il fatto di essere in quella sala è un riconoscimento a questa ricerca che sto facendo e all’intimità che ho con le opere che sto realizzando. Che Roeh sia lì mi fa riflettere su quello che sto facendo in relazione ad un percorso storico ben preciso e come esecutore ne sono onorato. Lo vivo come un riconoscimento all’intimità che ho con quanto realizzo. In altre parole mi sento ne più ne meno che un accompagnatore delle opere. Eseguendole le accompagno dove sono richiese e amate, dove sono conservate.
Federico Fusj, Roeh (2010; marmo scolpito; Siena, Pinacoteca Nazionale). Ph. Credit Bruchi |
Come abbiamo appena ricordato, tra le sue opere scultoree, ha avuto l’occasione nel 2011 di compiere un altorilievo per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. La sua arte ha un rapporto con la storia? Pensa che la tradizione storica possa convivere con la sperimentazione?
Sì, penso che la tradizione storica possa convivere con la sperimentazione. Credo che la posizione storica che stiamo vivendo sia chiara. Il fatto poi che sia stata voluta un’opera quale è la mia, per rappresentare un monumento importante come questo all’interno della tradizione senese (siamo a contatto con il Duomo di Siena: il campo visivo è quello) pone una continuità. È interessante che questa continuità sia stata determinata dalle istituzioni: operare e dare la possibilità di creare in quell’area è stata infatti una scelta istituzionale. Mi sembra un dato rilevante, perché la Prefettura e la Provincia hanno chiamato l’artista a compiere un servizio, un servizio (se mi è consentito) di grande valore aggiunto e per il quale sono grato. Questo perché è dal servizio che scaturiscono le opportunità, e non dalle opportunità che arriva il servizio. Questa è una dimensione politica, intesa proprio come riguardante il cittadino, e si tratta di un gesto che, ho avuto modo di constatare, è stato molto profondo in chi lo ha vissuto nei rispettivi incarichi. L’Italia purtroppo subisce quello che la sua storia in un certo senso ha trascritto, quindi tutto ciò che è culturalmente ascrivibile all’Italia in qualche modo ha perso significato e valore. La sconfitta, la resa, sono un qualcosa che gettano un’ombra sulle generazioni. Questo crea un pregiudizio, un pregiudizio formale che poi si riflette su quello che le generazioni vivono. Compito dell’arte e dell’artista credo sia anche quello di porre un interrogativo su ciò che è la continuità, inevitabile, di una nazione come quella dell’Italia in una cultura come quella italiana. Io rifletto anche in questo senso. Il monumento infatti parla dell’Italia che può essere. È una porta. Evoca la benedizione su questo paese.
Federico Fusj, Italia150, Monumento per il 150° dell’Unità d’Italia (2010; marmo scolpito; Siena, Palazzo del Governo) |
Le Sue sculture, nella maggior parte marmoree, appaiono malleabili: la materia con cui sono realizzate sembra plasmabile se ci si sofferma sugli incavi, sulle sezioni anche geometriche alle quali Lei dà forma nel marmo. A cosa si ispirano le sue creazioni?
Si ispirano all’unità con il sentire primario interiore, all’inscindibilità, alla coerenza. In una parola al governo di noi stessi. Recentemente lavoro ai Ritratti morali del re-servitore, un’attributo di carattere che ogni essere umano ha a disposizione. Ispirati quindi a ciò che è profondo e non visibile e che lascio trovare sulla superficie del marmo a segno vivo, nobilitata dal tratto del ferro. Anche qui per ognuno di questi pezzi possiamo parlare di ha-makom: di luogo. Di esperienza speciale che diviene luogo potenziale dell’accoglienza per chi li approccia. L’accoglienza e l’essere accolti che sono l’esperienza dell’accoglienza di se. Esperienza che però l’uomo è anche libero di rifiutare. Qualcuno ha detto che prima di tutto sono opere di raffigurazione astratta dove per astratto personalmente intendo la massima consapevolezza: la pace.
Oltre alle sculture, ha realizzato anche opere su carta. Si definisce più scultore o artista che realizza sculture e dipinti? A cosa si ispirano i Suoi dipinti?
I miei dipinti si ispirano alla scrittura, allo spazio, alla parola. E lo fanno personificando il colore nella vita materica. Mi interessa un risultato materico che emerge dall’opera: in poche parole io licenzio queste opere quando vedo che hanno raggiunto qualcosa oltre il quale non si può andare. Come mi definisco? Mi definisco qualcuno che ha una necessità, e in tal senso la scultura è il mio primo amore, perché è attraverso questa pratica che ho scoperto il linguaggio artistico, all’età di undici anni, quindi per me è continuativo, fa parte della mia storia, della storia della mia persona. Lo stesso vale per la pittura che come mezzo espressivo ho incontrato, nella sofferenza, ancora prima. Dunque cosa posso essere, uno scultore che dipinge o un pittore che scolpisce? Mi voglio definire... un “radiofonista visivo”.
A quale progetto sta lavorando e quali sono i Suoi progetti per il futuro?
Prima di tutto mantenere l’arte libera dal funzionalismo omicida che gassifica il tempo presente. Inizio a portare a compimento, in questo periodo, la serie di sculture che si basa su Roeh. Saranno trentatré formelle che costituiranno un’opera unica, un ragionamento attorno a quella che definisco la spina dorsale della nuova scultura italiana. Inoltre ci sono altri progetti che si stanno delineando dei quali è prematuro parlare. Ho però in mente il progetto di lasciare questo mondo da vuoto, cioè di arrivare alla fine di questo tempo e di aver messo fuori tutto quello che ho dentro. Questo è il mio progetto per il futuro.
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.