Nicola Samorì (Forlì, 1977) è uno dei più interessanti e celebri artisti italiani contemporanei. Noto per i suoi dipinti che richiamano l’estetica del Seicento, Samorì indaga l’azione del tempo, il nostro rapporto con il passato, con i musei e con la storia dell’arte, l’alterazione cui le opere vanno incontro nel corso del tempo. Si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Bologna e ha esposto in tutto il mondo. Tra i vertici della sua carriera, la partecipazione a due Biennali di Venezia, quella alla mostra “Arte italiana 1968-2007. Pittura” a Milano (Palazzo Reale), le personali al MAC di Lissone, alla Kunsthalle di Kiel, al Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro. Ilaria Baratta lo ha intervistato e Nicola Samorì ci ha raccontato la sua arte.
IB. Nella Sua ultima mostra personale “La candela per far luce deve consumarsi”, che si è tenuta da luglio a ottobre 2017 nel Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro, le Sue opere dialogavano con le collezioni dei Musei Civici di Palazzo Mosca. In che modo e con quale atteggiamento si è confrontato con queste ultime? Il titolo dell’esposizione rimanda a questo confronto?
NS. Mi è stato domandato espressamente di includere lavori provenienti dalle collezioni pesaresi e, durante il primo sopralluogo, è stato semplice trovare la chiave di volta sfruttando il demone dell’analogia: un Cristo e il manigoldo dipinto da Giuseppe Maria Crespi, danneggiato durante la Seconda Guerra Mondiale al seguito della distruzione di un’ala di Palazzo Mosca nel quale il dipinto su rame era conservato. Il titolo coincide con l’ultima frase attribuita a San Carlo Borromeo e si connette al grande legno verticale che si ergeva al centro dell’ex Chiesa del Suffragio, Lieve legno, simile a un immenso cero in disfacimento.
Allestimento della mostra La candela per far luce deve consumarsi. Ph. Stefano Maniero |
Nicola Samorì, Lieve legno (2017; legno di noce, 275 x 40 x 30 cm) |
Giuseppe Maria Crespi, Cristo e il manigoldo (1735-1740 circa; olio su rame, 41 x 32 cm; Pesaro, Musei Civici di Palazzo Mosca) |
E come si è confrontato con le opere di Alberto Burri esposte per la retrospettiva “Gare de l’Est” nel dicembre 2016? Era la prima volta in assoluto che le opere di Burri provenienti dalla Fondazione Palazzo Albizzini venivano affiancate alle Sue opere scultoree e alle opere di Gustave Joseph Witkowski in uno spazio insolito come quello del Teatro Anatomico dell’Università di Padova. Come si pone in relazione a questi importanti confronti?
Con una buona dose di incoscienza - indispensabile ad osare - anche perché non conosco vie lucide per avvicinare fisicamente un’opera di Alberto Burri.
In occasione della Sua mostra “La dialettica del mostro” del febbraio 2010 a Milano, Lei ha dichiarato che il Suo oggetto di ricerca è “restituire un teatro instabile dove ritratti di ritratti (mai ritratti dal vero) falliscono ripetutamente il loro tentativo di compiersi”. Effettivamente la maggior parte delle Sue opere sono caratterizzate figure con visi indefiniti, non delineati, quasi diluiti, spesso addirittura inesistenti o sfregiati. Quale significato ha per Lei rappresentare ritratti di figure senza volto? Da cosa è nato questo Suo tratto distintivo?
Vincere la schiavitù dello sguardo: se si strappano gli occhi e parte del viso al corpo una miriade di nuovi occhi gemma intorno al maltolto. Anche così iniziamo a vedere cosa accade oltre le orbite, spostando l’attenzione dalla complicità degli sguardi alla macchina della rappresentazione e a tutti quei meccanismi che l’incontro dei nostri occhi con quelli dipinti sposta in una zona d’ombra.
Allestimento della mostra Gare de l’Est. Ph. Rolando Paolo Guerzoni |
Nicola Samorì, Agnese (2009; olio su rame, 100 x 100 cm) |
Nicola Samorì, r41 (2010; gesso alabastrino, cera, pigmenti, 170 x 115 x 45 cm) |
Da quale sentimento è mossa la Sua arte? È un gesto di rabbia, di ribellione o prende forma da un sentimento più profondo?
Non sempre si è gentili con ciò che si ama. Non mi sono mai ribellato a nulla e non sono nemmeno rabbioso. Io cerco di captare la stanchezza delle immagini nei musei e nella nostra memoria, che per ritrovare sangue hanno bisogno di una catastrofe; ma lo sfregio non è mai un ingresso vandalico nel corpo delle forme, bensì un espediente meditato che insinua una rilettura spezzando il filo della narrazione.
Le Sue opere hanno generalmente uno sfondo scuro che ricorda il periodo Barocco, quando le figure rappresentate si stagliavano su sfondi neri o di color marrone scuro. In che misura la Sua arte è legata al Barocco?
Il Barocco è solo uno dei segmenti della storia dell’arte che saccheggio, con una attenzione continua alla figura di José de Ribera, che ho imitato decine di volte. La convulsione barocca in realtà non mi è nemmeno congeniale, perché comporta una dispersione nello spazio, in conflitto con il mio ieratico senso del centro. Ma Ribera è essenziale nell’impaginazione e turgido nel modellato, perciò un suo corpo nella notte offre sempre una presenza perfetta per una lunga serie di alterazioni che partendo da una pittura quattrocentesca non sarebbero pensabili.
A sinistra, Nicola Samorì, Le formiche (2017; olio su rame, 100 x 100 cm. Courtesy Galerie EIGEN + Art, Lipsia / Berlino). A destra, José de Ribera, San Paolo eremita (1632 circa; olio su tela, 132,7 x 106,7 cm; Baltimora, The Walters Art Museum) |
A sinistra, Nicola Samorì, La caduta dei giganti (2017; olio su rame, 70 x 50 cm). A destra, cerchia di José de Ribera, San Girolamo (prima metà del XVII secolo; olio su tela, 92,7 x 70,5 cm; Collezione privata) |
A sinistra, Nicola Samorì, Lucrezia (2010; olio su tavola, 100 x 100 x 5 cm). A destra, Guido Cagnacci, Lucrezia (1636-1640 circa; olio su tela, 114x112 cm; Collezione privata) |
A Suo parere, quanto crede che l’arte contemporanea, di cui Lei è già un affermato esponente, sia o debba essere legata all’arte del passato? Relativamente ai temi che predilige, quali di questi riprende dall’arte antica?
Non credo nei doveri dell’arte, ma ho fiducia nella sua enorme memoria che ci obbliga a un confronto con il preesistente. Difficile, del resto, pensare a un gesto “nuovo” senza una curiosità enciclopedica nei confronti di chi ci ha preceduto. C’è poi un senso della disciplina nell’arte antica, anche in quella che a suo tempo fu più trasgressiva, che rende le opere, ai miei occhi, più eccitanti e che ci insegna a complicarci la vita per dominare la forma ricavandone soddisfazioni solide. In merito ai motivi del passato che prediligo direi senz’altro l’iconografia dei santi e il calendario crudele del loro martirio.
La grande parte delle Sue opere appartiene all’arte pittorica: su carta, su tavola, su rame, su lino. Predilige maggiormente la pittura alla scultura? In caso di opere scultoree, applica le stesse influenze e gli stessi significati delle opere pittoriche?
È più semplice far proliferare opere pittoriche che non scultoree; questa è la ragione principale dello squilibrio. Ma l’oscillazione da una pratica all’altra mi è necessaria perché quando la pittura inizia a puzzare ho bisogno di disintossicarmi con la pietra, e quando la polvere inizia a perseguitarmi torno alla pittura. Le mie mani sono più a loro agio con la scultura; tuttavia una mole enorme di pittura ha generato automatismi che condizionano anche ogni mia prova plastica.
Quale funzione dà Lei all’arte?
L’arte è un foro nel tempo, qualcosa che ne anestetizza la corsa.
Quali progetti ha nel cassetto per le Sue prossime opere o esposizioni?
Ora lavoro per la mia prossima personale berlinese che si terrà nella Galerie EIGEN+ART in ottobre: un affresco monumentale che inghiotte otticamente, come una voragine, una scultura in pietra nera. Ai lati piccole visioni meticolose che fissano la paura dell’uomo come episodi al microscopio.
Nicola Samorì, Senza titolo (2016; legno fossilizzato, 45 x 20 x 17 cm. Courtesy Monitor Gallery, Roma) |
Nicola Samorì, Lucy, dettaglio (2016; marmo di Carrara e frammento lunare, 90 x 35 x 30 cm. Courtesy Monitor Gallery, Roma) |
Nicola Samorì, Anulante (2018; olio su rame, 70 x 50 cm. Courtesy Monitor Gallery, Roma) |
Nicola Samorì, Corpus Domini (2017; olio su rame, 40 x 30 cm) |
Nicola Samorì, In principio era la fine (2016; olio su rame, 30 x 20 cm. Courtesy Monitor Gallery, Roma) |
Nicola Samorì, San Pietro all’inferno (2016; olio su tela di lino, 300 x 170 cm. Courtesy Monitor Gallery, Roma) |
Nicola Samorì, Maddalena (2010; olio su tavola, 70 x 50 cm) |
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.