IB. Dopo un anno e mezzo di chiusure e restrizioni si è conclusa la venticinquesima edizione di MiArt, prima fiera in Italia a tornare nella sua versione in presenza. Quali erano le aspettative?
NR. L’aspettativa era di tornare a fare una fiera che fosse in continuità con le edizioni del passato, cioè con la direzione che aveva imposto Vincenzo De Bellis, e che era stata poi continuata da Alessandro Rabottini. Ci aspettavamo dunque di tornare alla normalità. Dal punto di vista delle aspettative sul pubblico c’era ovviamente più incertezza anche solo fino a un mese e mezzo fa, nonostante io e tutto il team di Fiera Milano fossimo ben convinti di quello che stavamo facendo. Devo dire però che la risposta è stata molto positiva e molto incoraggiante, sia in termini di numeri di gallerie che hanno partecipato, 142, ma anche e soprattutto di pubblico: abbiamo avuto una flessione del pubblico inferiore al 30%, che dato il contesto mi sembra già un enorme successo. Secondo me poi abbiamo avuto buoni risultati anche dal punto di vista delle vendite. Ho parlato con diverse gallerie, che sono riuscite finalmente a riprendere i contatti anche vis a vis con i collezionisti propri ma anche con collezionisti nuovi, e questo ha comportato anche diverse vendite... ché poi l’obiettivo finale di una fiera d’arte è proprio quello di dare energia, linfa, risorse anche economiche al sistema delle gallerie.
Quindi riassumendo il bilancio finale è superiore alle aspettative.
Sì, è stato positivo, anche più di quanto ci aspettassimo.
Era la prima volta che si trovava a dirigere MiArt e in generale una fiera d’arte di grandi dimensioni: come ha affrontato questa nuova esperienza, su cosa ha scelto di puntare e cosa ha voluto cambiare rispetto al suo predecessore?
Ho affrontato l’esperienza cercando per prima cosa di imparare questo nuovo mestiere. Io infatti ho voluto, per il mio primo anno, tenere sia il team di lavoro sia il comitato che aveva costruito l’edizione 2019 e anche l’edizione 2020 che non si è mai tenuta in presenza, per cui ho voluto imparare prima di fare cambiamenti e migliorie. Per fare un’analogia, diciamo che volevo provare la macchina in autostrada prima di, eventualmente, cambiare il paraurti, lo specchietto o le ruote. Adesso che ho imparato, sicuramente ci saranno cambiamenti anche dal punto di vista del layout e di alcune strategie nella prossima edizione, ma saranno frutto di un’attenta analisi di cosa ha funzionato e di cosa non ha funzionato nel 2021. Quello che ho appreso dal mio predecessore e che lui stesso ha appreso da Vincenzo De Bellis è il puntare sulla qualità: questo era il nostro obiettivo primario. Il motivo per cui abbiamo voluto meno gallerie rispetto al 2019 era proprio perché volevamo mantenere le stesse gallerie del passato e non aggiungerne troppe di nuove (le new entry si contavano sulle dita della mano). Questo perché era ovvio che non avremmo potuto fare una fiera da 170 o più gallerie anche quest’anno, per cui abbiamo cercato di allargare la maglia della qualità, cosa che cercheremo di fare anche in questi sei mesi che ci dividono dalla prossima edizione. E cercheremo poi di riportare soprattutto le gallerie straniere, che quest’anno per ovvi motivi avevano più difficoltà a partecipare, ma speriamo che il prossimo anno tornino da noi.
Seppure MiArt si sia tenuta in presenza, Lei ha scelto di mantenere anche una forma digitale, residuo della scorsa edizione interamente online a causa della pandemia. Perché questa scelta e quali vantaggi ha la forma digitale?
Perché è inevitabile. È ovvio che andremo verso un avvicinamento all’esperienza e alla sfera digitale, però se c’è qualcosa che ci ha insegnato questo primo anno e mezzo di pandemia è proprio che oggi come oggi questi due mondi non sono equiparabili. Quando ho iniziato questa edizione ho chiamato tutte le gallerie, ho fatto più di 200 telefonate in due mesi, a tutti ho chiesto quale fosse il loro principale obiettivo, e le gallerie hanno detto di voler tornare a fare una fiera fisica, e non volevano che venisse loro proposta solo una fiera digitale. Per cui ho ascoltato loro e ho cercato di costruire un progetto fisico ma che non dimenticasse il digitale, perché quello che abbiamo imparato è che non è sufficiente, ma non è sufficiente l’offerta digitale oggi perché bisogna lavorarci ancora, bisogna testarla, bisogna implementarla, bisogna verificarla, bisogna farla crescere, e per farla crescere ovviamente è buona cosa portarsela dietro, quindi affiancarla all’edizione fisica. In più, la fiera digitale ha anche l’ovvio vantaggio che per tutto il pubblico che non è potuto venire a MiArt, per esempio per le restrizioni dei viaggi (ad esempio i collezionisti del Sudafrica e del Sudamerica, due aree su cui abbiamo investito in passato perché lì ci sono buoni collezionisti), è un’opportunità per vedere la fiera: non potevano venire a Milano però siamo riusciti a raggiungerli in qualche modo. Quindi, un duplice fine: quello di far crescere la piattaforma, testarla ancora di più e migliorarla, e quello di aumentare la l’outreach della fiera stessa.
Che tipo di pubblico ha frequentato questa cosa edizione di miart?
È stato un pubblico sicuramente più attento che in passato, nel senso che quella percentuale in meno di pubblico era composta principalmente da un pubblico di curiosi. A noi interessano comunque i curiosi, mi piace che venga anche un pubblico generalista e non solo i collezionisti, ma sicuramente la pandemia ha fatto un po’ più di selezione, per cui chi è venuto a MiArt è venuto perché aveva veramente voglia di venire. Quindi c’erano tanti collezionisti (tutti i principali collezionisti italiani e qualche collezionista europeo, mentre sono mancati i collezionisti da oltreoceano per ovvi motivi), ma c’erano anche tanti addetti ai lavori: ho visto tanti direttori di musei, tanti curatori, e tutti mi hanno detto che questa è stata un’edizione in cui era facile parlare, perché è stata un’edizione con meno pubblico, con meno ressa, con più possibilità di vedere le cose, con più opportunità per parlarsi con maggior tranquillità. In sostanza è stato un pubblico di collezionisti, di addetti ai lavori e di curiosi della domenica, che per noi sono comunque interessanti, almeno lo sono per me perché se riesco ad appassionare qualcuno all’arte penso di aver fatto bene il mio lavoro.
C’è stato però chi ha lamentato la concomitanza con Art Basel che si è tenuta appena una settimana dopo MiArt: questa circostanza potrebbe aver tolto pubblico a MiArt. Per esempio alcuni, sia in fiera che dopo, hanno fatto notare la scarsa presenza di direttori dei musei. Quanto ha pesato questa situazione?
Io sono il primo che si lamenta, perché noi ci siamo mossi molto prima di Basilea: noi abbiamo annunciato le date a dicembre, Basilea a febbraio. Per cui anche io mi sarei evitato molto volentieri la concomitanza. Dal punto di vista delle difficoltà, le principali per me sono state nei confronti delle gallerie che si trovavano un po’ nell’incubo logistico di dover fare due fiere in quattro giorni. Sono contento che tante gallerie, soprattutto quelle italiane, abbiano deciso di tirarsi su le maniche, fare un extrasforzo, e fare entrambe le fiere. Penso a Kaufmann, Raffaella Cortese, Lia Rumma e altri. Altre invece, specialmente quelle internazionali, le abbiamo perse soprattutto per questo motivo, perché non avendo base in Italia era più difficile venire da noi, allestire e poi correre a Basilea. Dal punto di vista del pubblico in parte ne abbiamo anche beneficiato: ci sono stati diversi collezionisti che sono venuti da noi il weekend per poi farsi quattro ore di treno o di macchina per arrivare a Basilea subito dopo, in una sorta di cont inuità tra le due fiere. Dal punto di vista dei direttori dei musei, io in realtà ne ho visti tanti a MiArt e ne ho visti pochi a Basilea (lunedì ero a Basilea per vedere come funzionasse quella fiera), e ho trovato, con le dovute proporzioni, la stessa situazione di MiArt: meno pubblico, e più europeo che da oltreoceano. Però curiosamente ho notato che c’erano meno direttori di musei e meno curatori rispetto a MiArt, forse perché Basilea è spalmata su una settimana intera, per cui non è che dovessero essere per forza tutti lì in quel momento. Io, a MiArt, almeno quelli italiani li ho visti tutti, mentre per quelli internazionali occorre anche dire che non c’è solo la concomitanza di Basilea, ma questo è oggettivamente il settembre più ingolfato di sempre della storia degli appuntamenti d’arte, ed è molto complicato. Però speriamo tutti sia stata un’eccezione nella storia e che si possa tornare il più velocemente possibile a una normalità anche di calendario proprio per evitare queste situazioni.
Attraverso i progetti editoriali di MiArt e attraverso il titolo stesso dell’edizione 2021, ha scelto di rivolgere una particolare attenzione alla parola poetica con versi, citazioni, poesie. Perché questa scelta?
Perché il nostro primo obiettivo era quello di ricostruire un dialogo con le gallerie, con i collezionisti, con tutti gli stakeholder della fiera. Ovviamente siamo partiti dalla cosa più banale e basilare, e cioè le parole. Dovevamo trovare delle nuove parole, un nuovo linguaggio per parlare coi nostri stakeholder. Mi sono lasciato affascinare dalla suggestione che la poesia sia, fortunatamente, un linguaggio universale, che tocca le corde di tutti, anche se viene spesso ritenuto criptico, aulico. Io ho fiducia nelle capacità della poesia di stabilire un dialogo, per cui siamo partiti da lì, dal voler costruire una fiducia attraverso le parole e nella parola poetica in particolare, e questo ci ha accompagnato e ha scandito un po’ tutti i nostri momenti. Questo anche perché ho avuto il conforto di vedere che ogni volta che io parlavo di poesia, lanciavo dei versi o tiravo fuori citazioni, dall’altra parte (che fossero collezionisti, galleristi, direttori di musei, istituzioni, la stessa città di Milano) rispondevano entusiasticamente: la poesia è stata la scintilla che poi ha fatto costruire una serie di dialoghi e continui scambi, come in una partita di ping pong poetico tra noi e tutti gli stakeholder che abbiamo intorno alla fiera.
Un’ultima domanda per concludere: come vede oggi il panorama dell’arte all’uscita della pandemia?
È una domanda molto ampia: c’è da dire intanto che veniamo da un anno e mezzo terribile. È stata molto dura soprattutto perché la pandemia ha interrotto l’ordine delle cose e ha creato tanta incertezza, tanta impossibilità di programmare, ha creato proprio una frattura assieme a un effetto domino, perché per esempio interrompere la programmazione di un museo vuol dire magari procrastinare o cancellare la produzione dell’artista, che non ha più la consulenza del museo e che quindi si decide di rivolgersi per un supporto alla galleria, ma anche la galleria ha vissuto tempi difficili, e così via. Ovviamente i problemi erano macro, e il micro del mondo dell’arte è passato un po’ in secondo piano dunque ci troviamo adesso a dover riemergere un po’ delle rovine di quest’anno e mezzo: quello che mi conforta è che vedo grande energia, e la scena che ho visto a MiArt è molto incoraggiante per me, perché ho proprio visto di nuovo la gente tornare a calcare i corridoi di una fiera per incontrarsi, per parlare, per progettare con uno spirito che fino anche a solo sei mesi fa era difficile da trovare perché c’era ancora molta arrendevolezza. Adesso vedo da tante situazioni (la nostra fiera, i vari musei che hanno aperto, eventi come quello di Procida, tante piccole manifestazioni) che è possibile immaginare di nuovo un futuro, e io penso che da questo possiamo solo migliorare, capitalizzare e costruire qualcosa di nuovo sulle rovine di questo ultimo anno e mezzo.
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.