Luigi Abete: “non bisogna avere paura delle imprese private nella cultura”


Rispetto dei contratti nazionali del lavoro, stop alle gare al massimo ribasso, estensione dell’Art Bonus. Intervista a Luigi Abete, presidente Associazione Imprese Culturali e Creative (AICC).

Beni culturali gestiti da enti pubblici, privati che gestiscono beni culturali di proprietà pubblica: la dicotomia tra pubblico e privato nella gestione dei beni culturali in Italia ha fatto sorgere un dibattito annoso in cui spesso prevalgono posizioni ideologiche. Qual è la situazione attuale? Quali sono gli impedimenti che ostacolano lo sviluppo del settore dei beni culturali in relazione alla dicotomia pubblico-privato? Perché spesso il privato è visto con diffidenza? Quali sarebbero in realtà i modelli di gestione virtuosi per tutti? Di tutto questo abbiamo parlato in questa intervista con Luigi Abete, Presidente dell’Associazione Imprese Culturali e Creative (AICC) e Presidente e ad di Civita Cultura Holding.

Luigi Abete
Luigi Abete

FG. Il dibattito s’è spesso concentrato su due punti. Partiamo dal punto di vista di coloro che auspicano ruolo più esteso del pubblico a scapito del privato: in questo caso si sottolinea che gli interessi dei privati spesso sono diversi rispetto a quelli pubblici, e questo potrebbe avere un impatto negativo sull’offerta culturale. Qual è la Sua posizione nei confronti di questa visione?

LA. Chi si pone la domanda in questa logica, se la pone in una logica errata: il privato e il pubblico hanno lo stesso interesse, che è quello di gestire al meglio la tutela e la valorizzazione dei beni culturali. Cambiano solo le metodologie: il pubblico utilizza una struttura fissa, il privato utilizza il mercato, quindi ha maggiore flessibilità, normalmente maggiore dinamicità, e dall’utilizzo di questi fattori variabili trae un margine che si chiama profitto. Il fine però non è diverso, è lo stesso: valorizzare, garantendo la tutela, il bene pubblico oggetto del progetto. Qual è l’impatto sull’offerta culturale? È ovvio che se io utilizzassi, come alcuni pensano, soltanto la strumentazione pubblica, si ridurrebbe il numero di obiettivi raggiungibili, dato che le risorse pubbliche sono limitate, e anzi sono normalmente decrescenti (e sono state decrescenti negli anni: non ci facciamo distrarre dal momento pandemico, che è stato un’eccezione che ha consentito di destinare risorse pubbliche aggiuntive a determinati obiettivi). Le risorse pubbliche, quelle che vengono dalle nostre tasche (perché vengono dalle tasse dei cittadini), sono definite, ed essendo definite e limitate, e poiché i bisogni dei beni pubblici aumentano (la sanità, la valorizzazione della cultura, la difesa, l’integrazione dei flussi migratori), è chiaro che il numero di operazioni che si possono fare con la strumentazione pubblica si riduce. Se uno vuol mantenere elevato e crescente il numero di utenti non può che usare, accanto al pubblico, il mercato, e quindi il mercato non è alternativo al pubblico, né il pubblico è alternativo al mercato: il mercato consente di raggiungere un numero di obiettivi maggiori, anche se non sempre con una efficienza maggiore e quindi con un costo minore, anche per la collettività. Questa è l’impostazione: qui non si tratta di fare il tifo per un’impostazione rispetto all’altra, perché chi si mette nella logica di fare il tifo, si mette nella logica di essere di parte. In Italia abbiamo un patrimonio culturale enorme (siti archeologici, opere d’arte, borghi, beni ecclesiastici), gran parte del quale ancora oggi è abbandonato, ed è evidente che è interesse di tutti utilizzare il più possibile il mercato per valorizzare il più possibile di questi beni. Valorizzare significa farli usufruire dai cittadini in termini di visita, nonché farli vivere con un’economia locale che sviluppi anche il territorio, oltre che tenerli aperti, e tenerli in uno stato dignitoso in termini di servizi, di pulizia, di comunicazione, con tutto quello che questo comporta. Questo è il tema. Qui nessuno vuole togliere il mestiere a nessun altro: l’importante è capire quali sono gli obiettivi che si vuole siano perseguiti dal pubblico e quali sono gli obiettivi che siano meglio perseguibili dal privato. E questo lo decide la politica. Non so quante volte ho detto al ministro precedente di decidere chiaramente quali musei gestire direttamente: noi abbiamo 44 musei e parchi archeologici autonomi, se ne scelgano alcuni che il Ministero vuole gestire come pubblico e si mettano a gara gli altri, ma quando si mettono a gara gli altri occorre fare in modo che chi va a gestirlo rischi, cioè ci metta dei soldi, faccia un investimento, utilizzi quei soldi, per esempio, per fare un restauro, una campagna di comunicazione, auspicando che in seguito in quel sito ci vadano centomila visitatori in più anziché centomila visitatori in meno. Ma se si fanno le gare in modo tale che non si può prevedere di fare investimenti, quindi se si vogliono investire dei soldi non lo si può fare né si può prevedere di avere più visitatori perché se lo si prevede questo va contro la regola della gara, allora è evidente che la gara non funziona.

Quindi lo Stato farebbe fatica senza il contributo dei privati nella gestione del patrimonio pubblico?

Il tema di fondo è questo: oggi il patrimonio pubblico è gestito? In gran parte no! Quanti sono i siti abbandonati? Ci sono centinaia di siti, tra chiese, conventi, carceri storiche, che sono abbandonati, in posti bellissimi, perché nessuno ha le risorse non per andarci a fare non le manutenzioni straordinarie o le ristrutturazioni, ma semplicemente per andarle ad aprire o a pulire. Su questo occorrerebbe concentrarsi.

È chiaro. Nell’ambito della gestione del patrimonio pubblico da parte dei privati troviamo comunque diversi soggetti che operano nel settore. Società di capitali, cooperative, fondazioni senza scopo di lucro. Quali sono le differenze principali, quali i modelli di gestione migliori?

Il privato è fatto di vari soggetti: società, cooperative, organizzazioni senza scopo di lucro, tutte possono operare. Non c’è una priorità. Basta che rispettino le regole, e faccio un esempio: se sono una cooperativa, se sono una società di capitali, se sono una fondazione, e se il contratto di lavoro dice che il lavoratore deve prendere 9 euro all’ora, io gli devo dare 9 euro all’ora, sia che sono entrato come società capitali, sia che sono una cooperativa, sia che sono una fondazione. Gli posso dare qualcosa di più, ma non gli posso dare qualcosa di meno. Invece spesso oggi succede che la diversa natura dei soggetti faccia delle politiche di costo del personale non in termini di premialità ma in termini di riduzione. E questo non è un tema solo del settore, è un tema civile.

Secondo Lei su quali cardini dovrebbe essere fondato un rapporto pubblico-privato che sia vantaggioso per tutti e che garantisca un riconoscimento reciproco del ruolo di ciascun lato?

Partiamo dalla legge Ronchey, che è stata varata nel 1993, quasi trent’anni fa, secondo la quale a fronte della concessione al privato di certi servizi, il privato mette del capitale per ristrutturare un bene, per promuoverlo e così via, e si prende l’eventuale maggior vantaggio dall’incremento dei visitatori o dall’incremento del prezzo del biglietto. Se la gara impedisce di fare l’investimento e impedisce quindi di fare il margine, è evidente che quando c’è la gara l’unico modo per vincere la gara è ridurre il costo del personale. Ovvero, la gara si fa, di fatto, a spese dei lavoratori. E la legge Ronchey non viene applicata perché partiva dal presupposto che si investiva nel museo, e chi investiva, se aveva fatto bene l’investimento, la promozione, la gestione, allora recuperava un margine, ma nel momento in cui si impedisce di fare l’investimento, e quindi si impedisce di recuperare il margine come dicevo, diventa un appalto, e se diventa un appalto, lo diventa sul costo del personale. Quindi succede che invece di essere progetti al miglioramento sono progetti alla riduzione del costo del personale. Poi che vinca il terzo settore, che vinca la cooperativa, che vinca l’impresa di capitali che non rispetta le regole, non fa differenza, perché certamente non vincono quelli che rispettano le regole, dal momento che se il prezzo o il costo è inferiore a quello che dice la regola è evidente che la regola non viene rispettata. Perché oggi c’è questa idiosincrasia nei confronti della legge Ronchey? Perché la legge Ronchey ha consentito in vent’anni di modernizzare i musei. I musei oggi sono diversi dai musei di trent’anni fa. Ma questo non è accaduto per caso, questo è accaduto perché anno dopo anno gli investimenti e le gestioni hanno migliorato il rendimento del museo e si è creato un rapporto sinallagmatico: migliora l’offerta, migliora il numero di visitatori. Io capisco pure che lo Stato possa prevedere che un dato museo sia particolarmente significativo, e quindi possa pensare di gestirlo direttamente, ma allora non c’è bisogno né della società di capitali né delle cooperative, né delle fondazioni, né di Ales: c’è bisogno di far funzionare la macchina pubblica. Però quando poi il lunedì bisogna convincere i lavoratori a spostare il giorno di ferie o i permessi, la macchina pubblica deve avere il potere di farlo, perché se non ha il potere di farlo poi non ci possiamo rammaricare del fatto che un museo rimanga chiuso. E dacché mondo è mondo, purtroppo il dipendente pubblico è meno flessibile, ma è meno flessibile perché, anche se lui volesse essere più flessibile, le regole gli impediscono di esserlo: non è una cattiva volontà delle persone, è il sistema organizzativo che è diverso. La burocrazia pubblica, per definizione, è ripetitiva, è bloccata, perché altrimenti non funziona. E il mercato per definizione è flessibile, altrimenti non esiste. In realtà non c’è niente di nuovo: tutto questo dibattito sarebbe verosimile se noi oggi gestissimo tutti i siti disponibili, ma noi non li gestiamo! Quanti luoghi d’arte diffusi sul territorio delle regioni italiane sono abbandonati, nessuno sa neanche che esistono! Quanti castelli, quanti monasteri, quante carceri antiche sono chiusi senza che nessuno riesca a fare niente! E noi che abbiamo il problema di dover trovare le risorse per gestire i beni pubblici primari e non riusciamo a trovare i soldi, non utilizziamo i privati per gestire i beni culturali? Mi sembra una contraddizione in termini! Qui bisogna superare la logica delle antinomie: non stiamo facendo una gara a chi è più bravo, stiamo concorrendo a risolvere un problema enorme e a farlo diventare un’opportunità per tutti, utilizzando strumenti diversi.

Tra le priorità recentemente indicate dall’Associazione Imprese Culturali e Creative per l’avvio della XIX Legislatura figura la riforma sull’ordine di priorità di gestione, e qui l’AICC fa esplicito riferimento alle realtà che si avvalgono delle forme surretizie di volontariato che altro non sono se non rapporti di lavoro precari, che alterano il mercato del lavoro e dequalificano le competenze.

Spero che il ministro Sangiuliano e la nuova amministrazione valorizzino la compresenza del pubblico e del privato dentro l’obiettivo di valorizzare il settore dei beni culturali, garantendo la qualità del lavoro e dei lavoratori. Io apprezzo molto quelli che fanno il volontariato, ma il volontariato ha un senso e ha un valore se le attività per le quali viene prestata l’attività di volontariato poi si trasferiscono al mercato in termini gratuiti, ma se io in un museo o in una mostra faccio pagare il biglietto, quelli che lavorano devono essere pagati secondo i contratti collettivi del lavoro, perché utilizzare il volontariato per sostituire il lavoro legale non è una cosa eticamente corretta, soprattutto perché diventa una forma di sfruttamento dei volontari. Ma sa quante persone a cui io voglio bene fanno volontariato nelle carceri o per i migranti? Ma quello è volontariato! Il volontario al limite prende un rimborso, ma dedica il suo tempo a fare un’opera di bene, non per sostituire un altro a cui toglie uno stipendio perché verrebbe pagato il doppio o il triplo dell’assegno di volontariato che dànno al volontario! E poi facciamo i servizi alla televisione sul caporalato? E questo allora come lo chiamiamo? Io non penso ci sia nessuna primogenitura dell’impresa rispetto al pubblico nel fare le azioni, né dell’impresa di capitali rispetto all’impresa cooperativa o ad altre attività di impresa. Le regole però fondamentali sono due: la prima è che tutti rispettino le stesse regole, quindi i contratti di lavoro, e la seconda è che sia chiaro quali sono le attività gestite in un modo e quelle gestite in un altro.

Parliamo invece della misura dell’Art Bonus, che ha cercato di mettere in contatto il pubblico con il privato e sembra aver dato anche buoni risultati. A Suo avviso può ottenere di più dalle imprese? E se sì, in che modo possono essere maggiormente stimolate e coinvolte?

L’Art Bonus è stato un’ottima invenzione, ma perché l’Art Bonus deve andare solo alla ristrutturazione di un bene pubblico? Perché l’Art Bonus deve limitarsi soltanto a quei beni che sono di proprietà dello Stato e non può andare in modi diversi, e con tutte le garanzie, anche a quei beni privati che vengono messi a disposizione del pubblico? Certo, se io restauro un bene e lo metto a casa mia non devo beneficiare dell’Art Bonus, ma se io lo restauro e lo metto dentro a un luogo pubblico per farlo visitare, per farlo apprezzare e valorizzare, oppure faccio degli eventi internazionali in cui mostro la cultura italiana, o come si è espressa un secolo fa o dieci secoli or sono, e quindi valorizzo il Made in Italy non solo nella logica della moda o nella logica del food, ma anche nella logica della storia che noi abbiamo, questo non è un interesse di tutti? E quindi sotto questo punto di vista io penso che la struttura che si è creata durante le ultime gestioni ministeriali abbia fortemente bloccato tutto questo processo.

Torniamo a un tema che abbiamo toccato prima. Uno dei punti più dibattuti nell’ambito della gestione privata dei beni pubblici è quello delle gare d’appalto: in particolare si parla delle limitazioni al numero massimo di visitatori ma soprattutto si parla della regola del massimo ribasso, considerata nociva. Questo vale per la cultura come per altri settori. Qual è l’impatto che questa regola ha sulla gestione della cultura da parte dei privati?

Se si fanno gare al massimo ribasso, per definizione la gara al massimo ribasso danneggia l’anello più debole della catena. E qual è l’anello più debole della catena? Il lavoratore! Le gare al ribasso le hanno tolte anche dell’edilizia. Io capisco un posto che ha limiti di spazio, di tempo o di struttura e quindi avendo questi limiti non può avere più visitatori, ma quando si va in un posto che è una prateria e quindi non c’è il vincolo spaziale, per quale motivo non si possono avere cinquantamila visitatori in più se si riescono ad attirare con dei nuovi restauri, con delle nuove politiche di comunicazione, con degli eventi che possono attrarre e far vivere i luoghi? Perché? Non si capisce. È ovvio che se io ho nuovi ricavi posso pagare il costo del lavoro anche più di quello che pagavo prima, ma se mi viene tolta la possibilità di avere nuovi ricavi è evidente che le gare avvengono al massimo ribasso, e quindi chi vince la gara è chi paga di meno i lavoratori, che non è una bella soddisfazione.

Quindi la prima cosa che verrà chiesta al ministro Sangiuliano sarà rivedere anche un poco le regole?

Questo è poco ma sicuro. Il problema è, intanto, che le regole attuali impediscono di prevedere nuovi ricavi e impediscono di fare nuovi investimenti a carico del concessionario e di conseguenza le gare si vincono riducendo il costo del lavoro, perché se io non posso aumentare il numero dei visitatori e non posso aumentare il prezzo del biglietto (entrambi vengono decisi dal ministero) è evidente che le entrate rimangono le stesse, quindi l’unico modo che ho per essere più competitivo di Lei è che se Lei paga 9, io devo pagare 8, dopodiché magari arriva un altro e paga 7 e sarà ancora più competitivo. Tuttavia, poiché il contratto non prevede che il lavoratore venga pagato 7, chi vuole essere competitivo che cosa fa? Prende alcuni lavoratori a 9, e ne prende altri direttamente a 4 con delle forme ibride che sono irregolari, e questa peraltro è la prima cosa che l’impresa privata combatte. L’impresa privata non ha interesse a svilupparsi a scapito del lavoratore, soprattutto in un mestiere come quello dei servizi culturali, dove le persone vogliono essere valorizzate. Se chi sta dentro al museo ti accoglie col sorriso o ti accoglie con la faccia di uno che sta passando un guaio la qualità della visita e dell’apprendimento ne risente. La qualità dell’offerta è un elemento fondamentale per la soddisfazione del cliente, dell’utente, del cittadino. E quindi logica vorrebbe che chi fa quel lavoro avesse una premialità, non una punizione, ma per dargli la premialità ci vuole qualcheduno che investa su nuove infrastrutture, su nuovi restauri, su nuove promozioni in modo da attrarre un maggior numero di visitatori, visto che non determina lui il prezzo.

Secondo Lei pertanto il tema su cui occorrerebbe discutere non è se è meglio il pubblico o il privato, ma come viene gestito il bene.

L’unico vero tema di fondo è capire quali sono gli obiettivi. Se l’obiettivo è valorizzare gli asset storico-culturali che il paese ha oppure no, se vogliamo valorizzare i nostri beni, c’è un unico modo: facciamo il più possibile, e questo vale sia il pubblico che per il privato. E c’è spazio per tutti! Noi abbiamo un’offerta infrastrutturale storica unica, abbiamo un mondo di persone che vogliono vivere quell’offerta culturale enorme: dobbiamo solo utilizzare il rapporto tra l’offerta e la domanda sulla qualità della formazione, sulla qualità del servizio, sulla comunicazione, sulla implementazione ogni anno di un nuovo restauro, di un nuovo momento di attrazione che ti faccia ritornare a visitare quel sito perché hai una cosa in più, una cosa nuova. E tutto questo lo possiamo fare valorizzando al massimo tutte le strutture pubbliche che ci sono e anche quelle che non ci sono! Vogliamo altre persone? Assumiamole! Ma comunque non bastano se c’è una sproporzione tra la dimensione della domanda e quella dell’offerta, perché per quanto si possa allargare l’offerta pubblica, questa sarà comunque insufficiente per rispondere alla domanda, e quindi se si vuole che la domanda venga esaudita, e se si vuole che il paese ne goda in tutti i suoi angoli, occorre utilizzare sempre più anche il mercato delle imprese private. Punto. Il resto è tutto conseguente, è tutto logico.

Perché allora secondo Lei da parte di molti nel settore esiste una forte diffidenza nei confronti degli operatori privati?

Perché c’è una cultura (purtroppo molto diffusa, ma grazie al cielo non penso sia dominante) che pensa che laddove c’è l’interesse privato, allora non ci sia il bene pubblico collettivo. E questo invece non è vero: il bene pubblico collettivo viene percepito dal cittadino nei termini in cui esiste: se tu glielo glielo togli, lui non è in grado di apprezzarlo. Quindi succede che chi ha una visione ideologica del problema non accetta il principio di vedere se il bene pubblico collettivo realizzato tramite una struttura pubblica o una struttura privata viene apprezzato comunque o più o meno bene, ma evita che venga prodotto perché capisce che se venisse prodotto il cittadino lo apprezzerebbe: di conseguenza la critica non viene portata sulla qualità del servizio, ma sulla natura del processo organizzativo perché quello è ideologicamente più semplice da vendere. Il bene pubblico collettivo non è solo quello diretto, ma è anche quello indiretto: la qualità della vita dei cittadini non è data solo dal momento in cui loro godono del bene, ma è data dal fatto che l’economia ne beneficia. Poi è vero che ci sono casi in cui il privato ha fatto peggio del pubblico, perché non è detto che il privato sia sempre migliore, ma la vera differenza è che se nel privato uno non va bene, allora chiude e ne arriva un altro, mentre invece nel pubblico rimane sempre quello. Quindi se non funziona il privato, il privato per definizione viene dal mercato sostituito con un altro privato, se invece non funziona il pubblico, purtroppo rimane quel “non funzionamento”. Ma nel caso di specie non è neanche questo il problema! Sarebbe un problema se la quantità dei beni pubblici gestiti fosse definita ma qui è indefinita, perché da una parte non c’è limite all’offerta (abbiamo in Italia dovunque pezzi di storia di archeologia, percorsi culturali da costruire, beni ambientali), e dall’altra c’è un mondo che ha cominciato a muoversi.

Quindi in sostanza Lei ci sta dicendo che, al di là delle imprese già operative sul mercato, esiste un mondo, che magari non emerge o fa fatica a emergere, di imprese potenziali che vorrebbero operare nel settore della cultura ma che al momento non può farlo.

Io posso dire che come presidente AICC non rappresento che una piccola parte di questo mondo. Ma c’è un mondo di offerta potenziale, di startup (perché la startup non è bella solo se opera nel settore della tecnologia, si può fare una startup anche organizzando l’apertura di un luogo abbandonato: la startup si può aprire anche in settori tradizionalissimi) che rimane inesplorato. Noi abbiamo una grande potenzialità di nuove imprese nel settore creativo o dei beni culturali. Quando facevo il presidente di Confindustria nel 1993, dicevo che bisognava fare la lotta alle rendite, ma la lotta alle rendite non è solo quella finanziaria, perché esistono diversi tipi di rendita. Esiste la rendita finanziaria, ma esistono anche la rendita oligopolistica (quando pochi controllano il mercato), esiste la rendita burocratica (quando un uomo che ha il potere dello Stato decide che si fa come pare a lui), esiste la rendita assistenziale (quando uno viene pagato e non lavora e quindi toglie il lavoro a quelli che vorrebbero lavorare e non possono lavorare), esiste la rendita ontologica (ovvero la rendita di quelli che esistono rispetto a quelli che non esistono). Il punto è questo: quelli che non esistono non hanno mai rappresentanza, siano essi quelli che devono ancora nascere, quelli che devono ancora cominciare un’impresa, quelli che devono ancora cominciare a studiare. E per gli altri che hanno una rappresentanza è molto più semplice allargarsi. Viviamo in un paese con un numero di imprese culturali talmente grande che possiamo anche convivere con l’attuale situazione di “stand-by”, dove ognuno ha il suo lavoro, lo fa, vince una gara, ne perde tre, ma comunque riesce a campare: il problema dunque non è tanto per le imprese che esistono, ma per quelle che non esistono ancora e ci potrebbero essere. E questo in un settore dove si ha una domanda che è potenzialmente di miliardi di persone. Le imprese attive in altri settori hanno un problema: quello di fabbricare un prodotto e trovare chi lo compra. Ma qui non devono né costruire il prodotto, né trovare chi lo compra, perché hanno tanti asset del passato, che sono infiniti e che sono tuttora moderni (anzi sono ancora più moderni) e hanno miliardi di persone che vogliono venire a conoscere questi asset. Quindi occorre solo organizzare il rapporto tra l’offerta è la domanda, una cosa apparentemente semplicissima, in un paese dove c’è spazio per tutti! Lo Stato vuole gestirne direttamente alcuni? Lo faccia! Ma lo faccia fare anche agli altri per gli altri. E si organizzi in modo tale che chi lo fa rispetti le regole, perché se poi non si rispettano le regole allora quello non è più lavoro, diventa sfruttamento.

A questo punto però, per concludere la nostra intervista, il lettore potrebbe giustamente riflettere sul fatto che, non essendo nuovo questo dibattito, evidentemente esistono dei limiti che ostacolano il processo che ci sta descrivendo: quali sono e di che tipo sono secondo Lei questi limiti? Sono strutturali, sono ideologici, sono di altra natura... ?

In alcuni casi sono ideologici ma sono perlopiù culturali. Il ministro precedente, Dario Franceschini, aveva capito che il settore ha un valore economico, e se un settore ha un valore economico, per definizione chi lo sviluppa non possono che essere le imprese. Lui pensava che fosse possibile svilupparlo col pubblico, ed è stato il primo a capire il valore economico del settore, ma non è stato in grado di svilupparlo usando le regole del mercato. Non si tratta dunque di limiti ideologici, perché non possiamo dire che l’ambiente è contro il privato in termini generali: è semmai culturalmente abituato a un approccio per cui il bene pubblico collettivo lo fa lo Stato, e il bene o servizio individuale lo fa il privato. Tuttavia, logica vuole che ci sia una presenza importante del privato perché lo Stato ha un limite (di capitale investito, di forza organizzativa, di aumento delle esigenze). I beni pubblici collettivi aumentano di valore perché prima la competizione era a un livello basso, dovevi dare il minimo, oggi invece devi dare di più, e se tu non utilizzi il mercato per i beni pubblici collettivi tu obblighi il tuo paese ad avere una qualità della vita più basso. Altrimenti è come quando si dice che l’operazione è riuscita ma il malato è morto, ma al malato non interessa questa dichiarazione: al malato interessa campare! E qui è esattamente lo stesso. Noi siamo di fronte a una società in cui i beni pubblici collettivi acquistano un maggior valore: noi tutti vogliamo un ambiente pulito, vogliamo pulizia nelle strade, vogliamo che ci sia un livello di formazione adeguato, che ci sia un livello di servizio pubblico sanitario adeguato e quindi utilizziamo come driver di indirizzo il pubblico, e come driver di complemento il privato. E infatti il nostro sistema sanitario funziona perché abbiamo un buon servizio pubblico e un buon servizio privato. Questo è un caso classico: nonostante quello che si può dire, la sanità comunque mediamente funziona, e mediamente funziona perché se uno va in un ospedale pubblico in Italia sa che ha dei medici qualificati, ma sa anche che se va in un ospedale privato ha comunque un servizio paragonabile a quello pubblico. Anche nella formazione c’è una compresenza fruttuosa del pubblico e del privato, con una forte presenza del pubblico. Io stesso faccio il presidente della LUISS Business School ma ho fatto l’università alla Sapienza, è logico che sia così e va bene. E quando invece parliamo di beni culturali non dobbiamo applicare lo stesso principio? E perché? Perché si pensa che il bene culturale debba essere gestito solo da chi ha la funzione pubblica, mentre si pensa che se lo gestisce un privato è probabile che il privato lo rovini. È quindi un problema culturale. Ha poi delle punte ideologiche, ma non è il vincolo ideologico che impedisce al mercato di fiorire. La differenza tra un manager pubblico e un manager privato sta nel fatto che se il primo non produce risultati non c’è nessuno che lo manda via, mentre il manager privato lo manda via l’azionista. Non è che il manager privato sia per definizione migliore di quello pubblico, però ha un problema, cioè che ha uno dietro che gli dà una spinta o una carezza, e quindi deve stare accorto.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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