Luca Pancrazzi: “La pittura? È una finestra. Ed è il ring principale dell'arte”


Conversazione con Luca Pancrazzi, uno dei maggiori artisti italiani contemporanei, che racconta la sua carriera e la sua idea di arte, specialmente di pittura.

Una conversazione per conoscere più da vicino l’arte di Luca Pancrazzi (Figline Valdarno, 1961). Dopo gli studi accademici a Firenze, Pancrazzi viaggia negli Stati Uniti dove incontra Jo Watanabe e lavora nel suo studio alla realizzazione di grafiche e wall-drawing per Sol Lewitt. Fino al 1992 lavora a Roma per Alighiero Boetti. Dagli anni Ottanta è autore di una ricerca basata sull’analisi del medium artistico, sulle sue ramificazioni, sulle possibilità creative dell’errore e dell’uso composito di tecniche e materiali. Lo spazio metropolitano e il paesaggio, nella loro continuità con lo sguardo antropico che li definisce, sono i temi trattati con più assidua continuità. Si esprime attraverso la pittura, il disegno, la fotografia, il video, l’installazione ambientale, la scultura, azioni in condivisione con altri artisti e progetti editoriali. Inizia a esporre dalla metà degli anni Ottanta e dal 1996 viene invitato a partecipare ad una serie di esposizioni internazionali tra cui la Biennale di Venezia (1997), la Triennale di Vilnius (2000), Whitney Museum of American Art at Champion (1998), la Biennale di Valencia (2001), la Biennale di Mosca (2007), la Quadriennale di Roma (2008). Alcune tra i numerosi spazi pubblici che hanno presentato il suo lavoro: P.S.1 Contemporary Art Center (1999), Galleria Civica di Modena (1999), Museo Marino Marini (2000), Palazzo delle Papesse (2001), Museo Revoltella (2001), Galerie Lenbachhaus und Kunstbau (2001), GAMEC (2001), Museo Cantonale d’Arte di Lugano (2002), Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci (2002), Zentrum Fur Kunst und Medientechnologie (2003), PAC (2004), MAN (2004), MART Trento e Rovereto (2005), MAMbo (2006), Macro (2007), Vietnam National Museum of Fine Arts (2007), Fondazione Pomodoro (2010), Museo per Bambini di Siena (2010), Palazzo Te (2016), Santa Maria della Scala (2023), Gallerie degli Uffizi (2024). Vive e lavora a Milano.

Luca Pancrazzi. Foto: Renata Fabbri
Luca Pancrazzi

GL. Luca, per molti artisti l’infanzia coincide con il primo manifestarsi dei sintomi di appartenenza al mondo dell’arte, è stato così anche per te?

LP. Tutti gli artisti, e anche i non artisti che conosco e che abbia conosciuto, hanno avuto una infanzia. Approfondendo la loro conoscenza e anche quella di me stesso, ho imparato che ognuno ne ha avuto una, più o meno bella. Tante infanzie creative, artistiche, come dovrebbero essere le infanzie, libere da schemi che riempiranno le loro menti successivamente. La condizione dell’artista è quella della consapevolezza e determinazione ad esserlo, l’infanzia invece è la condizione di libertà per eccellenza, senza coscienza e consapevolezza. Questa consapevolezza non può che appartenere ad un periodo successivo, un periodo di apprendimento e formazione dove la costruzione dell’essere umano è in quella fase di messa in critica del mondo e al tempo stesso di innamoramento del mondo. Creare e distruggere fa parte dell’adolescenza ed in questa fase le inquietudini possono trasformarsi in condizioni di consapevolezza e determinazione. La sfera sessuale e come si dice oggi di genere in questo periodo della vita vive una tempesta continua di stimolazioni consce ed inconsce ed in questo movimento fluido, magmatico della coscienza, si formano le strutture dell’essere che poi si verrà a costruire. Ricordo il momento in cui ho abbandonato le mie prime aspirazioni di cineasta documentarista senza mai avere provato ad esserlo. Fotografavo già da piccolo, da prima replicando le pose e le foto che faceva mio padre, poi documentando le gite familiari e poi, dipingendo e disegnando sopra le fotografie che avevo fatto. Ma ancora la coscienza di “appartenere al mondo dell’arte” come tu dici, non poteva essere presente. L’artista nei miei pensieri era una persona solitaria e un cane sciolto che riusciva a protrarre la libertà dell’infanzia nella pubertà e nell’adolescenza e poi speravo nel mondo degli adulti. Se ho mai iniziato ad avere qualche sprazzo di coscienza di appartenenza al mondo dell’arte probabilmente coincide con la fine di tutte queste pure aspirazioni, quindi deve essere stato un periodo di realistica delusione. Questo è avvenuto man mano, non improvvisamente, scontrandomi con la realtà anno dopo anno, sottraendomi all’infanzia e cercando la mia autonomia. Le difficoltà di questa nuova condizione sociale inaugurava la consapevolezza di essere ai margini della società e quindi necessitavo di trovare in questa la forza di poter trovare la consapevolezza di poter essere in grado di proseguire. Ancora oggi mi sento ai margini della società e del sistema dell’arte al tempo stesso, non sono sicuro di essere mai entrato ad appartenere ne all’una né all’altra, nel senso in cui tu lo idealizzi nella domanda che hai fatto.

In questo tragitto che racconti ci sono stati degli incontri importanti dei buoni o dei cattivi maestri?

Appena ho potuto scegliere autonomamente mi sono iscritto al liceo artistico, ero a Firenze ed era la fine degli anni Settanta. In quel liceo ai margini del comune di Firenze ho incontrato degli insegnanti preparati e di un certo spessore. Il mio insegnante di pittura è stato per quegli anni un primo riferimento importante per la pittura, con lui ho imparato a riconoscere l’arte contemporanea ed i luoghi dove era visibile, andavamo a vedere le mostre e ci portava nel suo studio, col senno di poi potrei dire che sia stato un maestro oltre che buon insegnante. Negli anni dell’accademia fiorentina, a parte alcuni insegnanti di rilievo, il corso di pittura è stato funestato da una figura incapace di dare degli insegnamenti e dei riferimenti ai suoi allievi. Per scelta ho interrotto l’accademia mentre fuori, in quegli anni e nei successivi, sino ai primi ani Novanta, per fortuna, ho avuto la possibilità di conoscere e lavorare per due artisti che avrebbero segnato un capitolo nuovo della mia vita. Ho lavorato per loro a New York e a Roma, intrecciando periodi per l’uno o progetti per l’altro, ed ho abbandonato Firenze. Due maestri molto diversi, opposti, talmente diversi che in fondo si incontravano per assomigliarsi.

Come sono avvenuti questi due incontri? Li hai propiziati in qualche modo o, ammesso che esista, tutto è accaduto per caso?

Con le parole di A. & B. potrei risponderti che “le cose nascono dalla necessità e dal caso”.

Tempo fa mi hai raccontato di un altro incontro importante, quello con Maria Luisa Frisa. Quando e come vi siete conosciuti e che importanza ha avuto Maria Luisa nel introdurti nel sistema dell’arte?

Ho incontrato Maria Luisa Frisa nei primi anni Ottanta, a Firenze. In quel decennio Firenze era una città molto attiva e viva, animata da presenze interessanti e gallerie d’arte come non se ne sono mai viste così tante in quella città. La musica, il design, la moda, l’arte e il teatro sperimentale erano protagonisti delle piazze, dei teatri dei centri, delle cantine, delle notti, dei palazzi delle discoteche e dei salotti. Eventi privati, clandestini e istituzionali si mischiavano a feste, rave, concerti, mostre, performance, ricevimenti, presentazioni e Maria Luisa Frisa era al centro di quella vita artistica e culturale, aveva dato vita ad un periodico, e curava progetti e mostre che sono state determinanti per la mia formazione. Ci siamo frequentati molto in quel periodo e oltre, poi ci siamo persi di vista. Nel 1989 avevo lo studio nelle campagne fiorentine, in una antica villa salvata dall’abbandono e dai rovi che l’avevano avvinghiata, abbiamo organizzato una residenza artistica invitando artisti compagni di percorso che provenivano prevalentemente da Milano e da Firenze. È stato per me una forma di prototipo che poi ho continuato a coltivare negli anni con diversi progetti di collaborazione. Castello in Bisticci è stata un’esperienza di condivisione di tempo e di spazio, dove le opere venivano realizzate durante questa prassi partecipativa. La mostra era un evento collaterale, che concludeva la parte conviviale. Stare insieme senza un progetto curatoriale era lo scopo, mettersi in gioco senza protezioni e senza filtri era la pratica. Durante la festa finale ricordo che Maria Luisa Frisa era con noi a condividere questo momento ed è nata insieme la possibilità di documentare quello che era avvenuto attraverso l’occhio di un fotografo che era con noi in quel momento e dalla sua penna che ha lasciato una testimonianza su un improvvisato libretto che è stato in seguito stampato.

Luca Pancrazzi, Collezionare lo spazio (1992; pvc incollato da calco di passaggio pedonale, 150 x 170 x 700 cm). Installazione per la mostra Splendente Castello di Volpaia 1992.
Luca Pancrazzi, Collezionare lo spazio (1992; pvc incollato da calco di passaggio pedonale, 150 x 170 x 700 cm). Installazione per la mostra Splendente, Castello di Volpaia, 1992.
Luca Pancrazzi, Collezionare lo spazio (1992; pvc incollato da calco di passaggio pedonale, 150 x 170 x 700 cm). Fase di realizzazione, per la mostra Splendente Castello di Volpaia 1992.
Luca Pancrazzi, Collezionare lo spazio (1992; pvc incollato da calco di passaggio pedonale, 150 x 170 x 700 cm). Fase di realizzazione, per la mostra Splendente, Castello di Volpaia, 1992.
Luca Pancrazzi, Cambiando (1990; teca da muro con chiave, 35 x 35 cm)
Luca Pancrazzi, Cambiando (1990; teca da muro con chiave, 35 x 35 cm)
Luca Pancrazzi, Già Visto, 11 tele appese sul soffitto insieme ad un telo di cotone marrone. Installazione per la mostra Pancrazzi, Cingolani nella galleria Margiacchi, 1992.
Luca Pancrazzi, Già Visto, 11 tele appese sul soffitto insieme ad un telo di cotone marrone. Installazione per la mostra Pancrazzi, Cingolani nella galleria Margiacchi, 1992.
Luca Pancrazzi, Già visto (autoritratto) (1992; olio su tela, 50 x 50 cm)
Luca Pancrazzi, Già visto (autoritratto) (1992; olio su tela, 50 x 50 cm)
Luca Pancrazzi, Già visto (Pistoi) (1992; olio su tela, 50 x 50 cm)
Luca Pancrazzi, Già visto (Pistoi) (1992; olio su tela, 50 x 50 cm)

Si deve anche a lei la tua prima mostra presso la Galleria Vivita: è così?

Due amici coi quali avrei condiviso poi un pezzo di strada erano stati invitati ad un contest all’interno di eventi mondani nella discoteca Manila di Campi Bisenzio. “First Graffiti Competition” era chiamata la serata, ed io mi sono infilato nei panni di un graffitista, il risultato è che mi sono divertito molto ed il nostro graffito alquanto performativo e radicale è stato premiato con la realizzazione di un altro graffito dentro la galleria Vivita. Nella giuria del premio c’era anche Maria Luisa Frisa che quindi indirettamente ha partecipato alla consapevolezza di tenere unito il nostro gruppo che avrebbe operato negli anni successivi col nome di Importè d’Italie. Con Pedro Riz’ A Porta e Andrea Marescalchi abbiamo poi continuato ad operare in contesti misti dedicando un decennio di attività artistica e performativa sotto questo nome collettivo.

A Firenze e più in generale in Toscana, come accennavi prima, c’era un gran fermento in quegli anni: chi erano gli artisti che frequentavi, esisteva un dibattito fra voi, su quali argomenti?

Il fermento era il risultato dell’uscita da un periodo di “austerity” e di “anni di piombo” degli anni Settanta. Gli anni Ottanta sono stati un periodo di rinascita dal punto di vista della creatività e non solo. L’ultimo periodo felice prima della realizzazione del controllo digitale totale privato e istituzionale che stiamo vivendo e che avremmo visto impiantarsi nelle nostre vite nel decennio successivo. Il mondo era analogico meccanico e magnetico, gli artigiani riempivano le città italiane, e nelle periferie si innovava le tecnologie produttive mantenendo un prodotto di alta qualità e di sapienza e maestria artigianali. In quel tempo abitavo a Firenze, avevo uno studio nella campagna fiorentina e viaggiavo spesso negli stati uniti dove ho passato anche lunghi periodi. A Firenze frequentavo gli artisti della mia generazione e di quella precedente che intrecciava un po’ sospettosa relazioni col nuovo. Lavoravo a Roma nello studio di A. e B. dove passavano galleristi, mercanti e andavamo insieme alle mostre degli artisti della sua generazione, incontravo poi alle inaugurazione quelli più giovani del pastificio. Da Firenze viaggiavo spesso visitando mostre di amici artisti a Bologna e Milano soprattutto nelle inaugurazioni di galleria. A New York lavorando per un periodo con lo studio che produceva le opere di Sol Lewitt ho incontrato un

po’ di artisti vicini a quel mondo che girava intorno alla stamperia di Watanabe dove venivano progettate le formule dei colori dei i wall drawings. Il dibattito tra gli artisti più vicini era il collante del tempo speso a carpire i segreti dell’arte contemporanea godendoci lo spettacolo della fine delle avanguardie e dei movimenti con un senso di libertà inebriante, e spesso anche dispersiva. Gli artisti erano pochi, potevamo contarli con le dita delle mani dei presenti, tenevamo conto delle opere dei maestri e degli artisti delle generazioni precedenti alla nostra e tentavamo di superarli per maestria intuito e inventiva.

La vostra è stata la prima generazione che è riuscita a sottrarsi dal peso della contrapposizione tra schieramenti e la politicizzazione della cultura e che in virtù di questo ha potuto muoversi con maggior libertà fra i linguaggi. Fra i primi ricettori di queste nuove istanze ci sono sicuramente Marsilio Margiacchi e Luciano Pistoi: come li hai incontrati e che rapporto si è creato con loro?

Sottratti o non sottratti eravamo e siamo sempre stati sottoposti a pressioni individuali enormi, nonostante gli schieramenti delle gallerie e le scuderie dei critici in quegli anni cercavamo di muoverci autonomamente come schegge impazienti trovavamo i modi possibili e impossibili di mettere in mostra le nostre opere. Fu Antonio Catelani che un giorno mi indicò un curioso gallerista baffuto aretino che avrebbe avuto voglia di mettersi alla prova con giovani artisti, che in quegli anni venivano definiti emergenti. Arezzo è sempre stata una dormiente cittadina immersa nella campagna, ai margini delle carovane turistiche che attraversavano la Toscana e l’Italia, e che ha visto il suo primo sviluppo industriale solo nel primo dopoguerra permettendo ai mezzadri e contadini di divenire cittadini e artigiani alzando lo standard economico della comunità. Insieme ad un gruppetto di artisti, tra cui Gianluca Sgherri col quale avevo condiviso gli studi liceali fiorentini, abbiamo iniziato a frequentare Marsilio Margiacchi che ci ha lasciato prima ripulire la galleria dagli arredi e poi ha partecipato con entusiasmo alla progettazione di mostre aprendo collaborazioni con tutti gli artisti nuovi che c’erano in Italia. In quel periodo intermedio, prima di approdare a Milano mi ero trasferito nella campagna aretina in un insolito edificio industriale rurale, e potevo seguire i progetti direttamente con Marsilio quasi quotidianamente. Con lui infatti siamo approdati a Volpaia, nel cuore del Chianti dove una comunità torinese si era insediata ed aveva creato un polo artistico. Luciano Pistoi a Volpaia preparava un evento annuale che apriva la stagione espositiva, una delle prime manifestazioni periodiche artistiche che utilizzavano tutto il contesto del paese coinvolgendo poi la comunità nella festa finale ed inaugurazione. Arrivavano personaggi del mondo dell’arte da ovunque, critici, artisti collezionisti, amanti dell’arte, giornalisti, galleristi, studenti e amanti dell’arte. Ho partecipato ad una edizione nel 1992 con artisti intergenerazionali provenienti da tutta Italia e in quei giorni passavamo delle belle giornate a chiaccherare con Pistoi e Margiacchi, di arte e di altro, a valutare gli artisti, a progettare mostre e Luciano frequentava spesso la galleria ad Arezzo.

Luca Pancrazzi, Simmetria Variabile Variata (1991; due tele emulsionate, 40 x 30 cm, tele preparate, trepiede, spot, dimensioni variabili). Installazione per la mostra Pancrazzi, Santarlasci, Sgherri, Studio Corrado Levi, Milano.
Luca Pancrazzi, Simmetria Variabile Variata (1991; due tele emulsionate, 40 x 30 cm, tele preparate, trepiede, spot, dimensioni variabili). Installazione per la mostra Pancrazzi, Santarlasci, Sgherri, Studio Corrado Levi, Milano.
Luca Pancrazzi, Star System (1998; fotografie bianco e nero, 30 x 30 cm ciascuna).
Luca Pancrazzi, Star System (1998; fotografie bianco e nero, 30 x 30 cm ciascuna).
Installazione per la mostra Flash Light, TOTAH gallery, New York 2022. Da sinistra a destra tre opere dal titolo Baluginante Riflettente, 2022, acrilico su tela.
Installazione per la mostra Flash Light, TOTAH gallery, New York 2022. Da sinistra a destra tre opere dal titolo Baluginante Riflettente, 2022, acrilico su tela.
Installazione per la mostra Flash Light, TOTAH gallery, New York 2022: Eclissarsi (2022; acrilico su tela, 121 x 121 cm).
Installazione per la mostra Flash Light, TOTAH gallery, New York 2022: Eclissarsi (2022; acrilico su tela, 121 x 121 cm).

La prima mostra da Margiacchi presentata da Maria Luisa Frisa fu una collettiva dal titolo simbolico “Cambio”, titolo proveniente da un tuo lavoro pubblicato sulla copertina del catalogo. Oltre a Gianluca Sgherri in mostra con voi c’era anche Andrea Santarlasci: quali furono gli episodi successivi dell’avventura aretina?

La mostra Cambio in pratica è una mostra senza titolo che prende il nome dall’opera in copertina scelta insieme agli altri artisti. Questa mostra è stata uno spartiacque per la galleria di Marsilio che da quel momento ha dedicato più tempo ai giovani nuovi artisti: questo cambiamento ha necessariamente coinvolto la ridefinizione dello spazio espositivo per adattarlo alle nuove esigenze di pulizia formale e assenza di arredi. Solo la moquette marrone è sopravvissuta ancora per un po’ di tempo, ma già un paio di anni dopo ne ho fatto anche un lavoro durante una mostra con Marco Cingolani, una doppia personale dove ribaltavo idealmente il pavimento sul soffitto e vi appendevo anche i quadri. Quadri che ritraevano persone presenti alla mostra precedente ritratti come visti dall’alto, dal soffitto. Poi anche la moquette marrone è sparita. Maria Luisa era molto presente in quel periodo toscano e seguiva particolarmente il gruppo di artisti vicino alla galleria di Margiacchi, nel 1991 abbiamo esposto oltre che ad Arezzo, a Firenze nel palazzo della Provincia, a Roma nella galleria Sala 1, e a Milano nello Studio Corrado Levi ed ha poi curato un mio progetto espositivo al Museo Marino Marini, nel 2000. Dal1993 ho iniziato una collaborazione con la galleria Mazzoli di Modena durata diversi anni, e in contemporanea con la galleria Continua. L’anno successivo ho spostato lo studio a Milano e molte altre cose sono cambiate.

Il tuo lavoro su che cosa si concentra in questo periodo?

Ultimamente sto lavorando molto sulla pittura e sul disegno, come sempre porto avanti dei cicli di lavori che spesso provengono da altri cicli lontani nel tempo e così via. Seguo un filo logico, che poi puntualmente perdo, cerco un percorso che puntualmente si disperde, cerco di essere coerente e puntualmente mi tradisco, cerco di tenere in mente le cose importanti e puntualmente mi distraggo con cose futili, inutili, cerco di capire quello che il mio fare ha prodotto e puntualmente mi distraggo nell’interpretazione concentrandomi sul particolare, cerco di avere un percorso coerente e puntualmente tradisco le aspettative. Questo è stato l’insegnamento ricevuto e questo è quello che metto in pratica.

L’archivio è per te un modo per rilanciare il meccanismo del tradimento che descrivi sopra?

L’archivio è un metodo, il tradimento è una difesa, se vuoi introdurre il tema dell’archivio posso raccontare come alcune ossessioni con vari metodi di appropriazione si siano tramutate in raccolta e poi archiviate. Le immagini sono un patrimonio dell’umanità anche se protette da copyright. Le raccolgo e le catalogo. Raccolgo molteplici soggetti, le seleziono e molte le scarto, alcune le licenzio, le liquido, le dipingo, oppure le stampo in tutti i modi possibili, le imprimo nella mia mente. Raccolgo, per esempio, stelle dagli anni Ottanta, immagini stampate con stelle al loro interno, dettagli di bandiere, di medaglie sulle giacche di generali e militari, di decorazioni su cappelli e nelle bandiere, negli stendardi e stampate sulle magliette di passanti catturati nelle immagini che ritaglio, strappo, da qualsiasi rivista o giornale. Negli anni la collezione è aumentata, è diventata un vero Star System, un lavoro autonomo. Le stelle non mancano mai nelle immagini che vengono pubblicate, sono un vero continuum nello standard fotografico, sono di gran moda in qualsiasi periodo, militari, terroristi, sportivi, starlette del cinema, tutti le mostrano con orgoglio e le portano nel mio archivio attraverso le loro immagini stampate Così come per le immagini delle stelle, ho in archivio molti altri soggetti suddivisi per categorie e temi, tutti archiviati in ordine alfabetico. Nel tempo l’archivio diviene un metodo, e viene alimentato in modo automatico, diviene uno stile di vita che puntualmente porta al suo tradimento, viene rinnegato se pur coltivato, viene eluso, se pur presente, viene escluso se pur indispensabile.

Oltre a catalogare e raccogliere immagini che ti interessano archivi anche i tuoi lavori?

Archivio come forma d’arte è una cosa e archivio come organizzazione delle opere e dei materiali è un’altra. Da qualche anno ho fondato A.L.P., Archivio Luca Pancrazzi, che è un luogo fisico e raccoglie tutte le opere, la documentazione fotografica i documenti bio e bibliografici, i cataloghi e tutto ciò che c’è intorno alle opere. È uno spazio dove fotografare, catalogare imballare, sballare e archiviare.

Bene, allora tornando agli episodi iniziali e approfittando dell’archivio ti volevo chiedere di mettere a fuoco un paio di lavori fra quelli degli inizi raccontandone la genesi e gli sviluppi nel lavoro successivo . Il primo è il volume pneumatico trasparente Collezionare lo spazio presentato a Volpaia, il secondo è l’installazione realizzata sul soffitto della Galleria Margiacchi in occasione della mostra con Marco Cingolani.

Collezionare lo Spazio, nel senso dello spazio vuoto, questo era il titolo e il senso originario dell’opera che ho costruito per la mostra Spendente, a Volpaia, in toscana nel 1992.

Volevo evidenziare la contraddizione del significato di collezione parlando di un oggetto impossibile da possedere come lo spazio vuoto. L’opera prendeva in considerazione una porzione di spazio effettivo all’interno del borgo, tagliandolo fuori, semplicemente rivelandolo ed esponendolo attraverso un gonfiabile di pvc trasparente costruito ricalcando esattamente l’architettura del volume interno di un sottopassaggio pedonale che collegava due piazzette all’interno dello sviluppo urbano spontaneo del piccolo borgo. Mi interessava quella porzione di vuoto tra i due edifici che lo delimitavano. Quella scultura non era che la rivelazione del vuoto che ci circonda. Per poterlo evidenziare ho avuto bisogno di un guscio che lo contenesse e lo delimitasse. Quel progetto è stato il primo di una serie realizzata attraverso l’utilizzo della tecnica del gonfiabile, che provava a portare avanti il rapporto tra natura del mondo rivelata attraverso una scansione che, quando ribaltata, prendesse in considerazione le parti vuote piuttosto che i volumi classici pieni che siamo abituati a valutare. La lettura in negativo scansiona il mondo per rivelare ciò che è nascosto, ma i vuoti ci parlano dei pieni rivelandoli come se li vedessimo per la prima volta. L’opera di Volpaia era un grande tubo di pvc trasparente saldato con la forma del sottopasso tra due piazzette. Costruito su misura, perfettamente aderente, appena lo abbiamo gonfiato ho apprezzato l’effetto imprevisto del sole che toccandolo in una delle due estremità faceva correre la luce sullo spessore del pvc ed accendeva tutto il tubo di una luce riflessa che lo trasformava in un volume di ghiaccio. In quel periodo stavo sviluppando in modi diversi la costruzione di forme e immagini partendo da volumi e spazi vuoti, così anche le sculture in cera all’interno della mostra di Volpaia non erano che calchi di forme vuote duplicate a formare nuovi volumi. Nello stesso periodo nella galleria di Margiacchi, in una doppia personale, ho potuto evidenziare un altro aspetto dello spazio che ci circonda e che abitiamo. La mostra era condivisa con Marco Cingolani che utilizzava un suo tema del momento per creare una sorta di scultura pittorica, di un astronauta ferito. Nel suo lavoro il soggetto era il cosmo, lo spazio esplorato dagli astronauti, e mi era particolarmente utile per giocare quindi con l’idea di spazio, anche se nel mio caso era quello della galleria stessa. Uno spazio terreno in rapporto con uno spazio cosmico. Il progetto di quell’installazione nasce dalla mostra precedente di Federico Fusi nella galleria, dove ho potuto installare una macchina fotografica sul soffitto, comandata a distanza da un telecomando con la quale fotografavo tutte le persone con un punto di vista zenitale. Alcuni che si sono accorti del marchingegno hanno alzato lo sguardo ed ho potuto fotografarli in quella posa insolita con la faccia rivolta all’osservatore. Le foto mi sono servite per fare 11 quadri che ho appeso sul soffitto, non prima di averci teso una tela marrone come la moquette del pavimento. Si è venuto a creare uno spazio simmetrico e ribaltato dove poi i nuovi frequentatori della galleria durante la mia mostra osservavano questo ribaltamento divenendone parte integrante. Spesso un soggetto osservava se stesso ribaltato sul soffitto. Spazio e tempo erano il collante intermedio, il soggetto principale della mostra, e contemporaneamente lo spazio diventava cosmico e scenario del dramma dell’astronauta.

Maseratirundum, opera di Luca Pancrazzi costruita per la biennale di Mosca del 2007. È composta da circa 700 kg di vetro superclear incollato sulla carrozzeria di una maserati sprt GT del 2006. L’opera è stata guidata per le strade di Mosca durante il rigido inverno del 2007 dalla sede Maserati al Museo nel quale è poi rimasta esposta durante il periodo della biennale.
Maseratirundum, opera di Luca Pancrazzi costruita per la biennale di Mosca del 2007. È composta da circa 700 kg di vetro superclear incollato sulla carrozzeria di una maserati sprt GT del 2006. L’opera è stata guidata per le strade di Mosca durante il rigido inverno del 2007 dalla sede Maserati al Museo nel quale è poi rimasta esposta durante il periodo della biennale.
Maseratirundum
Luca Pancrazzi, Maseratirundum
Luca Pancrazzi, Aperundum (1997; vetro superclear su apecar, 190 x 280 x 168 cm)
Luca Pancrazzi, Aperundum (1997; vetro superclear su apecar, 190 x 280 x 168 cm)
Luca Pancrazzi, Il Paesaggio ci osserva (2006; paesaggio:  alluminio, circuiti stampati di computer, tastiera, caratteri mobili tipografici, resina epossidica, colla cianocrilica, vinavil,  stucco poliestere, sabbia, spilli d’acciaio, chiodi, viti, spugna poliuretanica, ottone, fascette di nylon, 9 telecamere a circuito chiuso, su legno, inserito in un labirinto cablato e collegato con 9 monitor alle 9 telecamere del paesaggio stesso, 10 x 10 x 2,5 m). Installazione per Art Unlimited, Basel, 2006, con Galleria Continua.
Luca Pancrazzi, Il Paesaggio ci osserva (2006; paesaggio: alluminio, circuiti stampati di computer, tastiera, caratteri mobili tipografici, resina epossidica, colla cianocrilica, vinavil, stucco poliestere, sabbia, spilli d’acciaio, chiodi, viti, spugna poliuretanica, ottone, fascette di nylon, 9 telecamere a circuito chiuso, su legno, inserito in un labirinto cablato e collegato con 9 monitor alle 9 telecamere del paesaggio stesso, 10 x 10 x 2,5 m). Installazione per Art Unlimited, Basel, 2006, con Galleria Continua.
Luca Pancrazzi, Il Paesaggio ci osserva
Luca Pancrazzi, Il Paesaggio ci osserva
Luca Pancrazzi, Il Paesaggio ci osserva
Luca Pancrazzi, Il Paesaggio ci osserva
Luca Pancrazzi, Simmetria Variata Variabile, Galerie Caratsch & De Pury Luxembourg, Zurigo, 2005
Luca Pancrazzi, Simmetria Variata Variabile, Galerie Caratsch & De Pury Luxembourg, Zurigo, 2005

Spazio e tempo sono due elementi che hanno una loro centralità̀ nel tuo lavoro e che nel tempo hai interrogato in vari modi. Un altro elemento che mi sembra avere una sua pregnanza è l’aspetto ludico che forse ha origine dal contatto forte con A. e B.: puoi parlarne ?

Il Novecento è iniziato con la teoria della relatività di Einstein ed ha segnato tutto il secolo, io sono nato nel 1961, in pieno boom economico e positivistico, mettere in crisi le certezze del proprio tempo era una missione linguistica e una pratica quotidiana di opposizione a tutto ciò che stava per arrivare ed era già frutto delle peggiori premonizioni lucide e ciniche. Pop Art, arte concettuale, e situazionismo ci appartenevano cosi come la peggior pittura post-transavanguardista appartiene oggi ai giovani artisti. Ogni altezza ha per contrappasso il suo abisso, siamo stati gli ultimi abitanti di questo pianeta a vivere alla giornata, mettendo i bastoni alle ruote alla nascita dei controlli sociali sin dagli albori dell’elettronica, il nostro esercizio era quello di schivare la frontalità dell’immane futuro che rendeva nero e funesto il cielo all’orizzonte, ma il vivere alla giornata era, sia la difesa naturale per mantenere la nostra libertà, sia lo strumento di opposizione. Il tempo e lo spazio erano quello lineare di Einstein. Lo spazio era infinito ma non ancora curvo, e la meccanica quantistica, anche se nata nello stesso secolo, poco più tardi alla relatività, era stata contestata dallo stesso Einstein e avrebbe atteso il nuovo secolo per essere meglio accettata, testata e divulgata. Il gioco, con le sue regole, è stato per me un esercizio dell’intelligenza, costruivo sin da piccolo, con mio fratello, nuovi giochi utilizzando in parte altre cose e la costruzione delle regole era la parte più complessa e più interessante, il gioco poi serviva per la sua messa a punto e verifica. Abbiamo giocato tantissimo, vivevamo nel gioco nella nostra cameretta, nella stessa che poi è divenuto il mio primo studio, dove continuavo a inventare e vivere in altri tipi di gioco. Poi i calembour linguistici, gli anagrammi, gli indovinelli, erano parte del linguaggio e del modo di continuare a giocare con l’arte. Sono sempre entrati più o meno dalla finestra e dalla porta principale nel mio lavoro e in quello di artisti coi quali spesso collaboravo. La collaborazione poi con Boetti nel suo lavoro ha di sicuro fortificato questo aspetto e mi ha dato la sicurezza necessaria per poter continuare a lasciare un posto privilegiato a questa pratica.

Prima quando parlavi di “Collezionare lo spazio” ti sei soffermato sulla descrizione della luce che si rifletteva sulla materia trasparente del volume in pvc, il che rimanda inesorabilmente alla pittura un altro dei punti cardinali del tuo lavoro. Ti chiederei di entrare più dentro a questo aspetto raccontando per esempio come nascono i dipinti bianco su bianco e di come questo aspetto del tuo lavoro si è sviluppato nel tempo...

Come mi pare di aver sempre dichiarato, sono un artista e pittore, l’approccio retinico prevale nell’arte che faccio, anche quando approccio la scultura, la tridimensionalità, ma in questo caso riconosco che il controllo diviene di volta in volta sottratto. La pittura rimane una sorta di finestra, e quando la finestra è rotta, sfasciata, senza vetri o coi vetri rotti, o chiusi e le veneziane tirate giù, oppure è grande come tutta la casa che è fatta di vetri, questa finestra è il conforto formale e concettuale del quadro ed è il principale oggetto imprescindibile a cui si riferiscono i pittori, la pittura è sempre stato il Ring principale dell’arte, sono le finestre a essere divenute altro. Questo mondo dentro lo spazio della galleria, dentro lo spazio della città, all’interno dello spazio del mondo, innesca un rapporto imprescindibilmente frattale divenendo il soggetto stesso di tutti i quadri, in un gioco di riflessi e rimandi infinito pur rimanendo in uno spazio che ha dei limiti. Per il pittore dentro quello spazio c’è la possibilità e l’ambizione del controllo, o tutto ciò che produce l’impostazione di un tentativo di controllo attraverso il caos della materia. L’artista pittore presume di essere il creatore di quel caos, responsabile del suo fallimento o del suo successo. Ma sempre più frequenti e bentrovati sono tutti quegli esercizi di uscita dallo spazio del quadro che man mano provocano la tendenza a spostare l’attenzione sui bordi, del foglio di carta come della tela, sullo spessore, sul retro… poi il quadro si appoggia per terra, il foglio viene lanciato per aria, la tela bucata, si strappano le superfici, si toglie dal telaio la tela e la si rimonta male, con pieghe e abbondanze a perdere, la pittura non si ferma al margine del quadro, continua sul muro, sul pavimento, esce dalla porta e passeggia nei marciapiedi, si espande sulle facciate e si fa gassosa colorando l’aria, e sparendo all’infinito per poi rapprendersi con le basse temperature emotive per congelarsi di nuovo in forme tridimensionali, pietrificate o di liquida memoria resinosa, rientrando dalla strada nella porta d’ingresso o addirittura dalla finestra e poi nella stanza. Il controllo viene perso a vantaggio della super-casualità di tutto ciò che non è possibile controllare. Questo mondo in movimento confina col quadro, lo convince ad essere incluso, risucchiato, tutti quegli elementi esterni sono parte del volume totale di quella che è diventata un’installazione totale. Quindi i pittori hanno acquisito, attraverso consapevolezze diffuse di questo tipo, questa ambizione moderna di avere necessità del controllo sullo spazio installativo della mostra, sul ritmo e sugli accessori d’arredo che circondano il quadro, il battiscopa, il pavimento, la luce, ovviamente, anche se non dovremmo dimenticarci che la pittura viene dipinta in un altro luogo dove questa neutralità non c’è, la pittura se non è site-specific, nasce nel caos dello studio, un caos organico che l’artista squartato spalma attraverso le sue viscere sulle tele più o meno preparate e disinfettate. Quindi anche io mi sento un pittore militarizzato dalla realtà del mondo, e lascio prevalentemente a cicli di opere diversi la mia ambizione di controllo totale sullo spazio intorno. Ho sempre prediletto la luce naturale per il fatto di non essere mai uguale, di progredire durante la giornata, diventare più o meno calda durante l’evoluzione tra l’alba e il tramonto, di abbassarsi all’improvviso durante il passaggio di una nuvola, e di restituire l’idea di tempo e di precarietà con questi cambiamenti ciclici. Amo talmente la modulazione della luce naturale che per apprezzarla a pieno ho speso molti anni della mia vita lavorando di notte, utilizzando proiettori per ingrandire le mie immagini, così potevo tenere le finestre aperte ed apprezzare l’arrivo dell’alba con la quale terminavo la mia giornata di lavoro. Stando al buio gli occhi si allenano alla poca luce ed il cervello completa l’azione di ricostruzione del mondo anche solo attraverso quei pochi bagliori. Dal nero emergono le forme che si rivelano attraverso la luce. Così ho iniziato a dipingere dei quadri partendo dal minimo, dal necessario, limitando la costruzione delle forme attraverso il colore bianco, quello con cui si dipingono le luci. Lo stesso bianco che è impastato al gesso che si usa per dare un fondo alla tela su cui poi dipingere. In quello spazio di preparazione ho iniziato e finito il quadro che a quel punto lascia le parti più scure visibili attraverso la mancanza di pittura. La tela naturale è quindi il tono di fondo, e diluendo in dosi omeopatiche il pigmento ho realizzato paesaggi e nature morte. La mia ultima mostra newyorkese della quale è uscito il catalogo adesso, dopo più di un anno, ha come soggetto la luce, il titolo Flash Light forza l’aspetto legato a questa rappresentazione, portandolo verso l’abbaglio, il riflesso, il contrasto, che la luce procura in alcuni casi.

Ecco, l’idea di abbaglio mi fa venire in mente un altro tuo lavoro, quello della Maserati rivestita di frammenti di vetro trasparente, una pratica che hai esercitato anche su altri oggetti (orologi, seggiole...) che fanno parte della tua iconografia. Anche questi lavori indagano la luce?

Tutto indaga la luce, anche il buio. Il ciclo di opere che hanno la desinenza “rundum” alludono al materiale carborundum, da qui si può facilmente dedurre il titolo (car)borundum, ed è stato inevitabile che la prima opera di questo ciclo fosse un’automobile. Volevo che fosse viaggiante ed ha viaggiato per Pescara la prima Carborundum nel 1996 durante un “Fuori Uso”, ha viaggiato dentro la mostra e fuori nel quartiere di fronte. Con questa prima opera ho applicato la tecnica che poi è servita per le opere di questo ciclo. Pensavo di rivestire l’auto con i frammenti dei vetro infrangibile provenienti dalle stesse auto. Volevo una graniglia di vetro che simulasse su una scala macro la funzione di materiale abrasivo e al tempo stesso luminoso. L’opera doveva essere abrasiva come il carborundum utilizzato per realizzare fogli e materiali abrasivi lo è, e doveva riflettere la luce come il vetro può fare per spezzare la forma compatta dell’oggetto e frammentarla di riflessi così come la mia pittura bianca produceva alle forme che rappresentava. Schegge di luce abrasiva. Così come la copertina abrasiva di alcune pubblicazioni situazioniste guydebordiane produceva l’effetto di consumare i libri vicino ogni qual volta veniva estratto e veniva reinserito nella libreria, così la mia auto carborundomizzata, passando per la città, avrebbe smussato, consumato tutti gli angoli e le asperità rendendo lisce le cose e le case. Durante quei giorni a Pescara una tempesta di pioggia e vento ha devastato i magazzini all’aperto delle grandi aziende di vetro della zona. Ho così potuto attingere ad una quantità di vetro inimmaginabile, gratuitamente, ma soprattutto ho potuto scegliere tra le varie partite frantumate. Ho così deviato dal progetto iniziale di utilizzare vetro infrangibile passando alle ben più minacciose schegge di vetro chiaro. Ho prediletto vetri con grandi spessori, e di vetro superchiaro, incollati sull’automobile in maniera decisamente più fitta dei vetri posti sui culmini dei muretti per renderli invalicabili. La mia Regata turbodiesel era bellissima, la miglior customizzazione che avessi mai visto, così ho raccontato a Lapo Elkan una notte in un bar di Firenze.

È stato lui a fornirti la Maserati?

No, me l’ha gentilmente fornita Jean Todt, quando, chiedendo la concessione di una Ferrari, anche solo la sua scocca, verniciata di rosso, con le ruote, ha invece deviato la richiesta su una Maserati 4 porte nuova e viaggiante. Ho quindi cambiato il progetto per la Biennale di Mosca dal vetro rosso di scarto di Murano al vetro superclear americano di grandi spessori.

Luca Pancrazzi, Interno (1993; olio su tavola, 30 x 30 cm)
Luca Pancrazzi, Interno (1993; olio su tavola, 30 x 30 cm)
Luca Pancrazzi, Interno (1993; olio su tavola, 30 x 30 cm)
Luca Pancrazzi, Interno (1993; olio su tavola, 30 x 30 cm)
Luca Pancrazzi, Interno (1994; olio su tavola, 30 x 30 cm)
Luca Pancrazzi, Interno (1994; olio su tavola, 30 x 30 cm)
Luca Pancrazzi, Interno (1999; olio su tavola, 30 x 30 cm)
Luca Pancrazzi, Interno (1999; olio su tavola, 30 x 30 cm)
Luca Pancrazzi, Interno (2000; olio su tavola, 30 x 30 cm)
Luca Pancrazzi, Interno (2000; olio su tavola, 30 x 30 cm)
Luca Pancrazzi, Fuori Registro (1995; acrilico su tela, 180 x 265 cm)
Luca Pancrazzi, Fuori Registro (1995; acrilico su tela, 180 x 265 cm)
Luca Pancrazzi, Fuori Registro (La cura del selvatico) (2023; 200 x 200 cm)
Luca Pancrazzi, Fuori Registro (La cura del selvatico) (2023; 200 x 200 cm)
Luca Pancrazzi, Fuori Registro (nuvolare4) (acrilico su tela, 100 x 65 cm)
Luca Pancrazzi, Fuori Registro (nuvolare4) (acrilico su tela, 100 x 65 cm)
Luca Pancrazzi, Fuori Registro (baluginante riflettente) (2022; acrilico su tela, 200 x 150 cm)
Luca Pancrazzi, Fuori Registro (baluginante riflettente) (2022; acrilico su tela, 200 x 150 cm)
Luca Pancrazzi, Fuori Registro (sottobosco) (2023; acrilico su tela, 140 x 100 cm)
Luca Pancrazzi, Fuori Registro (sottobosco) (2023; acrilico su tela, 140 x 100 cm)
Luca Pancrazzi, 144717122022 (Parco Lambro) (2022; inchiostro su carta intelata, 70 x 50 cm)
Luca Pancrazzi, 144717122022 (Parco Lambro) (2022; inchiostro su carta intelata, 70 x 50 cm)

Ecco, ti volevo chiedere di parlare dell’importanza che ha nel tuo lavoro l’idea di giocare con le scale di riproduzione passando dal 1/1 al micro il paesaggio per esempio.

Tanto per andar di palo in frasca… credo che stai citando 1:1, la mostra all’interno della Biennale di Mosca per l’edizione del 2007, e citi il ciclo di sculture dedicate all’orizzonte che in alcuni casi si è manifestato in forma di colonna architettonica con un paesaggio inserito all’altezza dello sguardo… Cosa dire a proposito? Il gioco è una bella cosa da poter mettere in atto, è il motore del fare e del disfare. Nel contrapporre scale diverse che convivono all’interno della stessa opera metto in atto una vertigine rendendo impossibile la visione dell’opera, camuffandola con la scala architettonica reale e al tempo stesso imponendo un’osservazione talmente ravvicinata dove il contesto sparisce. Chi osserva deve porsi attivamente rispetto all’opera e rispetto allo spazio. Lo spazio appare vuoto, ci sono delle pareti un pavimento e ci sono delle colonne. Una delle colonne appare stranamente tagliata e ci si avvicina per capire meglio, il taglio è proprio all’altezza degli occhi, ma come può essere stata tagliata una colonna? Cosa c’è dentro quel taglio? Ci si deve avvicinare e attaccare gli occhi a quel taglio e alla fine stiamo guardando un paesaggio, un orizzonte che evoca un paesaggio, quindi stiamo guardando attraverso la colonna stessa e vediamo lo spazio oltre al taglio, oltre alla colonna. La fruizione dello spazio è quella di muoversi in un luogo architettonico vuoto, mentre contemporaneamente nella nostra mente si è formata l’immagine di un paesaggio all’orizzonte. L’opera Il Paesaggio ci osserva è fatta di questo squilibrio e vertigine. Se si osserva più approfonditamente si scopre che il paesaggio è fatto di piccoli frammenti, oggetti appoggiati su un piano, sul piano di osservazione. Un chiodo, un bullone, una scatola di spilli, un temperamatite, una tastiera di una calcolatrice diventano edifici, torri dell’acqua, ciminiere, fabbriche, costruiscono un paesaggio che appartiene ad una visione comune evocata con pochi oggetti trovati. Niente è costruito, gli oggetti sono incollati nella fessura ed il paesaggio tridimensionale è visibile da tutti i lati della colonna girandoci intorno. Cosa è il paesaggio? Di cosa è fatto? Chi lo osserva cambia il paesaggio stesso? Due persone diverse che osservano lo stesso paesaggio vedono le stesse cose? Guardare lontano all’orizzonte è sempre stato un buon esercizio per gli occhi e per la mente.

Molto spesso è il paesaggio urbano il protagonista dei tuoi lavori che cosa ti attira di questi non luoghi?

Paesaggio urbano non significa non-luogo. Da quando Marc Augé ha analizzato la presenza nel paesaggio di spazi con relazioni ridotte, denominati non-luoghi nel suo saggio Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité (1992), abbiamo acquisito la consapevolezza che l’antropizzazione diffusa crea delle situazioni rarefatte dove la funzione prende il sopravvento sulle relazioni. Questi spazi appena riconosciuti sono divenuti una la caratteristica del nostro pianeta. Il paesaggio urbano è quello che frequento quotidianamente, ho imparato a leggere le trasformazioni e le sfumature nella città che attraverso, passando da un centro ad un altro percorrendo canali privilegiati infrastrutturali che collegano tutti i centri senza soluzione di continuità. Penso che i non-luoghi che tu identifichi nel mio lavoro siano i quadri che rappresentano corridoi e spazi di comunicazione tra luoghi. Ho cominciato a dipingere i corridoi perché non avevano un loro artista che li rappresentasse, e li valorizzasse. Sono stato il primo pittore che ha lavorato cercando di rappresentare spazi a rarefazione relazionale, cioè tutti quei luoghi anti-pittoreschi che usiamo tutti i giorni senza dargli una rappresentazione. Molti di quei quadri non erano in effetti dei veri non-luoghi, ma semplicemente luoghi di passaggio, di scambio, di interscambio. Questi quadri hanno il titolo generale che li raccoglie “Interno”, sono quindi per me un omaggio alla pittura ad olio su tavola, un lavoro interno alla pittura, una pittura che rappresentasse interni architettonici. Nel tempo questa scelta iconografica è scivolata verso quegli spazi descritti sopra, che provenivano inizialmente da immagini rubate, da cataloghi di pannellature e moduli per uffici, di prefabbricati e laminati edilizi, di vetri e divisori interni di un certo funzionalismo internazionale. I quadri detti “Interni” per un breve periodo si potrebbero identificare con il termine coniato da Augé, ma prima e dopo quel passaggio erano e sono diventati tutt’altro, addirittura per certi cicli anche delle nature morte dipinte dal vivo in studio. Questa poetica di certi spazi a rarefatta relazione è poi continuata nella rappresentazione pittorica di strade e autostrade raffigurate con una vista centrale, simmetrica, e poi con la serie dei tunnel e dei ponti. Il paesaggio urbano invece è tutt’altro che un non-luogo, al massimo per quanto riguarda le periferie si potrebbe parlare di luoghi tendenti all’anonimato, ad un certo grado di uniformabilità, ma sono tutt’altro che non-luoghi, direi che sono luoghi per eccellenza, spazi della tragedia umana che possono evocare tutto ciò di cui abbiamo bisogno quando ci proiettiamo nella visione di un paesaggio. Questo potrebbe essere il senso, c’è del sacro in qualsiasi cosa che osserviamo, dipende con quale occhio e disponibilità lo si osserva.


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