Andrea Marini è nato il 19 aprile 1948 a Firenze dove ha conseguito la maturità artistica e successivamente la laurea in Architettura. Vive tutt’oggi a Firenze e svolge la sua attività creativa in uno spazio di tipo industriale in località Calenzano (Firenze). Il suo interesse per l’attività artistica si è manifestato fino dall’adolescenza dedicandosi soprattutto al disegno e alla pittura. Solo alla fine degli anni Ottanta ha iniziato ad impegnarsi con continuità, indirizzando la sua ricerca prevalentemente nel campo della scultura e dell’installazione. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta ha fatto parte anche di alcune associazioni culturali, stimolato dal confronto delle varie ricerche artistiche che in esse venivano elaborate. La sua prima mostra risale al 1989, successivamente ha partecipato a numerose altre esposizioni, personali e collettive, sia in Italia che all’estero. In questa conversazione, Andrea Marini ci racconta la sua arte.
GL. Spesso l’infanzia gioca un ruolo importante nella definizione di quello che è l’immaginario di chi in seguito deciderà di intraprendere il cammino dell’arte, è stato così anche per te?
AM. Il vissuto della mia infanzia è stato sicuramente per me fondamentale; ho avuto la fortuna di poter usufruire di un ampio spazio adiacente al giardino di casa dove si trovava un cantiere edilizio da lungo tempo abbandonato. In questo luogo c’era di tutto: mattonelle, mattoni, tegole, sabbia, pezzi di legno e una zona con una non indifferente quantità di argilla. In questo spazio, durante le vacanze estive, mi ritrovavo con un gruppo di amici a giocare. È stata per me una vera e propria palestra adibita alla creatività. Lì modellavamo di tutto, era una gara a chi riusciva a produrre oggetti più sorprendenti ed originali, costruivamo anche veri e propri villaggi sui cumuli di sabbia utilizzando i numerosi materiali a disposizione. Dopo qualche anno il cantiere è stato riattivato, ma ormai eravamo tutti più grandi e la “palestra creativa” aveva già compiuto il suo dovere. Un altro aspetto della mia infanzia ed adolescenza più oscuro e apparentemente meno positivo ha inciso molto sull’immaginario della mia età adulta: la mia tendenza, in certi periodi, a chiudermi in me stesso e ad isolarmi con momenti di depressione. Credo che la ricerca di una compensazione e sublimazione allo stato di sofferenza, a suo tempo vissuto, possa essere stata una forte motivazione alla creatività.
Qual è stato il tuo primo amore artistico?
Durante il Liceo Artistico ho avuto l’opportunità non solo di studiare ma di vedere dal vivo le opere di Michelangelo al Museo dell’Accademia. Naturalmente sono rimasto affascinato dai suoi Prigioni, opere davvero notevoli soprattutto per il così detto “non finito” che permette, guardandole, di completare l’immagine con la propria fantasia. Ma l’opera che posso considerare appieno il mio primo amore è la Pietà Rondanini, sempre di Michelangelo, inizialmente vista in fotografia e solo successivamente dal vivo a Milano. Non voglio qui fare commenti critici su un’opera così famosa, importante e soprattutto moderna, voglio però sottolineare che attraverso questo lavoro si è innescato in me un meccanismo diverso che mi ha consentito di stabilire, con le opere d’arte che più mi hanno coinvolto, un rapporto di empatia che mi ha permesso di superare un approccio puramente scolastico per raggiungere, invece, una comprensione più intensa e completa che si avvicina all’emozionale piuttosto che al cognitivo. Ed è con questa predisposizione che mi avvicino tuttora alle opere d’arte per carpirne la loro vera essenza.
Che studi hai fatto?
Ho frequentalo il Liceo Artistico e la Facoltà di Architettura. Nonostante la Laurea in Architettura ho preferito seguire la strada dell’insegnamento che mi ha permesso di svolgere un lavoro che mi interessava e contemporaneamente di aver del tempo libero da dedicare alla mia attività artistica.
Ci sono stati degli incontri importanti nei tuoi anni di formazione?
Durante la mia formazione non ho avuto la fortuna di frequentare personalità di rilievo in campo artistico, ci sono state comunque persone che hanno influito molto a stimolare in me le potenzialità necessarie per intraprendere e sviluppare l’attività artistica. La prima persona risale alla mia infanzia; infatti quando andavo a giocare nello spazio-cantiere, il fratello maggiore di uno dei miei amici che frequentava il Liceo Artistico, si intrufolava a volte nel nostro costruire fornendoci preziose indicazioni e originali soluzioni. Lui sicuramente è stato per me un modello da seguire, forse il mio primo vero maestro. Un’altra persona che ha avuto un peso nella mia formazione è stato l’assistente di “figura” al Liceo. Era una persona che sapeva dialogare con gli studenti in modo semplice e discreto riuscendo quindi ad infrangere quel senso di diffidenza che normalmente esiste fra docente e alunno. Alla fine del Liceo era nato fra noi quasi un rapporto di amicizia che mi ha permesso di conoscerlo meglio e, visitando il suo studio, approfondire la conoscenza della sua produzione artistica. In quel periodo dipingeva quadri dove inseriva spesso elementi in legno con effetti tridimensionali che, devo dire, mi influenzarono molto nei miei primi esperimenti. Il positivo clima che si respirava al Liceo e soprattutto il rapporto di amicizia sincero e fecondo con i compagni mi hanno aiutato a stemperare il mio carattere fortemente introverso e a dare vita a momenti di collaborazione e confronto creativo estremamente stimolanti sia durante che dopo il percorso scolastico.
Come si è evoluto il tuo lavoro nel tempo?
Dal 1987 al 1992 circa ho sviluppato una ricerca di tipo geometrico e mi sono dedicato a costruire delle strutture, che mi piaceva denominare “architetture sensibili” per il loro dialogare con fenomeni e dinamiche interiori. Per questo tipo di ricerca, piuttosto rigorosa, elaboravo quasi sempre disegni molto precisi e dettagliati di tipo progettuale che mi permettevano di calcolare il giusto rapporto dimensionale delle forme e l’equilibrio delle materie. Successivamente, quando ho iniziato una ricerca di tipo più organico, ho abbandonato un approccio troppo analitico, adesso eseguo soltanto rapidi schizzi che mi servono a fermare l’idea di ciò che voglio realizzare e contemporaneamente verificarne la validità. Lascio che sia la materia e la costruzione stessa, nel suo farsi, a risolvere l’opera e infonderle vitalità.
Quali sono le differenze sostanziali che individui fra quello che fai ora e quello che facevi anni fa?
Premesso che, quando penso all’attività artistica in generale e al mio percorso artistico in particolare, non posso fare a meno di associarlo ad una specie di albero, dove il tronco rappresenta il flusso principale che va continuamente ad alimentare il desiderio della creazione. Il flusso rappresenta l’insieme delle conoscenze, esperienze, stimoli e percezioni sia interiori che provenienti dal mondo esterno: ciò costituisce l’humus creativo del mio individuo artista. I rami rappresentano i vari aspetti della ricerca che variano in base all’intensità del percorso intrapreso e al tempo impiegato per svilupparlo. La creazione è quindi per me, un complesso organismo interattivo soggetto a trasformazioni e cambiamenti in un processo di continua osmosi tra fenomeni interiori ed eventi esterni. In questa ottica, anche se mi è difficile individuare in maniera chiara le deviazioni avvenute nel mio percorso artistico, posso dire che un cambiamento importante nella mia ricerca è iniziato nei primi anni Novanta. Infatti, mentre stavo sviluppando una ricerca di tipo geometrico, come ho già detto di per sé piuttosto rigorosa, mi sono sentito un po’ ingabbiato, vincolato. Perciò, a un certo momento, ho avvertito il bisogno di affrontare un lavoro più organico che mi garantisse una maggiore libertà creativa e mi consentisse anche di affrontare, più direttamente, il tema che mi sta tuttora particolarmente a cuore: creare o meglio ri-creare una sorta di naturalità innaturale, sintomatica e conseguenziale del controverso rapporto uomo-natura che stiamo vivendo. È inevitabile quindi che dovendo affrontare l’elaborazione di un “nuovo universo”, che nella mia ricerca coinvolge sia il mondo vegetale che quello antropomorfo e zoomorfo, abbia sentito, nel tempo, la necessità di sperimentare più forme e materiali possibili per indagare e ricreare in modo personale ed esauriente un panorama così affascinante e complesso.
Che importanza hanno i materiali che impieghi nel tuo lavoro?
Chiaramente la scelta di un dato materiale ha la sua importanza, normalmente è conseguente al tipo di lavoro che ho in mente, cerco di realizzare un’opera con il materiale più idoneo a costruirla. Il materiale, a volte, mi consente di risolvere la costruzione dell’opera nel suo farsi: parto cioè da un’idea di forma che si struttura solamente mentre la costruisco. A volte però può succedere anche l’inverso, cioè è la scoperta di un nuovo materiale che mi suggerisce il lavoro da fare. In alcuni casi specifici, utilizzo vari tipi di materiale partendo da oggetti, reperti abbandonati che mi hanno incuriosito dandogli nuova vita, non la considero questa un’operazione di riciclaggio ma di “rivitalizzazione” di oggetti morti.
Che idea hai del tempo e dello spazio?
Sarà forse l’età ma spesso mi viene da pensare al tempo che passa. Lo percepisco come qualcosa di tangibile, quasi di visibile, forse un fruscio o addirittura un fluido che scorre. Sicuramente il tempo è qualcosa di misterioso e almeno il nostro, quello fisiologico, si allunga e si accorci a in base alle situazioni. Durante il sonno poi, il tempo sembra annientarsi. Sappiamo anche, secondo la teoria della relatività, che il tempo rallenta alla velocità della luce; emblematico al riguardo il famoso film Il pianeta delle scimmie. Facendo scultura ho bisogno di tempo: prima di tutto quello per riflettere, mettere a fuoco un’idea, capire se concretizzarla, scegliere il metodo costruttivo più idoneo a realizzarla, individuare i materiali adatti e infine cominciare a costruire. Ci sono lavori più veloci, altri più lenti e siccome spesso inizio più lavori non so mai il tempo che mi è occorso a realizzarli. Alla fine la cosa che mi interessa, è che il risultato sia un’opera “senza tempo”, qualcosa che possa appartenere contemporaneamente al passato o ad un ipotetico futuro. Lo spazio è sicuramente un’entità estremamente versatile che può essere soggetto a molte definizioni e interpretazioni, sicuramente è tutto ciò che può essere compreso fra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. Operando nel campo della scultura, a me interessa considerare uno spazio fisicamente percepibile e commensurabile. La scultura può racchiudere una spazio, svilupparsi nello spazio, invadere lo spazio.
Che idea hai della natura?
È ormai da tempo che a causa del fenomeno di antropizzazione, con le continue e molteplici sollecitazione negative da parte dell’uomo, la natura è sottoposta ad uno stato di stress. La vivo come una natura sofferente che sta perdendo il proprio equilibrio e che reagisce, come vediamo quasi quotidianamente, in modo violento provocando disastrose conseguenze all’uomo stesso. Nella mia rivisitazione della natura, propongo una “naturalità innaturale” ovvero una nuova “naturalità” che, anche se sofferente, cerca di ristrutturarsi e vivere in un nuovo mondo sospeso tra il reale e l’immaginario. Voglio così lasciare spazio alla speranza di una “rinascita” e alla possibilità che si possa raggiungere un rinnovato equilibrio.
Ti interessa l’idea di mettere in scena le tue sculture quando le esponi?
Penso che qualsiasi opera contenga in sé una “aura” che esiste indipendentemente dalla sua collocazione e, naturalmente, più l’opera è “riuscita” più quest’aura sarà forte. Quindi in teoria, per assurdo, un’opera “forte” non avrebbe necessità di alcuna messa in scena. In realtà qualsiasi lavoro per essere valorizzato ha bisogno di una corretta collocazione, di una sua messa in scena non tanto come fatto teatrale ma come ricerca dell’instaurazione di quelle condizioni che esaltino le peculiarità di un’opera e mettano il fruitore in grado di leggerla e percepirla nella sua vera essenza.
Qual è la tua idea di bellezza?
In un’opera d’arte il senso di bellezza nasce dai tanti elementi che costituiscono l’opera stessa e il più delle volte questi elementi non sono ben individuabili e codificabili. Ogni persona interpreta un’opera in base alla propria sensibilità, cultura e alla contingente disponibilità interiore a recepire un messaggio. Personalmente penso che, di fronte ad un’opera d’arte, un’idea di bellezza possa scaturire semplicemente da un’emozione, un sottile turbamento, una leggera inquietudine.
L'autore di questo articolo: Gabriele Landi
Gabriele Landi (Schaerbeek, Belgio, 1971), è un artista che lavora da tempo su una raffinata ricerca che indaga le forme dell'astrazione geometrica, sempre però con richiami alla realtà che lo circonda. Si occupa inoltre di didattica dell'arte moderna e contemporanea. Ha creato un format, Parola d'Artista, attraverso il quale approfondisce, con interviste e focus, il lavoro di suoi colleghi artisti e di critici. Diplomato all'Accademia di Belle Arti di Milano, vive e lavora in provincia di La Spezia.