Loredana Longo (Catania, 1967) è un’artista e scultrice italiana che ha costruito la propria ricerca intorno all’estetica della distruzione, una tematica che segna il suo lavoro da oltre vent’anni. La sua pratica, che spazia dalla scultura all’installazione, dalla performance alla progettazione di spazi site-specific, esplora la relazione tra materia, corpo e trasformazione. I suoi lavori sono spesso caratterizzati dall’uso di materiali non convenzionali come cemento, plastica, gesso e terre, e dal coinvolgimento diretto dello spettatore, che diventa parte attiva del processo artistico. Longo realizza gran parte dei suoi lavori negli spazi in cui opera, traendo ispirazione dal contesto che la circonda. Nella sua casa-studio a Milano, ad esempio, vive a stretto contatto con alcune delle sue opere più note. L’espressione “estetica della distruzione” è emersa come un concetto chiave dalla sua personale nel 2005 a Catania, e continua ad essere al centro della sua ricerca, evidenziando la fragilità e il potenziale di rinascita che accompagna ogni processo di decostruzione.
Le sue performance, spesso dirompenti, offrono una riflessione sulla dicotomia tra vigore e delicatezza, forza fisica e materia sensibile. Longo è in grado di adattare la sua arte ai contesti in cui opera, creando interventi processuali che evolvono continuamente. Il lavoro di Loredana Longo si distingue per la sua continua trasformazione, che coinvolge non solo la materia, ma anche il pubblico, in un processo dinamico che interroga e rispecchia la condizione umana e le contraddizioni del nostro tempo. La sua arte è una riflessione sulle tensioni del presente, un invito a guardare oltre le apparenze e a confrontarsi con la vulnerabilità e la forza insite nel processo di cambiamento. Loredana Longo racconta la sua arte in questa conversazione con Gabriele Landi.
GL. Spesso per gli artisti l’infanzia è l’età dell’oro quella dove si fanno le prime scoperte delle fantasticherie che poi ritornano più avanti con il passare del tempo e l’evolversi del lavoro: è stato così anche per te?
LL. Nata a Catania, città alle pendici dell’Etna. Alle elementari ci chiesero di fare un disegno sul parco dell’Etna, il WWF aveva coinvolto in questo grande progetto tutte le scuole elementari della città. Ricordo in classe c’era un bambino che disegnava benissimo, come non ero, non sono e non sarò mai capace. Lo guardavo e ammiravo la sua bravura tecnica. Feci un disegno molto semplice e ingenuo, una montagna con la sua cima innevata, degli animali sproporzionati, ma tutti avevano un compito: in qualche modo avevano delle sporte in cui si poteva raccogliere la differenziata. Al momento della premiazione, vinsi il primo premio, il valore concettuale aveva superato ogni tecnicismo. Per la prima volta capii di avere un piccolo dono, ma certi doni devono essere alimentati, se sono soffocati o incompresi, possono rivelarsi dei veleni. Forse il recupero dei materiali mi è sempre appartenuto, fa parte di un retaggio familiare, un’educazione e rispetto per la natura, grazie alla pazienza di mia madre.
Quale è stato il tuo primo amore artistico?
Ricerco nella mia memoria il primo vero amore e credo sia stato Kandinskij. Ripensandoci ora non esiste artista più lontano dalla mia poetica e dalla mia visione formale. Allora ero affascinata dalla sua storia, dall’utilizzo del colore e della forma, e credo sia stato il motivo per cui ho frequentato lo studio di un pittore a Catania, dove vivevo in quel periodo. Lui aveva un approccio grafico, utilizzava preferibilmente gli acrilici e gli acquerelli. Inizialmente cercavo di seguire un po’ i suoi segni. Dipingevo quasi trasportata dall’amore del colore e delle forme, ma mi mancava il peso delle cose. Restavo sempre e solo sulla superficie, tutto graficamente bello, funzionava come una carta da regalo che però ricopre una scatola vuota. Per un lungo tempo sono rimasta in quel limbo, più vicino ad una sorta di stilosa decorazione che all’arte. Ero inquieta, ho pensato per anni di essere quasi stupida, troppo superficiale, cercavo la profondità ma non riuscivo perché non avevo le basi per trovarla. Non credo di avere mai avuto maestri, sono convinta che sia sempre meglio non avere maestri che averne di cattivi. Mi son costruita a pezzetti, piccoli mattoncini che ogni tanto crollavano e crollano ancora, ma una persona che ha fatto della distruzione il suo mantra non poteva aspettarsi di meglio.
Quali studi hai fatto? Ci sono stati degli incontri importanti durante la tua formazione?
La mia vita è stata un susseguirsi di scelte sbagliate dovute a incidenti piuttosto gravi. Non ho potuto scegliere i miei studi di formazione, quindi per molti anni ho subito una de-formazione. Un grave incidente stradale mi ha costretto a camminare con le stampelle per molti mesi, io ho due fratelli e una sorella e per i miei genitori accompagnare tutti a scuola diventava impegnativo. La scelta è caduta su un istituto parificato linguistico, vicino casa. Partiamo dal presupposto che ognuno ha sicuramente delle doti rispetto ad altri, io non ho facilità a imparare le lingue. Ho però altre doti, e insieme ad altri miei compagni abbiamo messo su una compagnia di teatro, io scrivevo, facevo le scenografie, i costumi e anche l’attrice. Credo sia stato uno dei periodi più felici della mia vita. Era tutto già dentro di me, ma non ne prendevo coscienza. Quella è arrivata dopo. Dopo altre scelte sbagliate, di cui non faccio la cronistoria, infine sono approdata all’Accademia di belle arti di Catania, Pittura. Io non facevo proprio pittura, non ho mai amato l’olio, troppo lento, pastoso, appiccicoso e non si fermava mai. Mio padre aveva una piccola fabbrica di mobili componibili dove costruivo i miei telai, grandi telai, investivo molto tempo nella preparazione: gli stendevo la iuta, la tiravo con il tiratele e applicavo una base. Ci dipingevo con terre e colla vinilica. Talvolta dipingevo sulle tavole di legno, dopo una seria preparazione di fondo costruivo le mie figure, come forme ancestrali, rigide, quasi materiche, colori naturali, ocra, terra bruciata, nero. Per chiarezza posso dirti che ho chiuso gli studi in Accademia con un fenomenale 110 e lode per meriti pittorici. Dal giorno dopo non ho più dipinto. Non me ne vogliano a male tutti gli amici pittori, ma trovo sia di una noia inconsolabile e io detesto annoiarmi, quella ripetizione dei gesti, la preparazione della tela, l’impasto dei colori, leccare quelle sfumature o campire grossi spazi o piccoli, la pulizia dei pennelli. C’è un mondo di altri materiali fuori dallo studio.
Che cos’è l’estetica della distruzione e come nesce?
L’incidente, l’ennesimo incidente. Perdo un rene. L’ospedalizzazione, quel lungo periodo di degenza, attesa, pazienza dei pazienti in cui la mia mente escogitava come uscire da quel letto a sbarre, dai cateteri, dalle analisi, dai giorni di virtuosa astinenza dal cibo e dall’alcol, nascondeva e nutriva una implosione. La frustrazione dell’inattività muoveva pensieri di grande operatività. Guardavo tanta tv e le notizie di macchine esplose, delitti di mafia, si mischiavano a quelle della guerra nel mondo. La mia montagna, il vulcano Etna, esplodeva ed eruttava. Solo io ero costretta a stare ferma. Ma avevo giurato che dalla mia guarigione avrei pensato solo a me. Come si rinasce da una distruzione? La rinascita è già una scelta estetica, non sarai mai come prima, ma forse più interessante, porterai quella ferita con orgoglio e sarà il punto da cui risorgere, con forza. Il mio animale preferito, anche se esiste solo nel mondo mitologico, è la fenice. Quest’estate, invitata ad un Festival su arte e scienza dal titolo Volcanic Attitude, ho pensato di utilizzare la cenere vulcanica. Nella performance Black Phoenix, che si è svolta a giugno alle Acque calde dell’isola di Vulcano, quattro ragazze escono dall’acqua, si sdraiano per terra seguendo un disegno a croce, io poi le cospargo di cenere e pongo ai lati delle foglie di palma, che hanno anche il significato di rinascita. Le performers si alzano e la forma dei loro corpi lascia sul suolo il disegno di una fenice. Risorgono dalle ceneri. Inaspettatamente quest’estate la città di Catania è stata sepolta quattro volte dalle ceneri vulcaniche, a seguito di attività eruttive dell’Etna, sabbia su di noi. È una storia che si ripete nei secoli, in una delle Porte d’ingresso della città c’è una scritta “Melior de cinere surgo”, Catania è stata distrutta circa nove volte dalla lava e dai terremoti, ma è sempre e caparbiamente risorta dalla sue ceneri. Sono figlia dei miei luoghi. Mi sono sempre chiesta perché ricostruire in un luogo dove sei certo che un giorno, prima o dopo, le forze della natura ti travolgeranno nuovamente, e ho compreso che la risposta sta nella bellezza. Quel luogo magico racchiuso fra un cratere e il mare, roccia nera e agrumi, non sono categorie scontate, sono regali della natura, che prende e dà.
Spesso nei tuoi lavori sono presenti elementi prelevati dal quotidiano ricostruzioni di interni di abitazioni, tappeti, vasi, bottiglie di vetro che tu distruggi e poi ricostruisci.
Gli oggetti più semplici e comuni sono alla portata di tutti e spesso sono i più utili, ognuno di noi sa come adoperarli e non sono pieni di significati ma puoi riempirli di ricordi, momenti in cui li associ a qualcosa. Talvolta ci sembrano banali, ma solo perché li abbiamo a disposizione tutti i giorni. Ogni cosa può diventare altro e altro nell’altro da noi. Trovo interessante utilizzare oggetti che sono presenti nella nostra quotidianità, interromperne il funzionamento e farli diventare altro. Penso alla mia serie Carpet, tappeti orientali che rivivono una seconda vita nel momento in cui brucio delle semplici frasi, poche parole pronunciate da un politico occidentale. Si crea questo scontro/ incontro fra due culture diverse, ma soprattutto adoperano lo stesso oggetto in modo diverso. La mia incisione a fuoco violenta la superficie del tappeto e lo porta ad un livello diverso da quello conviviale religioso, lo trasforma in un tabloid in cui spiccano degli slogan politici.
Che valore ha per te la materia e il suo divenire?
La materia è ciò di cui son fatte le cose, è fondamentale, perché ha una struttura che può attrarti o respingerti. Io non amo la carta e le matite, i pennarelli, non mi piacciono al tatto, e il rumore che si crea quando li utilizzo. Non disegno mai, semmai con la penna a biro. Talvolta mi chiedono di presentare dei progetti, degli schizzi. Io faccio direttamente il lavoro e mando la foto. Ogni materia può diventare soggetto e oggetto del mio procedimento artistico, una sorta di rigattiere del presente. Prelevo cose e le trasformo, ma non in modo “duchampiano”, non elevo nessuna cosa ad opera d’arte. Eseguo un processo quasi maniacale, la distruggo, la ricostruisco e poi semmai la elevo a opera d’arte.
Ti interessa l’idea di messa in scena del lavoro?
Una componente quasi essenziale, soprattutto per chi fa sculture installazioni e performance. Il rischio è di diventare teatrale, caricare i lavori di troppa drammaticità, ma amo il lato oscuro delle cose. Nella mia serie Explosion costruisco dei veri e propri set teatrali, non lascio nulla al caso, sono ricostruzioni di ambienti borghesi, anni Settanta, ricordano le vecchie case tradizionali di un ceto medio in cui le pareti delle case erano rivestite da damascate carte da parati. Descrivo momenti familiari di pura convivialità: pranzi di famiglia, cena di Natale, ora del tè o piuttosto vuote camere da letto. Questi ambienti sono sempre vuoti, come in attesa che arrivi qualcuno, non c’è mai presenza umana. Improvvisamente succede qualcosa, un’esplosione e degli oggetti saltano in aria, qualcosa si brucia, fumo dappertutto. Io raccolgo le macerie e le sistemo, cerco di rimetterle nella loro posizione originaria, incollo i pezzi, riordino. Tutta la scena puzza di bruciato, denuncia l’avvenuto, ma a un occhio superficiale sembra che non sia successo nulla. Non c’è pentimento, non rimetto assieme le cose perché l’accaduto provoca in me un bisogno di ordine, piuttosto si innesca qualcosa di meccanico simile a una ripetizione maniacale da serial killer. Non c’è possibilità di guarire del tutto alcune ferite quindi cerco di tamponarle perché non voglio che spariscano. Perché cancellare il segno?
Quando lavori ad una mostra in cui presenti più lavori in che modo tendi a pensarla?
Quando lavoro ad una mostra, sviluppo sempre un progetto, non è rilevante che le opere siano riconoscibili formalmente alle precedenti o l’una all’altra, piuttosto che assecondino il pensiero che anima quel progetto. Utilizzo tutte le tecniche e tutti i materiali, e anche contemporaneamente, creando talvolta confusione in uno spettatore che non conosce il mio lavoro, ma c’è sempre un solo pensiero che li lega. La componente performativa è sempre presente, o in forma di video che documenti qualcosa o in presenza, ma sono sempre collegate. Nel mio ultimo lavoro della serie Victory, ho realizzato un intervento in un campo da rugby, una enorme scritta “VICTORY”, di quasi 50 metri, costituita dallo stesso prato che ho fatto crescere più alto per circa un mese. La giovanile della squadra Benetton rugby ha disputato una amichevole, volevo che si calpestasse questa “VITTORIA”, che non ci fosse nessun vincitore e che infine a metà video tutto diventasse cupo, il colore cede al bianco e nero e i loro movimenti sono più simili ad una marcia di guerra che a una partita. Il video è proiettato in un muro dello spazio di Villa Rospigliosi e nella stanza accanto c’è una grande scritta “VICTORY” poggiata per terra composta da prato. Durante l’inaugurazione ho indossato delle suole di ferro con dei tacchetti di ferro alti 12 centimetri, una variazione della scarpa originale da rugby, e ho marciato, e calpestato la scritta. La performance si intitolava: How to make my Victory. La mia idea di Vittoria coincide con una sconfitta a metà.
Che idea hai del corpo e che ruolo ha in quello che fai?
Si possono raccontare cose che non si conoscono solo perché si possono immaginare. Gli artisti parlano di sé stessi e immaginano qualcosa che non c’è, ma partono sempre da sé stessi. Il mio corpo è la sede dei miei movimenti, accadimenti e pensieri. Il mio corpo è fondamentale nel mio lavoro, è la misura di ogni cosa, che non significa che debba esserci in presenza, ma che determina la struttura dell’opera, la dimensione. Subito dopo gli studi accademici, ho iniziato un percorso che ancora è in divenire, non ho mai smesso di fare delle performance, e questo credo che sia in relazione alla verità dell’esserci, come se testimoniassi che io esista davvero e che possa mettermi alla prova solo finché il mio corpo sia in grado di farlo. Non c’è mai preparazione a questo, non provo mai le performance prima, diciamo che è impossibile, è solo una prova di forza con me stessa, una dimostrazione che finché c’è il mio corpo io sono viva e posso fare a meno dell’opera, anzi spesso la realizzo mentre eseguo la performance. In Capitonné Skin Wall, tutta dipinta di nero, mi lancio contro una parete rivestita di carta, lasciando delle impronte. I fogli di carta diventano i cartamodelli utilizzati per incidere dei lunghi tagli su grandi pelli colore del mio incarnato. Ogni mio segno sulla parete diventa un pannello imbottito in cui sembra che un corpo tenti di uscirne. Il Capitonné è una tecnica di sutura degli organi e non potevo trovare titolo più adatto. Perché metto alla prova così il mio corpo? Non lo so, ma credo c’entri quella relazione con la realtà e la finzione. L’opera è sempre e solo finzione? Io voglio che ci sia un rapporto con la realtà e che sia vera. Durante le performance mi capita di farmi male per due motivi, il primo è perché compio azioni spesso violente o forti ma il secondo è più importante, voglio che sia vero, non che sembri vero. Se mi lancio con forza contro un muro mi provocherò del dolore, se cado mi farà male in qualche parte del mio corpo. Non posso fingere che mi faccia male, perché non sembrerebbe vero. Perché fare questo genere di azioni e farle fingendo di fare qualcosa? Le esplosioni? Sono vere esplosioni, c’è materiale esplosivo innescato, non so mai cosa succeda nel dettaglio ma so che esploderà e so come lo farà ed è certo che qualcosa si romperà. Se la materia viene sottoposta a dure prove, qualcosa succede.
Ci sono dei luoghi che prediligi per le tue performance?
I luoghi dove sono invitata sono i luoghi della performance. Un amico molto caro, un bravissimo critico, mi disse tempo fa: la performance non è teatro, non è recitazione. Mi adeguo al posto nel quale sono al momento, senza musica. La performance deve funzionare nella sua esecuzione privandosi di quegli effetti legati al cinema o al teatro. Spesso la musica tende a diventare una sorta di colonna sonora in alcune performance, provocando un effetto edulcorante che toglie forza all’azione in sé. Nelle Creative Executions, una serie di azioni in cui faccio esplodere dei vasi di argilla fresca, l’unico suono, l’unica azione è l’esplosione congelata nel momento dello scoppio, poi il fumo e ciò che resta, dei semplici cilindri di argilla da cuocere. Le sculture in terracotta testimoniano fedelmente l’accaduto, nella superfice liscia dei vasi si aprono dei varchi, la materia è sfrangiata, portata all’estremo della sua resistenza, sembra che l’azione dell’esplosione si sia fissata in quelle forme.
Ti interessa l’idea di precarietà?
La precarietà è il mio mantra, se non mi crolla il terreno sotto i piedi, mi sposto verso una località sismica. Il luogo dove nasci e dove hai passato parte della tua vita, segna il modo di percepire le cose. Io sono nata a Catania, vissuta gran parte della mia esistenza ai piedi di un Vulcano attivo, l’Etna, e d’estate, da quando ho compiuto un anno, passo alcuni mesi a Vulcano nelle Isole Eolie dove ho una piccola casa. Circondata da zolfo, perenni cadute di sabbia legate alle esplosioni del vulcano, sento che il mondo sottostante è in continua evoluzione, come se nulla fosse mai definito nella sua forma. Capisci quanto la conformazione geologica possa alimentare i miei processi creativi? Nella recente mostra Crossing the line, a Villa Rospigliosi a Prato, ho realizzato un pavimento di mattonelle di cemento che poggiano su colli di bottiglia rotti di diverse altezze, in questo modo ogni singolo pezzo ha una sua inclinazione e altezza, accostandole la superficie è irregolare sembra che qualcosa sia successo nella parte sottostante, simile a un movimento sismico, o all’esplosione di qualcosa. Ho collocato anche dei faretti sotto il pavimento, mi piaceva pensare che la superficie di questo lavoro sembrasse come sospesa, come se una vita si nascondesse, germogliasse da questa distruzione. Credo che nessuno dei miei lavori goda di ottima salute statica, sono tutti stati sottoposti, come me, a dure prove di sopravvivenza. Sono forti però, esprimono quella vulnerabilità ma anche fierezza nel restare in piedi.
Spesso il tuo lavoro sembra basarsi sulla logica del contrasto: attrazione, repulsione-sensuale, tagliente- forte, fragile è una dimensione in qui ti riconosci?
Ho intitolato l’ultimo mio catalogo/libro monografico Strong and Fragile. Nell’edizione ho pubblicato solo i miei ultimi lavori, suddividendoli per materiali. Credo che l’utilizzo di un materiale piuttosto che un altro dipenda, personalmente, proprio dalla sua capacità di rappresentare qualcosa ed esserne un’altra. Il vetro è fragile, ma se rompi una bottiglia il collo si può trasformare in un’arma, impropria, pericolosa, trasparente, aguzza. Ho impilato migliaia di colli di bottiglia nelle mie opere. Alla Centrale di Bruxelles ho esposto un’opera, Glass Gate, in cui migliaia di colli di bottiglia creano come una parete invalicabile di vetro, interrotta solo da un segno che l’attraversa. Le luci irradiano le forme sulle pareti circostanti creando un disegno simile ad una intricata foresta/prigione. Questa è la prova che la bellezza possa essere in ogni cosa, anche in un banale collo di bottiglia. La ceramica è fragilissima e io la porto all’estremo della sua resistenza plastica durante le esplosioni ma è anche vero che i più antichi reperti storici delle civiltà che ci hanno preceduto sono costituiti da ceramiche, ci sono da secoli e sono irriducibili, resisteranno a tutto.
Spesso usi il video nei tuoi lavori sia per documentare le tue performance o come mezzo con una sua autonomia. Ti interessa la dimensione del racconto nel tuo lavoro?
Il racconto non è basilare nel mio lavoro. Utilizzo il video per documentare un’azione. Mi interessa fermare il processo di trasformazione del soggetto della mia performance. Ad esempio nelle “Explosion” costruisco delle scene di vita familiare per poi far esplodere degli oggetti e successivamente ricostruirli. Non è proprio un racconto, è un flusso vitale. In galleria o dentro un museo, il lavoro è esposto in modo tale che accanto alla ricostruzione del set ci sia la proiezione del video che vede la scena prima mentre e dopo l’esplosione, in un ripetersi ossessivo di costruzione e distruzione. In fondo la genesi dell’essere umano.
Che importanza ha per te la dimensione spazio temporale ?
Non saprei come risponderti, cioè non è così importante e quindi passo.
Ti interessa la dimensione feticista negli oggetti che usi?
Il feticismo nella sua accezione più torbida ha a che fare con la componente sessuale che è inesistente nel mio lavoro, quindi ti rispondo di no. Se poi vogliamo vedere l’aspetto religioso del feticismo, ti rispondo ancora no, non sono religiosa. Non carico l’oggetto di particolare importanza personale ma di valori più universali che appartengono a tutti. Ho utilizzato spesso il calco delle mie mani, ma credo rappresenti la parte più mobile e gestuale del nostro corpo, la vedo come qualcosa che fa parte del mondo del fare e quindi la interpreto in modo irriverente e spesso provocatori come in Nice to meet you, elegante scultura da camino.
Da dove nasce l’idea di Victory, un lavoro che porti avanti già da diversi anni con diverse declinazioni e in che modo si è sviluppato nel tempo?
Victory nasce nel 2015, in tv vedo una scena: un jihadista troneggiava su una colonna rotta nel tempio di Palmira e tiene una mano in alto in segno di vittoria. Questa parola è diventata iconica per me, l’ho declinata in forma scultorea con diversi materiali e anche impressa su velluti in cui sono rappresentate scene di dubbia vittoria ricavate bruciando i segni con un saldatore elettrico. Dalle prime sculture di marmo, in cui rompevo le lettere a colpi di martello per poi risistemarle alla grande scritta di cemento in un parco privato, passando dalla scultura a parete in cui la parola victory è scritta al contrario con colli di bottiglia.
Da qualche tempo fai spesso uso di colli di bottiglia rotti: da dove arrivano questi oggetti nel tuo lavoro?
Una bottiglia è solo un contenitore di vetro, ma se provi a romperla ti rimarrà in mano sempre e solo il collo, che immediatamente ti riporta alla guerriglia urbana, all’arma da difesa e attacco. Poi guardi i colli rotti e ne vedi la bellezza data dalla trasparenza e colorazione del vetro, le diverse sfaccettature, le punte acuminate. Anche questo poverissimo oggetto, se impilato in lunghe colonne, diventa minaccioso e attraente. Utilizzo i colli di bottiglia da diversi anni, ultimamente ho realizzato una lunga scala, di sei metri, Stairway to heaven, un’ascesa impraticabile.
Spesso ti è capitato di usare la ceramica :che cosa ti attira di questa materia?
Credo sia la sua plasticità quando è ancora cruda. Non ho mai modellato l’argilla, utilizzo questo materiale spesso a colaggio, come in FIST, dove diverse copie del mio pugno esplodono, anche in questo caso ogni mano si apre o si distrugge in modo diverso, per diventare a sua volta un’arma. Ho collocato i miei pugni esplosi su lunghi bastoni utilizzati per l’agricoltura, ne ho bruciata la superficie per renderli più resistenti. In Gold Heel, le impronte dei miei pugni e calci sono fissate sulla fresca e morbida superficie di un sacco da box, col quale combatto durante una performance in cui indosso degli alti tacchi oro. La performance si conclude nel momento in cui mi sfilo una scarpa e la conficco nel sacco.
Credi che l’arte abbia ancora una sua sacralità?
È il rapporto che l’artista ha con le sue creazioni ad avere una sua sacralità, l’euforia del pensiero appena accade la visione, l’ostinazione dell’artista a dargli una forma, la tensione fra il pensiero e quello che l’opera diventa, quello che diventa e che potrebbe ancora diventare, la nascita di altre opere che la susseguono. Questo è sacro. Quando esce dallo studio assume altri aspetti, come se si allontanasse con lo sguardo altrui, perde quel contatto privato che c’è tra chi genera e chi è generato, diventa altro e va per la sua strada. Io guardo i miei lavori con distacco, non posso amarli come nel momento della nascita, devo lasciarli indipendenti per avere un contatto con altro che sarà.
Quando non c’è nessuno che la osserva l’opera d’arte esiste secondo te?
Per me esiste sempre, c’è, c’è in me.
Dove ti poni nei confronti del tuo lavoro?
Non credo di potermi porre al di sopra o al di sotto, distante o vicina, forse dentro.
L'autore di questo articolo: Gabriele Landi
Gabriele Landi (Schaerbeek, Belgio, 1971), è un artista che lavora da tempo su una raffinata ricerca che indaga le forme dell'astrazione geometrica, sempre però con richiami alla realtà che lo circonda. Si occupa inoltre di didattica dell'arte moderna e contemporanea. Ha creato un format, Parola d'Artista, attraverso il quale approfondisce, con interviste e focus, il lavoro di suoi colleghi artisti e di critici. Diplomato all'Accademia di Belle Arti di Milano, vive e lavora in provincia di La Spezia.