Questa intervista a Jacqueline de Jong (Hengelo, 1939), una delle più importanti artiste donne contemporanee (fece parte dell’Internazionale Situazionista pubblicando la rivista “The Situationis Times”, collaborò col gruppo CoBrA e per decenni ha animato la scena artistica olandese e non soltanto) è stata realizzata da Juliette Desorgues ed è incentrata sulla cosiddetta “Série Noire” (1981), che l’artista ha esposto quest’anno ad Artissima a Torino con la galleria Dürst Britt & Mayhew dell’Aia. Ringraziamo Dürst Britt & Mayhew per la preziosa collaborazione che ci consente di proporre al pubblico italiano questa interessante intervista, nella traduzione di Ilaria Baratta ( da qui è possibile scaricare l’originale). A questo link potete trovare tutte le opere di Jacquline de Jong della galleria Dürst Britt & Mayhew.
Juliette Desorgues: Magari potremmo iniziare chiedendoLe cosa L’ha portata a lavorare sul tema di questi romanzi polizieschi francesi del dopoguerra, conosciuti anche come “Série Noire”, per questa serie di opere.
Jacqueline de Jong: Quando vivevo a Parigi [1960-1971, nda], leggevo la “Série Noire”. In ogni angolo della strada, c’era un chiosco dove si potevano comprare questi romanzi. Ad ogni modo, ho letto molti libri della “Série Noire”. In Italia avete i “gialli”. Ho amato moltissimo l’impostazione di questi libri, a quel tempo completamente privi d’immagini. Illustrarli è stata la principale sfida alla quale ho pensato. Non subito, ma anni dopo, molti anni dopo, ho comprato solamente qualche romanzo della “Série Noire”, ho letto i libri e ho realizzato i dipinti, nel mio stile bizzarro. È interpretazione. Alcuni tuttavia sono realtà. Ma allora perché non portare un po’ di realtà in alcuni di essi, come nel dipinto 30 maart 1981, che si riferisce all’attentato a Ronald Reagan?
Cosa Le ha incuriosito di questi libri?
Trovavo affascinante la storia stessa della “Série Noire”. Il fondatore della serie era attore, drammaturgo, traduttore e credo anche surrealista: Marcel Duhamel. Il suo editore, Gallimard, rappresentava una delle più grandi case editrici francesi ed era molto intellettuale. Ha pubblicato, per fare un esempio, la serie “La Bibliothèque de la Pléiade”, una collana di classici della letteratura mondiale. Ma questa serie di libri (la Série Noire) era estremamente popolare. Tutti per strada leggevano la “Série Noire”. Invece di essere riservata agli intellettuali, era l’opposto. Duhamel era un avanguardista – specialmente se si pensa ai suoi copioni cinematografici – che aveva deciso di avere i romanzi polizieschi anglosassoni o americani tradotti in francese appena dopo la guerra! Ad iniziare dal 1945 con la sua traduzione dell’opera dello scrittore inglese Peter Cheney [La Môme Vert-de-gris e Cet homme est dangereux, nda].
È piuttosto ironico se si pensa a quanto intellettuale sia Gallimard come casa editrice.
È molto ironico e anche ingegnoso! Boris Vian ha tradotto davvero alcuni romanzi della “Série Noire”.
Sono interessata al contesto artistico in cui Lei ha lavorato, alla fine degli anni Settanta e Ottanta quando stava realizzando queste opere. Prima, Lei faceva parte dell’Internazionale Situazionista e dell’espressionismo, ma fu anche vicina al Gruppe SPUR e al movimento Fluxus. Mi chiedevo, con quali altri movimenti artistici sentiva un’affinità a quel tempo?
Appartenevo soprattutto al movimento della Nouvelle Figuration, che a sua volta era influenzato dagli artisti della Figurazione Libera in Francia, emersi a quel tempo. Ero vicina a persone come Eduardo Arroyo e a molti membri della Nouvelle Figuration. Ero anche influenzata dal pittore Peter Saul. Ovviamente sono sempre stata interessata alle opere di altre persone. Ho lasciato Parigi intorno al 1971. Non ho lasciato immediatamente la Francia, perché non volevo lasciare Parigi, così l’ho lasciata poco alla volta e ho voluto portare artisti che avevo conosciuto in Francia e in Germania ecc. a esporre in Olanda. Ma è stato difficile. Tuttavia una o due gallerie li hanno esposti.
E con l’arte di altri artisti degli ultimi anni Settanta e Ottanta, come Enzo Cucchi, provenienti dal gruppo neo-espressionista italiano della Transavanguardia? Aveva qualche affinità anche con le loro opere ad esempio?
Senz’altro sì. C’è molta somiglianza. Le persone si influenzano le une con le altre. Ma Lei lo sa, sono un’autodidatta, dato che non ho frequentato l’Accademia. Perciò per me era una sorta di sfida creare dipinti figurativi a quel tempo. Mi piacciono le sfide, ma era un po’ rischioso. Per esempio, in questa particolare opera, La Clique au Bassin [1981, nda], penso di essere sfociata un po’ troppo nel surrealismo.
Jacqueline de Jong, 30 maart 1981 (1981; olio su tela, 120 × 90 cm; L’Aia, Dürst Britt & Mayhew). Courtesy Dürst Britt & Mayhew. |
Jacqueline de Jong, La clique au bassin (1981; olio su tela, 86 × 105 cm; L’Aia, Dürst Britt & Mayhew) |
È interessante che Lei lo dica. Quest’opera per me è proprio la chiave di tutta la serie, nel senso che sono presenti elementi che si ritrovano nella Sua arte – lo stoicismo e la nitidezza della composizione e del colore sono disturbati dal movimento della mano. Come se esitasse tra l’espressionismo degli inizi della Sua carriera e il realismo che sta esplorando in questo periodo.
Sì, certamente.
C’è molta varietà di stile in questo periodo, forse più che in qualsiasi altro: questo è ciò che rende interessante la serie, credo.
Oh, davvero? Non confonde?
Per niente. C’è anche una successione molto chiara, a partire dalla serie “Billiard” che ha realizzato negli ultimi anni Settanta, nella quale ha anche sperimentato la pittura figurativa realista.
Sì. Elvis (3 generations) [1978, nda] è in un certo senso una transizione alla “Série Noire”. Ma sicuramente nella serie “Billiard” ho cominciato ad essere figurativa e quella era una sfida.
Con la serie “Billiard” si nota un evidente passaggio verso una forma di pittura più iperrealista, magari legata ai voleri di Gerhard Richter, facendo un confronto con le Sue opere precedenti.
Sì, senz’altro. Lei sa che questo tipo di dipinti figurativi mi ha affascinato di più perché non ero in grado di realizzarli in maniera appropriata. Allora semplicemente ci ho provato.
Quindi cosa l’ha spinta verso questa particolare direzione?
Bene, in un certo senso è piuttosto semplice. Stavo creando flipper in uno stile molto figurativo, e stavo anche lavorando con grafiche figurative. Poi, Hans Brinkman, il mio compagno, giocava sempre a biliardo, e ciò mi ha condotto a questa serie. Più semplice di così...
Un’altra opera che spicca tra la “Série Noire” è Magic (1981), una pistola rosa warholiana.
Sì, ma era uno scherzo. Stavo scherzando con il tipografo, e così ho detto “facciamo una pistola”. Non ricordo per quale motivo l’ho chiamata Magic. Avevo probabilmente comprato una piccola pistola, di plastica, chiamata Magic. La pistola magica è ovviamente un oggetto erotico. È una serigrafia che non è stata commissionata veramente, ma solo realizzata come scherzo al tipografo. Poi ha cominciato a piacere alle persone. Ci siamo divertiti a realizzarla. Questo è tutto.
Ecco perché la considero in un certo senso la chiave di tutto, perché sembra accennare alcuni dei temi cruciali interconnessi nella Sua arte, come la violenza, l’erotismo e lo humour.
Certo. Credo di averli utilizzati fin dall’inizio. Forse è il mio lato teatrale. Probabilmente solo per salvare me stessa o qualcosa. Un modo per introdurre un po’ di humour nell’arte, per essere un po’ ironica. Dico sempre che se si volesse riconoscere i miei dipinti, basterebbe cercare gli occhi. Come gli uccelli che sbirciano in alcuni dei miei piccoli dipinti. Tuttavia non c’è un vero teatro, credo.
Il teatro allora è sempre minato dallo humour.
Lo spero e che continui ad esserlo nella “Série Noire”.
Lei gioca con questo anche nei titoli dei suoi dipinti. Ce ne sono spesso di molto umoristici, come Quasy Modo e Queen Kong [1981, nda].
Sì, assolutamente. I titoli sono molto importanti. Sebbene alcuni non siano miei. Alcuni provengono dai libri.
Il testo è infatti la chiave di questa serie di opere. Le copertine dei libri originali sono in bianco e nero e senza illustrazioni. Ma Lei attraverso il colore traduce il testo su tela.
Sì e ciò veramente ci conduce ai Situazionisti, perché i manifesti situazionisti dal 1968 sono simili a copertine dei libri. Sono senza immagini. Sono in bianco e nero e tipografici. I manifesti che ho realizzato dal 1968 contengono immagini molto colorate. Sono assolutamente l’opposto.
Mi incuriosisce anche l’idea che il romanzo poliziesco sia la quintessenza dello storytelling e della narrazione, dove c’è una rappresentazione del tempo molto chiara e lineare che segue lo schema causa-effetto, e ancora una volta sta completamente andando contro questo nei suoi dipinti. I primi piani e gli sfondi spariscono completamente. Le figure fluttuano sulle tele. Non c’è contesto.
Certamente sì. C’è invenzione nei miei dipinti. Ma alcuni trattano di crimini reali commissionati, come in Le professeur Althusser en étranglant Nina K (1981). Althusser era un professore marxista che aveva ucciso sua moglie. Nello stesso giorno, Nina Kandinsky era stata uccisa da un ladro che le aveva rubato la sua valigetta con i gioielli. Perciò c’è proprio narrazione.
Sì, infatti, ma Lei ha anche preso queste due narrazioni e le ha fuse attraverso la Sua propria interpretazione e immaginazione in questo particolare dipinto.
Sì, il dipinto Matt Helm sans guitar [1980, nda] si riferisce veramente al film di Roman Polanski Chinatown [1974, nda]. La figura indossa un trench, l’indumento da detective per antonomasia.
In Bleu Black Noir (1981), forse il più raccapricciante dipinto della serie, le figure sembrano uccidersi a vicenda in un ascensore. Da dove ha origine ciò?
No, niente è preso da niente! O qualsiasi cosa è presa da niente?
Questo è stato a dire il vero un filo comune nella Sua arte. Un senso di continua reinvenzione. E forse questo è allora un punto adatto con cui concludere!
Jacqueline de Jong insieme a Magic. Courtesy Dürst Britt & Mayhew. |
Jacqueline de Jong, Quasy Modo and Queen Kong (1981; serigrafia su carta giapponese, 121,9 × 81,3 cm; L’Aia, Dürst Britt & Mayhew). Courtesy Dürst Britt & Mayhew. |
Jacqueline de Jong, Le professeur Althusser en étranglant Nina K (1981; olio su tela) |
Juliette Desorgues è una curatrice, scrittrice e editrice indipendente, che vive e lavora tra Regno Unito e Francia. In precedenza ha lavorato come curatore associato all’Institute of Contemporary Arts di Londra, dove ha curato diversi eventi, commissioni ed esposizioni, come “in formation” (2017), ”Helen Johnson: Warm Ties” (2017), “The Things that Make you Sick: Lorain Leeson and Peter Dunn” (2017), “Everything is Architecture: Bau Magazine from the 60s and 70s” (2014), “Bloomberg New Contemporaries” (2016 e 2015), “Yuri Pattison: mute conversation”(2014). Prima ancora, Desorgues è stata curatrice presso la Barbican Art Gallery, a Londra, e Generali Foundation, a Vienna.
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.