Chiara Lecca (Modigliana, 1977) si è diplomata nel 2005 in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna e nel 2008 prende parte alle residenze della Fondazione Spinola Banna per l’Arte di Torino. Focalizza la sua ricerca sulla relazione tra uomo e natura per farne emergere la frattura operata dalla società contemporanea. L’elemento animale, in particolare, diventa materia per un processo di alterazione semiotica. Vive e lavora a Modigliana.
Sue mostre personali si sono tenute in diversi musei pubblici e privati tra cui il Museo Bagatti Valsecchi di Milano nel 2024, le Collezioni Comunali D’Arte di Bologna per Art City Polis 2017 e nello stesso anno il Museo Carlo Zauli di Faenza, la Fondazione Ghisla Art Collection di Locarno in Svizzera nel 2016, il Naturkundemuseum Ottoneum di Kassel in Germania nel 2015, il MAR Museo d’Arte della Città di Ravenna nel 2010. Ha esposto le sue opere in numerosi musei pubblici e gallerie private in Italia ed Europa tra cui il Museo MAN di Nuoro nel 2024, Galleria Fumagalli di Milano nel 2023, Monitor Gallery Pereto AQ nel 2021, il Vestfossen Kunstlaboratorium in Norvegia nel 2018, il Schloss Ambras Innsbruck in Austria, il Museum Schloss Moyland in Germania e Castle Gaasbeek in Belgio nel 2016, il Museo Poldi Pezzoli, Gallerie d’Italia e Villa Necchi Campiglio a Milano nel 2013, il MIC di Faenza nel 2015, 2013 e 2012, lo Spazio Thetis di Venezia nel 2011, il Kunst Meran/o Arte nel 2009. Nel 2019 è invitata alla project room MACRO Asilo del Museo MACRO di Roma e nel 2016 espone a Palazzo Reale Milano con l’opera Dark Still Life come finalista al XVII Premio Cairo. Il suo lavoro è stato presentato in varie istituzioni italiane ed europee come l’Istituto Italiano di Cultura di Madrid nel 2018 e la contea di Kassel in occasione dell’European Art Camp EUARCA 2012.
Sue opere sono presenti in collezioni pubbliche e private quali, tra le altre, Palazzo della Contea di Kassel (Germania), Naturkundemuseum Ottoneum, Kassel (Germania), Mus.t Museo Settore Territorio (Faenza), Fondazione Ghisla Art Collection (Svizzera), Kunst Meran/o Arte (Merano). Dal 2008 collabora con Galleria Fumagalli Milano, anno della sua mostra personale presso la sede di Bergamo. Nel 2020 fonda il Collettivo Clarulecis. In questa conversazione con Gabriele Landi, ci racconta la sua arte.
GL. Spesso succede che il lavoro di un’artista affondi le sue radici nella mitica età dell’infanzia: è così anche per te?
CL: Ti confermo che è così anche per me, penso che il periodo dell’infanzia possa essere considerato l’unico lasso di tempo in cui affrontiamo il mondo con uno sguardo atavico, dove tutti i parametri dati dalla società in cui passeremo il resto della nostra vita non sono ancora formati. Definirei l’età dell’infanzia come quella delle grandi paure e delle grandi meraviglie. Questi sono i motivi per cui la trovo così affascinante, non solo come artista ma come persona. Ho trascorso la mia infanzia sugli Appennini romagnoli, nella tenuta agricola di famiglia – dove tuttora vivo – e di quel periodo conservo ricordi preziosissimi. Come ad esempio l’assaporare il senso di libertà, di scoperta: passavo intere giornate ad esplorare i territori e creare nuove avventure assieme a mio fratello e ai miei cugini, attorno a noi non c’erano cancelli o recinzioni per cui la sensazione era quella di poter raggiungere qualunque luogo potessimo immaginare. Gli odori anche erano un fattore importante, dai più sublimi a quelli nauseabondi, tutti sono rimasti nella mia memoria. C’era poi – e c’è tuttora – il gregge: interagivo quindi allo stesso tempo con il mondo animale e vegetale, oltre che con quello umano. Avendo a che fare con gli animali, tutti gli aspetti legati alla nascita, all’accudimento e alla morte degli esseri viventi scandivano le mie giornate. Posso considerare queste dinamiche come un’eredità che mi lascia la mia famiglia paterna – da più generazioni dedita alla pastorizia – dove i cicli della vita sono legati a quelli della natura. Tutti questi aspetti credo abbiano contribuito a creare il mio immaginario di oggi.
Hai avuto un “primo amore” artistico?
Non ricordo un vero primo amore artistico, ricordo però una vignetta in un libro di compiti estivi delle elementari dove veniva richiesto di disegnare ciò che avremmo desiderato fare da grandi e io lo riempii con un grande mazzo di fiori.
All’epoca disegnavi dipingevi... ? Quando e come sei entrata in contatto con l’espressione della tua creatività?
Da piccola disegnavo davvero tantissimo, anche perché mi riusciva bene, inoltre amavo assemblare i materiali che trovavo dentro e fuori casa: costruivo un po’ di tutto, dai collages più assurdi, ai piccoli oggetti fino a rocambolesche architetture in cui potermi nascondere. Mia madre ha studiato all’Istituto d’Arte per la Ceramica di Faenza per cui anche il mondo creativo è stato filo conduttore della mia infanzia. Ho poi sviluppato un linguaggio più definito durante gli anni dell’ Accademia di Belle Arti che ho frequentato a Bologna. A quel periodo risalgono infatti i primi esperimenti con materie organiche, nati durante le lezioni di Anatomia Artistica e Pittura, perché sentivo la necessità di parlare della realtà che conoscevo meglio, a filo diretto con il mondo in cui sono cresciuta. Tutti noi veniamo al mondo con dei punti di partenza che non possiamo ignorare. All’epoca ancora non sapevo come conservare i materiali organici così ero solita riporre i miei piccoli assemblaggi nel freezer di casa e trasportarli al bisogno con una piccola borsa frigo.
Come si presentavano questi assemblaggi?
Assemblavo principalmente parti organiche di origine animale a oggetti d’uso, in verità non dista molto da quello che faccio tuttora, ma all’epoca ero decisamente più irriverente. Uno dei miei primi lavori consisteva in un cerchietto a pois per capelli su cui avevo cucito orecchie suine, il tutto racchiuso in un blister a mo’ di oggetto commerciale, era il 2003 e il lavoro si intitola “Pocket Ears”
Durante gli anni della tua formazione ci sono stati degli incontri che hanno lasciato il segno?
Mia madre e la sua poetica. E sicuramente la mia insegnante di Anatomia Artistica che ha sostenuto e incoraggiato le mie prime sperimentazioni con materiali organici. Un incontro importante è stato poi quello con Annamaria Maggi, che nel 2006 ha scommesso su una perfetta sconosciuta fresca di Accademia e mi ha accolto tra gli artisti della sua galleria: la Fumagalli. All’epoca con sede a Bergamo, ora a Milano. La nostra collaborazione continua tuttora. E siccome penso che gli anni di formazione non finiscano mai, aggiungo l’incontro nel 2014 con Jannis Kounellis e con il suo pensiero, così potente ed estremo.
Ha mai avuto importanza in quello che fai l’aspetto alchemico? Mi viene in mente il Principe di San Severo ed i suoi esperimenti sulla trasformazione della materia organica...
In verità non ha mai avuto molta importanza, sono una persona piuttosto pratica, i processi che utilizzo sulla materia organica sono principalmente un mezzo e difficilmente un fine. Certamente però personaggi come Raimondo di Sangro sono interessantissimi, come anche le antiche wunderkammer e tutto il loro potere immaginifico. Probabilmente in quello che faccio ha più importanza l’aspetto legato alla trasformazione della materia, come può essere quello connesso alla conservazione dei cibi nel tempo.
Mi piacerebbe chiederti di parlare più diffusamente della tua idea di tempo e dell’idea di trasformazione.
L’istinto mi guida verso i materiali ma il tempo fa sì che essi si trasformino in linguaggio. Il tempo è infatti un fattore determinante nella mia ricerca che necessita di tempistiche dilatate. L’opera Lapped Rocks (2017) è emblematica sotto questo punto di vista: è composta da blocchi di mangime minerale impilati fino a formare una piccola architettura. Questo tipo di mangime viene assunto dal bestiame in stalla per attingere all’apporto di sali minerali. L’elemento cardine è il tempo di stasi dei blocchi con l’animale e il mio ruolo è stato quello di ponderare questo tempo mentre l’animale ne plasmava involontariamente la forma leccandoli. Trovo che il lungo processo di realizzazione di un’opera sia importante quanto il risultato finale perché serve a scandire gli impulsi che le hanno dato vita. E questo si riflette direttamente sulla lettura del lavoro finito, che ha bisogno di più sguardi, più livelli di riflessione, di tempi prolungati. In realtà la mia priorità non sta nel fatto che l’opera possa essere immediatamente letta, piuttosto mi interessa creare uno stato di tensione. Questo porta chi ne fruisce a tenerlo con sé anche dopo l’esperienza visiva, comporta domande e provoca il desiderio di una riflessione più profonda.
In quello che fai ha importanza l’idea di mettere in scena?
Quello che mi interessa è tradurre fragilità interiori in qualcosa di reale, fisico. Si tratta di sensazioni difficilmente riassumibili in parole, mentre la materia le rende concrete e soprattutto condivisibili. Si tratta quindi di un modo per tradurre la realtà. Mi viene in mente Kounellis e il suo desiderio di tradurre la realtà nel modo più estremo. Per questo l’idea di mettere in scena ha sicuramente importanza ed è la conseguenza di un processo intimo e personale, è l’ultima scena di un dialogo interiore nato molto prima. Posso descriverlo come il tentativo di restituire le tragedie – intese come i punti irrisolti del nostro vivere – su un palcoscenico dettato dalla società in cui viviamo. E chi ne fruisce completa l’opera.
Puoi parlare più diffusamente della relazione fra il tuo lavoro e il pubblico che viene a vederlo?
L’artista con il suo lavoro può raggiungere solo un certo punto, è come se stesse costruendo un ponte a metà, l’altra parte spetta a chi viene a contatto con l’opera, in questo modo si costruisce una relazione. Con l’arte butti fuori mondi che ti appartengono ma che in qualche modo possono essere affini a quelli dello spettatore: la magia avviene nel momento in cui il fruitore ritrova la propria personale connessione con questi mondi.
Che idea hai della natura?
La natura è parte di noi, noi stessi siamo natura organica ma siamo così distratti o egocentrici che tendiamo a dimenticarlo. Provo spesso con la mia ricerca a indagare questo aspetto. Tento di guardare al nostro passato evolutivo, che ha radici nel mondo naturale, i cui archetipi si proiettano fino a noi nel tempo presente, e nello stesso modo, alla nostra società nel suo divenire. La natura è sicuramente fonte di ispirazione per tutto il mio lavoro. Trovo l’antropocentrismo asfissiante, se paragonato all’ampiezza della terra e degli esseri viventi che lo popolano.
Nel tuo lavoro il cortocircuito fra attrazione e repulsione che ruolo gioca?
Ha sicuramente un ruolo primario: cosa ci repelle? Cosa ci attira? È possibile provare questi due sentimenti contemporaneamente? Penso di sì e quando ciò accade le nostre sicurezze si incrinano e si possono creare frangenti di discussione. Ricordo che durante la mostra A fior di pelle alle Collezioni Comunali di Palazzo d’Accursio a Bologna nel 2017 il pubblico era fortemente attratto dai grandi mazzi di fiori, gli Still Life. Erano attrattivi perché allestiti in sintonia con gli arredi barocchi dello spazio. Ma in seguito ad uno sguardo più attento l’attenzione passava sul procedimento e i materiali di realizzazione: questo sentimento di attrazione e repulsione era molto evidente. Curo molto l’aspetto formale perché la forma armonica ci attira e ci mette a nostro agio, questo aspetto può diventare il lasciapassare per aprire una riflessione. Lo vediamo anche in natura: spesso gli esseri viventi più attraenti sono anche i più temibili.
La dimensione immaginifica si lega anche ad un aspetto narrativo?
Direi di sì, l’aspetto narrativo è importante. Come un romanzo in perenne evoluzione a cui aggiungere un nuovo tassello per ogni capitolo. Si percepisce il contenuto facendo scorrere la narrazione. Tutta la mia ricerca può essere vista come una continua narrazione che perdura da diversi anni.
Esiste anche un lato ironico in quello che fai?
Diciamo che una sfumatura ironica mi accompagna fin dall’inizio. In alcuni lavori è latente, in altri palese ma in linea di massima è sempre presente. Si tratta di un modo per innescare la narrazione, oppure, come fosse una catapulta, la uso per arrivare ad un punto di vista imprevisto, è sicuramente utile per parlare di aspetti scomodi. L’ironia poi è sopravvivenza, nell’arte come nella vita.
Che importanza hanno i titoli dei lavori per te?
Spesso aggiungono un’ulteriore tassello di lettura dell’opera, alle volte la rendono ancora più criptica, altre volte ancora, sono indispensabili per la giusta comprensione. Do molta importanza ai titoli, sono anch’essi parte del lavoro.
Il disegno è una pratica che frequenti? Che importanza e che ruolo ha in quello che fai?
Come accennavo, da piccola disegnavo moltissimo, in questo periodo la frequento meno ma è comunque importante perché necessario nel momento in cui devo fissare nuove idee o nuovi progetti. Disegnando un qualcosa riesci a fissarne i dettagli sulla carta e allo stesso tempo nella mente.
Esiste nel tuo lavoro una tensione spirituale?
Esiste la tensione legata alla creazione e alla trasformazione della materia. La materia intesa come portatrice di un’energia intrinseca. Qualsiasi opera ben riuscita poi possiede una sua aurea autonoma e nuova, dove vale la legge secondo cui il tutto è maggiore della somma dei singoli elementi che la compongono.
Che idea hai della morte e come ti relazioni con essa?
La morte è un concetto complesso, è un tema che ha affascinato e spaventato l’umanità per secoli. È un evento inevitabile, ma la sua comprensione varia ampiamente a seconda delle culture, delle religioni e delle esperienze personali. Sicuramente è parte della vita di tutti, la cosa più difficile da concepire sta proprio nel fatto che possiamo solamente narrarla da spettatori e non da protagonisti. La morte – e la nascita – degli esseri viventi sono componenti del mio vissuto ed eredità del mio passato. Nel mio lavoro metto in scena la morte né più né meno di quanto essa stessa sia presente nella società contemporanea, la differenza sta nel modo in cui la “racconto”. Come relazionarsi con essa è una domanda che mi pongo in primis io stessa e per questo sento l’esigenza farla diventare parte dell’opera.
In che posizione ti poni nei confronti del tuo lavoro?
Nel momento in cui un lavoro è davvero compiuto diventa altro da me ed è capace di una sua vita autonoma, io esco dalla sua aurea. Se nasce come custode delle mie fragilità, una volta concluso può farsi custode delle fragilità di ognuno.
L'autore di questo articolo: Gabriele Landi
Gabriele Landi (Schaerbeek, Belgio, 1971), è un artista che lavora da tempo su una raffinata ricerca che indaga le forme dell'astrazione geometrica, sempre però con richiami alla realtà che lo circonda. Si occupa inoltre di didattica dell'arte moderna e contemporanea. Ha creato un format, Parola d'Artista, attraverso il quale approfondisce, con interviste e focus, il lavoro di suoi colleghi artisti e di critici. Diplomato all'Accademia di Belle Arti di Milano, vive e lavora in provincia di La Spezia.