Come stanno i musei italiani? Qual è il futuro del piano delle gratuità recentemente introdotto? Quali sono i principali problemi su cui interverrà la prossima riforma del Ministero dei Beni Culturali? Sul problema del volontariato utilizzato come surrogato del lavoro quali misure sono allo studio? In quest’intervista, il ministro Alberto Bonisoli ci parla del futuro prossimo dei musei italiani, illustrando alcune delle azioni che il Ministero desidera intraprendere per risolvere le urgenze. Intervista a cura di Federico Giannini, direttore responsabile di Finestre sull’Arte.
Il ministro dei beni culturali Alberto Bonisoli |
FG. Cominciamo con i risultati positivi: il piano delle gratuità. Dopo la “Settimana dei Musei” abbiamo raccolto i pareri di tutti i principali musei statali, e tutti si sono espressi in maniera favorevole nei confronti dell’iniziativa. La domanda quindi è: il piano delle gratuità rimarrà tale?
AB. Una delle ragioni per cui abbiamo compiuto un’evoluzione rispetto alle domeniche gratuite tout court era per dare un po’ di ossigeno ai siti che avevano problemi di sovraffollamento (i grandi: Colosseo, Uffizi e altri), soprattutto in periodo estivo. Il mio obiettivo è di passare ad almeno trenta aperture gratuite, quindi aggiungerne un terzo in più rispetto a quelle che abbiamo. Molto probabilmente useremo uno schema simile a quello attuale: una parte potrebbe essere indicata centralmente (fondamentalmente un’altra settimana, magari nel periodo autunnale, per valorizzare il museo di vicinanza, il museo di prossimità, per dare la possibilità ai cittadini, durante un grande arco di tempo, di poter visitare liberamente quello che hanno dietro l’angolo), e poi ulteriori giornate gratuite che ogni direttore di museo deciderà come utilizzare, incluse le fasce serali.
Probabilmente un buon inizio, ma c’è molto altro da fare per allineare i nostri musei al resto d’Europa, dove le gratuità sono meglio distribuite. Penso per esempio al fatto che ci sono gratuità o riduzioni per chi non ha un lavoro, per gli over 65, ci sono fasce orarie in cui l’ingresso gratuito è sempre garantito, e poi in molti musei europei ci sono le aperture serali strutturali, cosa che da noi invece non è mai stata fatta. Avremo finalmente modo di applicare delle politiche sulla bigliettazione e sulle aperture simili a quelle degli altri Paesi europei?
Perché Lei vuole allinearsi agli altri Paesi europei? Quando Lei parla di Paesi europei mette insieme delle situazioni che sono molto diverse, e che seguono dei cicli economici completamente differenti tra loro. Secondo me noi dovremmo avere un modello che serva a noi. Mi piace il Suo stimolo, nel senso che non dobbiamo accontentarci di quello che abbiamo, ma dobbiamo avere un’ambizione molto alta e andare a confrontarci a seconda delle varie situazioni con quelle che sono le realtà più interessanti dal punto di vista museale a livello internazionale, a seconda però (e questo ci tengo a dirlo) della potenzialità e delle caratteristiche che hanno questi musei. Su quello che riguarda complessivamente le agevolazioni, tenga conto che noi adesso abbiamo agevolazioni che vanno a interfacciarsi con quasi metà dei visitatori: oggi metà entrano gratuitamente e metà pagano un biglietto. Se riusciremo in futuro a permetterci qualcosa in più, ben volentieri: è solo un problema di dosare le risorse.
Ho fatto riferimento a quanto accade nel resto dei Paesi europei perché, pur essendo vero che ogni paese ha politiche differenti, certi presidî che noi non abbiamo (come le agevolazioni per chi non ha un lavoro) sussistono un po’ dappertutto.
Certo, ma consideri che comunque anche all’estero ci copiano. Perché ad esempio, come mi ha detto il mio omologo francese in un recente incontro, il Louvre ha rinunciato alle domeniche gratuite, proponendo le entrate gratis al sabato sera, in quanto, dato il sovraffollamento della domenica, non si riusciva più ad accedere al museo in una modalità corretta. Questo è un buon segnale.
Prendendo spunto dall’argomento “ingressi e biglietti”, Lei ha spinto molto sul fatto che, con il nuovo piano, ora gli under 25 possono entrare nei musei statali pagando appena due euro. Le statistiche però dicono che in realtà la principale barriera per i giovani non è il prezzo del biglietto, che disincentiva soltanto 8 ragazzi su 100... per la stragrande maggioranza degli altri (siamo a una percentuale vicina al 50%), il problema è il disinteresse. Cosa potremmo far riaccendere l’interesse dei giovani, e più in generale di tutti gli italiani, per il nostro patrimonio?
C’è sicuramente da far venir l’appetito ai giovani sul consumo culturale: questo è inutile nasconderlo, ce lo dicono tutti i dati. Noi per esempio abbiamo appena finito un’indagine sull’editoria da cui emerge che la metà dei giovani non legge, non è interessata al consumo dei libri, non è interessata a comprarli, ha altre forme di consumo di contenuti culturali. I giovani non sono stati abbastanza sensibilizzati verso quelli che sono i beneficî, anche personali e di gratificazione, del consumo culturale. Dobbiamo trovare dei modi per farlo: ce ne sono almeno due. Il primo sono tutte le forme di rivisitazione dell’esperienza museale che possono aiutare anche da un punto di vista cognitivo il giovane. Un aspetto su cui ragionare oggi è che molte delle informazioni che si trovano in un museo i giovani le hanno già trovate altrove. Faccio un esempio: la prima volta che sono andato agli Uffizi ero in gita scolastica, avrò avuto quattordici o quindici anni. Mi ricordo che mi colpirono i colori della Venere di Botticelli: riconoscevo il disegno, era un’immagine che conoscevo, ma non l’avevo mai vista con i colori veri. Oggi mia figlia, che ha diciannove anni, non ha bisogno di andare agli Uffizi per avere questo tipo di esperienza, quindi le devo dare una ragione in più, ed è la ragione per cui secondo me i musei devono ragionare sull’esperienza. Questa è la vera frontiera. E in Italia abbiamo situazioni molto diverse tra di loro. Faccio un altro esempio: il Museo del Violino di Cremona, un museo dove i violini si trovano nelle ultime stanze, e il resto è un percorso che conduce ai violini. Quando lo visitai, confessai alla direttrice che anche se non ci fossero stati i violini, io sarei già stato contento: c’era una narrazione all’interno del museo che dava un messaggio e garantiva un’esperienza diversa. Questa è una sfida che ci può aiutare a superare il fatto che ci sia proprio un distacco, quasi valoriale, da parte di certe generazioni, rispetto ai musei. Il secondo aspetto invece è, forse, cambiare la modalità con cui vengono offerti i musei. Faccio un esempio, parliamo del Museo del Design: noi su Milano stiamo ragionando di promuovere finalmente qualcosa che sia rappresentativo della storia, della tradizione, del patrimonio culturale del design italiano. Su Milano ci sono altre situazioni legate al design, come il Compasso d’Oro e la Triennale, che saranno collegate ai musei d’impresa: ma un conto è se racconto che c’è un insieme di musei d’impresa e faccio notare che quel museo fa parte di questa narrazione. Un conto è se andiamo, per esempio, a Omegna, e visitiamo il museo della Bialetti: è esattamente la stessa cosa in termini di luogo fisico e di esperienza, ma la narrazione è completamente diversa. Lo stesso vale, per esempio, per l’importante e preziosa esperienza della Magna Grecia che secondo me non è ancora abbastanza valorizzata: se pensiamo a Taranto, a Crotone, a Sibari, c’è qualcosa che va al di là del semplice museo o del semplice sito archeologico, perché fa parte di una narrazione più ampia. Riassumendo: da un lato l’esperienza dentro il museo, dall’altro come lo comunichiamo.
Dunque, esperienza e narrazione per incentivare. Ma per migliorare su questi aspetti si presuppone che si conosca il pubblico a cui vogliamo rivolgerci. E da parte dei professionisti del settore si sente spesso dire che il pubblico dei musei statali italiani non è studiato così a fondo: sarebbe dunque interessante sapere se ci sono in esame iniziative per conoscere meglio il pubblico, avere contezza delle sue aspettative, sapere da chi è composto...
Ci sono progetti di profilazione del pubblico ma non c’è ancora una regia centrale. C’è qualcosa che è stato messo in piedi dalla Direzione Generale Musei e dove stanno confluendo queste esperienze. A onor del vero però quelle un po’ più avanzate che io conosco non sono solo dello Stato, ma sono dei musei civici. Però, se mi posso permettere, il tema è un po’ più generale: noi non abbiamo solo il problema del pubblico dei musei... non conosciamo neppure gli spettatori della lirica. Per assurdo, se confronto musei e lirica, i musei hanno 37 e mezzo di febbre, ma la lirica è a 38: lì, in molte situazioni, noi facciamo fede su chi conosciamo (gli abbonati, che peraltro hanno un’età media molto elevata e consumi culturali molto routinari), ma non ci poniamo il problema di coloro a cui potrebbe interessare la lirica. Quindi sicuramente la profilazione è una chiave. Non solo. Bisogna dare uno stimolo maggiore per seguire gli spettacoli. Io ho proposto, e sono felice di aver avuto il plauso delle fondazioni, di dare 100 biglietti gratuiti a produzione ai ragazzi dai 18 ai 25 anni per avvicinarli all’opera.
I musei soffrono anche per uno dei temi più spinosi, quello del lavoro: Lei ha più volte rimarcato l’importanza del tema, e com’è noto si è impegnato per far assumere, di qui al 2021, 3.600 nuove unità al MiBAC. Le questioni che m’interesserebbe approfondire sono due: dove troverete le coperture per le assunzioni, e se e come avete valutato l’eventuale impatto di “quota 100” su queste assunzioni.
Le coperture ci sono già: noi abbiamo 1.500 persone che sono già previste nella finanziaria come fabbisogno aggiuntivo, quindi i soldi sono già stanziati. Abbiamo circa 2.000 persone che derivano dall’anticipo delle facoltà assunzionali (l’uso intelligente del turn over che Funzione Pubblica ci consente), e una quota di 560 persone che verranno assunte con il concorso complessivo che Funzione Pubblica farà per i ruoli di informatico, economista e giurista (ruoli amministrativi) per tutta la pubblica amministrazione: un concorso per migliaia di posti, la nostra quota è di 560. Da questo punto di vista i numeri sono più o meno già assestati. Per quanto riguarda “quota 100”, noi abbiamo già iniziato in questi giorni a ricevere le prime domande, ma avremo una vera idea su “quota 100” verso l’inizio dell’estate. “Quota 100” avrà comunque un impatto minimo quest’anno, comincerà a farsi sentire l’anno prossimo, e il vero scoglio sarà nel 2021-2022. E per quella data abbiamo in mente un altro concorso: sono già pronto a lanciare un concorso (vedremo di quale entità) tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, che andrà a ricadere sul 2022-2023. Quindi il nostro orizzonte è un po’ più ampio.
Un altro grande problema sul tema del lavoro, che affligge molti musei, è lo scriteriato ricorso al volontariato come surrogato del lavoro. Anzi, secondo un recente rapporto Istat, nei musei italiani c’è addirittura un volontario ogni 4 lavoratori. Come il Ministero risolverà questo problema, se intende farlo?
Questo è un problema che deve essere risolto. Non è un’opzione. Partiamo dall’origine: il volontariato di per sé è positivo. E l’Italia ha una tradizione di volontariato molto ricca. Io poi, provenendo dalla zona di Milano, posso dire che lì il volontariato è molto radicato, fa quasi parte del genius loci. Quello che però è successo in passato è che il volontariato è stato usato per riempire i vuoti. E questo non va bene, perché vuol dire che noi usiamo uno strumento pensato per altri scopi (e direi la stessa cosa del servizio civile) per andare a coprire quelli che vanno chiamati col loro nome: fabbisogni di personale. Nell’immediato, nell’emergenza, si può anche ragionare in questo senso, ma non può e non deve essere una soluzione. È intollerabile. Nell’immediato, nell’emergenza, si può anche ragionare in questo senso, ma non può essere una soluzione.
Quindi cosa serve per risolvere il problema?
Almeno due azioni. La prima è quella di evitare le carenze di organico, e la soluzione è assumere personale. La seconda è un maggior coordinamento, a livello centrale, di regole, norme, processi e prassi che a volte, secondo me in maniera un po’ negligente da parte dello Stato, vengono accettate per risolvere problemi contingenti. Dunque, ci sono alcune norme che vogliamo andare a ritoccare all’interno del Codice dei Beni Culturali, in particolare per quello che riguarda il rapporto tra pubblico e privato: la settimana prossima dovrebbe andare in Parlamento la delega sulla riforma del Codice dei Beni Culturali e lì dentro ci sono misure che aiuteranno a superare questo problema. Nella riforma complessiva dell’organizzazione del Ministero noi stiamo pensando di prevedere dei ruoli centrali che aiutino dal punto di vista della consulenza, dal punto di vista dell’indirizzo e dal punto di vista del controllo, a gestire queste situazioni locali. Quello che purtroppo troppe volte è accaduto in passato è che il soprintendente, il direttore del polo museale, o il funzionario responsabile della singola situazione, si sono trovati da soli. E nel momento in cui si trovano da soli, senza aiuti, senza risorse e senza anche un minimo di attenzione da parte del centro, come posso io censurare certe scelte? E comunque ricordiamoci che il controllo diretto sulla gestione e sulla valorizzazione da parte dello Stato è limitato a un pezzo del patrimonio: c’è tanto patrimonio che è fuori e dove ci sono situazioni che vanno per lo meno disincentivate quando utilizzate in maniera inopportuna.
Ha fatto un cenno alla riforma dell’organizzazione del Ministero: chiedo se può anticiparci qualcosa.
Io penso che le organizzazioni complesse (e il Ministero è decisamente un’organizzazione complessa) ogni tot anni abbiano l’esigenza di fare una revisione, un checkup della struttura organizzativa. Di criticità ce ne sono tante, ma parlerei di due in particolare. La prima è quella della confusione dei ruoli. Ci sono situazioni in cui è come se i diversi pezzi dell’amministrazione fossero portati al conflitto. Perché alcuni aspetti non sono chiari: per esempio, chi è responsabile del deposito, chi si deve occupare della tutela, se la mia pertinenza finisce a quell’uscio oppure si estende al di là, se il muro è compreso oppure no... sono cose banali, ma non lo sono più nel momento in cui generano una conflittualità diffusa. Quello che ho notato all’interno del Ministero è che spesso questa conflittualità non emerge perché ci sono buona volontà e buona collaborazione da parte dei funzionarî. Sono questioni tecniche e organizzative, ma comportano problemi. Il secondo aspetto è quello della motivazione: un’organizzazione come la nostra non può vivere senza gestire la motivazione delle persone che ci lavorano. La vulgata, in passato, è stata che all’interno dello Stato ci sono degli incarichi che non sono motivanti, il che secondo me è ideologicamente sbagliato. Nello Stato ci devono essere esattamente le stesse possibilità di fare un lavoro motivante che ci sono dalle altre parti. Altrimenti cosa ce ne facciamo dello Stato? La motivazione può derivare da tanti aspetti: sicuramente quello retributivo, sicuramente le promozioni e quant’altro, ma c’è un aspetto che secondo me è stato sottovalutato, e sono le prospettive di carriera che le persone all’interno dell’organizzazione vedono, nel futuro, per se stesse. Quando c’è stata la riorganizzazione, alcune filiere dei percorsi di carriera sono state spezzate: banalmente, se io oggi sono un archeologo, vengo assunto dal Ministero, e inizio a lavorare in una qualsiasi Soprintendenza, davanti alla domanda “che cosa farò tra dieci anni?”, c’è il grosso rischio che io mi dia l’unica risposta possibile, ovvero che sarò ancora qui a fare le stesse cose che sto facendo oggi. E se mi rifaccio questa domanda tra dieci anni c’è il rischio che mi dia la stessa risposta: questo ammazza qualsiasi tipo di motivazione. Ed è un sacrilegio, perché noi andiamo a lavorare con persone che sono naturalmente fanatiche di quello che stanno facendo. Ovvero, arrivano con una passione pazzesca, e se noi non diamo una direzione a questa passione, automaticamente si trasforma in amaro in bocca per l’idea di andare lavorare. Su questo aspetto siamo molti attenti, e sarà nostra cura ricostruire queste filiere.
Lei ha citato due aspetti poco frequentati (confusione dei ruoli e motivazione), ma io ne vorrei aggiungere anche un terzo che invece è molto frequentato. Nel programma del Movimento 5 Stelle si sottolineava il fatto che la recente riforma del ministero abbia reso difficoltoso lo svolgimento delle funzioni di tutela e di valorizzazione: in particolare, mancherebbe un coordinamento in quanto la riforma ha diviso le competenze tra soprintendenze (che si occupano di tutela) e musei (che si occupano di valorizzazione). In questo senso come pensate di intervenire?
Nel contratto di governo c’è scritto qualcosa di leggermente diverso: si parla più in generale del valore della valorizzazione.
Sì. Io facevo riferimento al vostro programma.
Di questo tema possiamo discutere dal punto di vista concettuale, o possiamo farlo ricadere nel contesto di una macchina organizzativa. Questa mancanza di coordinamento, come Lei dice, è una delle cause di questa conflittualità latente di cui parlavamo prima. Io manterrei all’interno del discorso sulla tutela, per esempio, la gestione di alcuni siti archeologici e, banalmente, i posti dove si fa attività archeologica vera e propria, perché mi viene difficile scinderli da un’ottica di tutela. Viceversa ci sono situazioni dove è relativamente più semplice: quando noi pensiamo a una situazione museale di un certo tipo, un conto è se il concetto di valorizzazione viene tradotto in numero di biglietti o quantità di entrate economiche. I soldi fanno comodo a tutti, ma dare troppa importanza a questo aspetto è eccessivo. C’è qualcosa che è molto più potente: il tema della ricerca. I grandi musei internazionali hanno una parte di ricerca forte. Da noi, secondo me, il bilanciamento va riportato a questo livello. Quando ci sarà da confermare o scegliere i direttori mi piacerebbe valutare anche questo aspetto. Cioè vorrei qualcuno capace di riuscire ad avere tanti visitatori e quant’altro, ma anche capace di far crescere o mantenere la reputazione del museo a livello di quello che si merita.
Ecco. E questo è un tema importante. Perché in Italia si parla molto poco di ricerca, e i nostri musei fanno poca ricerca, o comunque ne fanno meno rispetto ai musei stranieri. E molti professionisti italiani, quando scelgono il luogo in cui lavorare, spesso guardano con più favore all’estero per il fatto che fuori dall’Italia la ricerca gode probabilmente di maggiori attenzioni.
Qui torniamo al punto iniziale. E il mio orizzonte temporale non è la fine dell’anno. Il mio orizzonte temporale è intanto la legislatura... e anche al di là del suo termine. Quando facciamo interventi di questo tipo dobbiamo avere una visione il più possibile lontana, la macchina non si può ribaltare nel giro di pochi mesi. E dobbiamo evitare soluzioni semplici: tempi determinati, volontariati... usiamone il meno possibile, anche perché poi dànno assuefazione. A me non piace questo sistema. Lavoriamo invece in maniera molto pesante sulla strada maestra. Cioè concorsi pubblici con grandi numeri. Nel prossimo triennio, infatti, vogliamo bandire concorsi per almeno tremila posti. Penso sia la prima volta da tanto tempo che non si fa un intervento così importante. E la ragione è questa: far entrare le persone dalla porta principale.
Parliamo dei modelli di gestione. Di recente Lei ha dichiarato che i nostri musei hanno bisogno di modalità di gestione più moderne rispetto a quelle del passato. Cosa intendeva di preciso?
Si possono fare almeno due cose a cui tengo: la prima sono gli amici dei musei. Il fatto di avere un numero di soggetti il più ampio e diverso possibile che aiuti il museo a entrare in presa diretta e a radicarsi in una comunità, secondo me è positivo: chiaramente con delle regole, ma non ci trovo nulla di male se un museo ha il suo “fan club”, qualcuno che dà una mano... questa è un’ottica di volontariato che personalmente non mi dispiace. L’altro aspetto è quello dell’autonomia differenziata. Un conto è avere, come in Francia, circa trenta musei che appartengono allo Stato, un conto è averne cinquecento. Io non trovo niente di male se, a livello di accordo con una regione, si decide che si lavora insieme e, a quel punto, quel museo avrà un’attenzione maggiore di quella che possiamo assicurare noi. Non è una devolution, ma un patto tra pari, un aiuto alla gestione. L’Italia avrà comunque bisogno di una serie di musei statali, che rimarranno a livello statale, che continueranno ad essere gestiti direttamente dallo Stato.
Possiamo quindi assicurare, date le voci circa ingressi di privati che ultimamente si rincorrono, che i musei statali in futuro rimarranno pubblici?
Ogni tanto mi trovo a dover rispondere di cose che non penso, non ho mai detto e non ho mai neanche immaginato. Però è giusto che mi abbia fatto presente l’osservazione. È giusto precisare. Una delle prime cose che ho domandato a me stesso quando ho iniziato a fare questo lavoro era cosa voleva dire fare il ministro, cioè cosa voleva dire fare il responsabile di una struttura statale che si occupa di beni culturali. La decisione che ho preso anche da un punto di vista personale è che io, per il tempo che farò questo lavoro, sarò un funzionario pubblico e ragionerò da funzionario pubblico. Per me la prima cosa è che quella che è una funzione pubblica venga svolta dallo Stato, in maniera diretta, nel miglior modo possibile. Il mio obiettivo è di lavorare affinché questi passaggi siano possibili. Perciò, io dico che i musei statali rimangano assolutamente all’interno del confine pubblico, che vengano diretti da persone pagate dallo Stato e dove lavorino persone pagate dallo Stato, e che nei casi in cui si riterrà giusto si valuti. Non vedo niente di male se una società specializzata si occupa del bookshop o del bar perché forse noi non siamo i più bravi a fare quel mestiere, ma su altre cose sono un po’ più conservatore e prima mi devono dimostrare che lo Stato non riesce a fare certe cose che si vorrebbero affidare ad altri. Questo è il mio punto di partenza.
Un breve cenno alla cultura digitale. Un’indagine dell’Osservatorio per l’Innovazione Digitale nei Beni e Attività Culturali, condotta su 476 musei, ha rilevato che solo il 57% di loro ha un sito web e solo il 52% un account social. Cosa si potrebbe fare per migliorare la situazione?
Due cose. La prima: se un direttore o un funzionario responsabile di un museo ha problemi nell’aprirlo e diventa matto nel trovare qualcuno che alle 14 sia ancora lì, in tutta sincerità la priorità è questo aspetto piuttosto che il sito del museo. Il secondo: per occuparsi di questi aspetti servono risorse e competenze che o vengono messe a disposizione dal centro, o il rischio è quello che si chieda a persone che non hanno competenze di fare un sito in fretta e furia. Questo è quello che è successo, troppo volontariato anche in questo ambito. Abbiamo bisogno di maggiori risorse, che poi in parte abbiamo già, anche se abbiamo qualche problema a spenderle (ma di questo aspetto ci stiamo già occupando). E poi di un forte coordinamento, che è quello che stiamo introducendo nella nuova organizzazione, dove avremo una struttura centrale che fa il coordinamento di tutti gli interventi sul digitale.
Chiudiamo con una domanda che esula un po’ dai temi dell’intervista ma che è di stretta attualità. Sulla Biennale di Venezia. Soltanto due italiani gli artisti invitati alla mostra internazionale. Secondo Lei cosa si potrebbe fare di più per supportare in Italia l’arte contemporanea?
Il segnale c’è. Ma, mi perdoni la franchezza, vorrei evitare di forzare, dal punto di vista pubblico, affinché ci sia maggiore spazio per gli italiani.
Ci mancherebbe, non volevo porre la domanda in questi termini.
Lo so, ma lo voglio precisare comunque. Perché il Ministero non deve lavorare sull’uscita, ma sull’entrata. Quindi noi dobbiamo porci il problema. E siamo in colpa: la nostra colpa principale è che nella distribuzione dei pesi all’interno del Ministero non diamo abbastanza importanza a un fatto, e cioè che l’arte è ancora in produzione. Certo, noi abbiamo un patrimonio storico enorme, fantastico, di cui andiamo orgogliosi. Ma ci sono anche artisti che stanno ancora producendo, e di questo ci dobbiamo ricordare. Su questo fronte abbiamo già cominciato a lavorare, e in particolare su almeno tre linee direttrici. La prima è quella dell’Italian Council: il mondo dell’arte contemporanea è un mondo internazionale, e se l’artista non è internazionale non esiste. E quindi noi dobbiamo aiutare i nostri giovani artisti a raggiungere un livello di visibilità internazionale il più presto possibile. Dopodiché se ce la fanno bene, andranno avanti da soli, ma all’inizio hanno bisogno di una mano. E su questo stiamo andando bene. Il secondo tema è quello della musealità, ma in realtà va anche al di là (penso alle fiere, agli eventi, alle performance): terrei a ragionare su una visione del sistema che dev’essere necessariamente multipolare. Cioè l’arte contemporanea è troppo importante per essere focalizzata solo in alcuni luoghi. Dobbiamo cercare di valorizzare esperienze e sensibilità il più possibile distribuite. Il terzo aspetto è quello normativo: abbiamo spazî di miglioramento su come trattiamo l’arte contemporanea dal punto di vista della tutela, della contrattualistica, delle norme che la regolano. Secondo me possiamo e dobbiamo fare di più.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).