Time is out of joint, il “nuovo allestimento in forma di mostra” della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, curato da Cristiana Collu, ha avuto l’effetto di creare due fazioni opposte: quella dei critici e quella degli entusiasti. Abbiamo deciso di pubblicare, sulle pagine di Finestre sull’Arte, due interviste: una alla direttrice Cristiana Collu (per la quale abbiamo ricevuto disponibilità e che contiamo di ottenere al più presto) e una a Claudio Gamba, studioso di indiscutibile autorevolezza, che fin dai primi giorni si è rivelato una delle voci più critiche nei confronti di Time is out of joint. Oggi pubblichiamo dunque l’intervista a Claudio Gamba, storico dell’arte che, come si legge sul suo sito web, “si è occupato prevalentemente di scultura italiana tra Seicento e primo Ottocento e di storia della critica d’arte del Novecento” ma anche di tematiche legate alla tutela collaborando attivamente con l’Associazione Bianchi Bandinelli, ha curato mostre, ha all’attivo numerose prestigiose pubblicazioni e insegna all’Accademia di Belle Arti di Brera.
Una sala del nuovo allestimento della Galleria Nazionale. Da sinistra Crocifissione Contemporanea – Ciclo della protesta N.4 di Emilio Vedova (1953), Grande Rosso P.N. 18 di Alberto Burri (1964) e la Battaglia di San Martino di Michele Cammarano (1880-1883). La scultura è di Leoncillo. Foto di Luca Zuccala |
Dottor Gamba, lei è uno degli studiosi più critici nei confronti di “Time is out of joint”, che durerà fino ad aprile 2018. Partiamo subito da una domanda apparentemente semplice: secondo lei quali sono i punti più discutibili dell’operazione a cui la Galleria è stata sottoposta?
Sono indubbiamente molto critico sul nuovo allestimento, lo considero nel complesso una operazione sbagliata per il tipo di museo e di collezioni sui quali si è intervenuto, ma prima di chiarire meglio la mia posizione vorrei premettere che i severi giudizi che intendo esporre sono rivolti a Cristiana Collu come direttrice e non come studiosa e intellettuale. Infatti per certi versi ammiro il suo decisionismo, la volontà di lasciare il suo personale segno nel nostro tempo; dietro la sua figura apparentemente obliqua, ritrosa, sfuggente, si nasconde in realtà una donna con idee molto chiare e una determinazione sorprendente, al punto di non sentire il bisogno di ascoltare il parere del comitato scientifico della Galleria da lei stessa diretta. Quando queste sue doti sono state utilizzate per creare un museo in una zona periferica e isolata dai grandi circuiti internazionali come il Man di Nuoro e poi in parte anche al Mart di Rovereto i risultati sono stati molto interessanti; ma questa spregiudicatezza si è venuta a scontrare con l’incarico ottenuto a seguito della riforma ministeriale dei musei, come direttrice della più importante collezione dell’arte italiana e in parte europea dell’Ottocento e del Novecento, un vero luogo della identità nazionale e poi centro di innovazione e di dibattito critico del secondo dopoguerra. Un conto è operare in un contesto nuovo, in un contenitore vuoto, allestire una Biennale, fare delle mostre in provincia o riordinare un museo con una piccola collezione di valore diseguale, un altro conto è misurarsi con un simbolo, un canone di valori culturali, con la sedimentazione di un secolo di storiografia critica e museologica com’è nel caso della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea. Il primo punto discutibile, direi il peccato d’origine, è stata la decisione di svuotare l’intero museo, usando l’edificio di Bazzani come un contenitore di mostre, come fosse il Palazzo delle Esposizioni dove si è inaugurata da poco la Quadriennale. In questa operazione, di una arroganza curatoriale senza precedenti, si è proceduto con la falce (e in certi casi anche con il martello), cancellando ogni traccia dei precedenti allestimenti (frutto di decenni di studi e ricerche), smontando tutto l’impianto storico e soprattutto rispedendo nei depositi gran parte delle collezioni ottocentesche, che la Collu ha detto chiaramente di non conoscere. Tutti gli altri rilievi critici discendono da qui, dal non aver capito che non è stata nominata direttrice del MAXXI o del MACRO: la prima cosa che deve fare un direttore di museo è studiare la storia dell’istituzione e delle collezioni, misurarsi con accortezza e umiltà alle opere, soprattutto se di mezzo ci sono Canova, Hayez, Medardo Rosso, Morandi, Burri, tanto per dire dei nomi a caso. Ci saremmo evitati questo labirinto di perdita di senso che è diventata ora la Galleria.
Una delle sale più discusse del nuovo allestimento della Galleria Nazionale. Sul fondo Spoglia d’oro su spine d’acacia di Giuseppe Perrone (2002) davanti a Ercole e Lica di Antonio Canova (1795-1815) e in primo piano 32 mq di mare circa di Pino Pascali (1967). Foto di Luca Zuccala |
“L’edificio di Bazzani come un contenitore di mostre”: su questo punto si concentra buona parte delle osservazioni dei più critici. Gran parte di coloro che criticano “Time is out of joint” sostiene infatti che la logica del nuovo allestimento somigli alla stessa logica sulla base della quale vengono allestite diverse mostre, soprattutto quelle il cui successo (in particolar modo commerciale) si ritiene dipenda da operazioni “accattivanti”, dalla capacità dell’allestimento di suscitare impagabili emozioni, dalla capacità di creare clamore: questo però spesso va a scapito di aspetti oltremodo importanti della vita del museo (e anche della mostra), come la didattica, la contestualizzazione, la ricerca e, come Lei ha osservato, l’impianto storico e le collezioni stesse. Insomma, abbiamo ormai preso la strada di una visione “aziendale” del museo? Oppure possiamo ancora inventare un nuovo parametro per la misura del successo di una mostra o di un allestimento, che tenga conto davvero di tutti gli aspetti della vita di una collezione, di un museo, di un’esposizione?
Dietro questa operazione si può certamente vedere anche una componente della cosiddetta “messa a reddito” del patrimonio culturale, che è molto più interessata alla quantità dei visitatori piuttosto che alla qualità e alla durata degli effetti virtuosi sul pubblico, effetti che in verità a lungo termine ripagano molto di più anche in termini economici. In questo senso il radicale sovvertimento della Galleria ha la chiara finalità di ottenere massima visibilità mediatica, una forma di rottamazione che accontenta il clima di polemica anti-sistema e anti-intellettuale in cui siamo immersi, che identifica tutti i mali con le precedenti gestioni e le professionalità tecniche; a molte persone basta dire che si è rinnovato tutto per farle felici, ma noi abbiamo il dovere di distinguere il nuovo che innova dal nuovo che confonde. Non credo, comunque, si possa ridurre tutto al bisogno di manifestare in fretta gli effetti politici di “rinnovamento” connessi alle nuove nomine dei direttori voluti dal Ministro. Altri direttori hanno compiuto scelte in una direzione opposta a quella voluta da Cristiana Collu, la quale ha del resto motivato le sue scelte con affermazioni dirompenti che non possono essere semplicemente ignorate. L’idea di fondo è che un museo non sia un libro di testo, che la storia dell’arte si studi a scuola o all’università non nelle sale espositive, le quali sarebbero invece luoghi dove provare emozioni, dove entrare in contatto con la bellezza. A questi temi si collega del resto l’evento principale che accompagna il nuovo allestimento, cioè il Beauty contest diretto dall’artista spagnolo Paco Cao (che con la Collu aveva già collaborato al Mart), con il quale ho a lungo polemizzato; si tratta di un concorso di bellezza che premierà i più bei ritratti, maschile e femminile, scelti tra 70 opere del museo, votate senza considerare lo stile degli artisti e nemmeno il personaggio effigiato, come proclama il regolamento, con l’idea insomma che il museo debba inseguire i gusti di certo pubblico televisivo. Il museo come una specie di location dove farsi selfie da condividere sui social network, dove fare un giro senza provare imbarazzo per le cose che non si sanno, uscendo appagati e soddisfatti senza un briciolo di crescita culturale: se si cercava questo allora sicuramente il nuovo allestimento ha raggiunto il suo scopo. Per avvalorare le sue tesi la direttrice ha usato l’argomento che ci sia una sana anarchia, un disordine piacevole, che rispecchia il nostro tempo in cui siamo bombardati da immagini e informazioni senza ordine e logica lineare. Il tempo sarebbe quindi irrimediabilmente destrutturato, le opere d’arte esisterebbero solo nella nostra percezione schiacciata su un presente perenne, il museo dovrebbe quindi rifiutare l’ordine cronologico, le gerarchie di significati e valori, per produrre emozioni e cortocircuiti, come si ripete oggi ossessivamente. In realtà se poi andiamo a visitare la nuova Gnam gli accostamenti risultano spesso banali e inconsistenti, certe volte le opere sono associate per un tema, altre per un colore o un elemento grafico, nel resto dei casi il motivo dell’associazione rimane, almeno per me, impenetrabile. Senza contare che ci sono enormi problemi di fruizione, che non si rispettano le più intuitive logiche museografiche, come la proiezione dei video accanto ai dipinti, col risultato che per i quadri la luce è insufficiente e per i video è eccessiva; i disegni che non possono sopportare per mesi tutto quel chiarore, le sculture neoclassiche a terra contro le quali si rischia facilmente di intruppare, l’assenza di panche dove sedersi e di qualsiasi supporto didattico che spieghi il tema delle sale. Ma anche passando sopra a tutto questo, non condivido nel suo assunto centrale l’affermazione che il museo non abbia a che fare con la storia dell’arte, con la scuola, con l’educazione, con la possibilità di comprendere e confrontarsi con la storia del passato in termini di consapevolezza. La storia e la geografia, come la storia dell’arte e la letteratura, possono essere insegnate male come sterile nozionismo ma possono anche, a tutte le età, essere parte di una esperienza di profonda e duratura crescita personale, che rende i cittadini migliori, partecipi in modo collaborativo dell’intera società. Ridurre tutto alle emozioni, che sono importante veicolo di stimoli iniziali ma non il fine della conoscenza, produce visitatori che non crescono, che “consumano” il museo, senza sentire il bisogno di tornare se non per un nuovo evento o un radicale riallestimento, del resto già programmato tra un anno mezzo. Insomma un colossale meccanismo che gira a vuoto. Tutto questo parte dal malinteso, denunciato da almeno un secolo di dibattito estetico e critico, che le opere d’arte figurativa siano immediatamente comprensibili al solo sguardo, mentre bisogna conoscere la grammatica e la sintassi del visivo, servono poi competenze tecniche, storiche, iconografiche e per tutte le avanguardie servono riferimenti teorici ai proclami e manifesti. Le cosiddette opere d’arte non sono poi mica solo espressione del bello: se io esamino i ritratti veristi della borghesia ottocentesca, le scene di battaglia risorgimentali, i quadri di propaganda fascista, le ricerche cinetico-visive degli anni settanta, il concetto di bellezza non solo non basta ma è fuorviante. Tutti questi problemi sono stati semplicemente dissolti nell’aproblematico e confusionario scenario postmoderno assemblato nella nuova Galleria. Sottolineo però che la mia non è una posizione reazionaria che reagisce stizzita alle futuristiche innovazioni della Collu; le sue tesi sono in realtà vecchie di almeno un trentennio, ma mentre negli anni ottanta potevano avere un benefico effetto per contestare le grandi ideologie, la guerra fredda, i pensieri filosofici dogmatici, oggi appaiono semplice rispecchiamento della nostra società liquida e precaria, senza capacità di analizzarla e criticarla. Da vari anni si discute invece su come uscire dal postmoderno e dalla poststoria. Ecco io vorrei concentrarmi su questo approccio, decisamente più innovativo rispetto alla presunta anarchia destrutturante proclamata dalla direttrice.
Sulla parete Hammer and Sickle di Andy Warhol (1977). In primo piano il Giove di Pietro Galli (1838). Foto di Luca Zuccala |
Cristiana Collu, del resto, non ha mai fatto mistero del fatto che per lei un museo non è un manuale di storia dell’arte e che il museo non è e non dev’essere solo un luogo di educazione e istruzioni ma anche un luogo di socializzazione. Si tratta di due visioni così antitetiche, inconciliabili? È vero che il concetto di opera d’arte come mero strumento di emozione è datato e la museografia può tranquillamente prescindere da approcci basati sulle pure emozioni. Tuttavia c’è da dire che approcci del genere trovano ancora largo riscontro non solo tra il pubblico ma anche, e il caso Galleria Nazionale credo lo dimostri, tra i curatori stessi: qual è la soluzione migliore? Dobbiamo rassegnarci a una storia dell’arte (falsamente) estetizzante, dobbiamo sacrificare certi aspetti in nome della conoscenza, o ancora può esistere un compromesso che possa evitare di far girare a vuoto il meccanismo?
Personalmente non vedo contraddizione tra un luogo di educazione e un luogo di socializzazione. La scuola non è forse un luogo in cui si impara e insieme il luogo in cui ciascuno di noi ha compiuto alcune delle più importanti esperienze per gestire il rapporto con gli altri? E non tanto con gli amici che ci scegliamo ma con le persone che ci capitano accanto: questo rende senza dubbio la scuola un fondamentale esperimento di socialità nel quale i saperi vengono condivisi. Per me il museo deve andare in questa direzione. Poi, come ho detto, ci sono bravi docenti e cattivi docenti, ma nel suo essenziale intento conoscitivo e pedagogico la scuola è senza dubbio una delle componenti della identità del museo e lo è sin dalle origini stesse dei primi musei pubblici che avevano per fine l’educazione al buon gusto dei visitatori e la formazione degli artisti attraverso opere ritenute esemplari. Il museo poi è diventato molte cose diverse, sono nati i musei scientifici, i musei di storia naturale, i musei antropologici, i musei che raccontano la storia del lavoro. Tutti questi musei non possono essere fruiti usando il bello come categoria di approccio. Di fronte a una sala con l’evoluzione dei cannocchiali o con trenta tipi di vanghe per arare non esclamo “che bello”. Ci sono poi anche i musei di quelle che un tempo erano dette le arti minori, in questo caso non basta contemplare, bisogna dare gli strumenti per contestualizzare e capire; ma anche per la pittura e la scultura, almeno fino alle avanguardie storiche e per molti versi fino agli anni sessanta del secolo scorso, non è possibile isolare la componente estetica da quella storica e culturale. Più complesso e dibattuto è il discorso se ci sposta sulle vicende dell’arte degli ultimi quarant’anni, che hanno visto il progressivo disgregarsi e dissolversi del campo fenomenico delle arti, fino al postmoderno che ha sancito la convivenza di tutti i possibili linguaggi in uno stato di caos permanente, certo affascinante ma che non può essere usato per interpretare le opere dei decenni e secoli precedenti. La questione centrale è che il museo deve essere in grado di parlare contemporaneamente a diverse tipologie di pubblico, questo può avvenire attraverso l’uso di percorsi tematici dentro il museo, con pannelli esplicativi, con l’utilizzo di tutti i nuovi mezzi tecnologici di cui oggi disponiamo, ma soprattutto distinguendo delle sale introduttive con un percorso storico facile ed essenziale dentro le collezioni, poi con delle sale tematiche che permettano di approfondire per esempio un movimento o un artista, infine delle sale specialistiche utili agli studiosi ma anche in grado di far percepire al visitatore curioso la complessità della storia al di là delle semplificazioni museologiche. All’interno di questo schema potevano trovare spazio delle salette con i confronti, come quelli escogitati dalla Collu, magari da rinnovare mensilmente. Non voglio negare che alcuni confronti tra opere di tempi diversi possano essere stimolanti, ma non possono sostituire l’intero impianto storico del museo. Per fare un confronto tra Leopardi e Pirandello devo prima essere in grado di leggere e capire le loro opere, allora potrò sviluppare autonomamente dei paralleli; lo stesso discorso vale se voglio confrontare Canova e Mondrian. Anche per le opere d’arte si procede per gradi, si parte dall’alfabeto delle forme e delle tecniche, si passa alle frasi dello stile, poi alle opere complete di un autore, poi al percorso storico di un’epoca, infine ai confronti tra cose distanti. Ho sentito vari storici dell’arte che hanno apprezzato il nuovo allestimento per alcune suggestioni, ma quando ho ribattuto che i nostri studenti, come parte del pubblico generico, fanno confusione su cosa venga prima tra Michelangelo e Bernini hanno convenuto con me che per fare i raffronti bisogna già conoscere la storia dell’arte. Del resto non è questa l’idea della Collu, per lei i materiali del passato sono solo un deposito da saccheggiare per fare nuove installazioni che rispecchiano le idee del curatore. Uno degli esempi più clamorosi è costituito dalla decisione di smontare quello che forse è il più importante complesso della scultura romana di inizio Ottocento, cioè l’Ercole e Lica di Canova con il corteo di divinità realizzate dai maggiori scultori del tempo per il distrutto Palazzo Torlonia. Con grande fatica Sandra Pinto, grazie anche agli studi di Stefano Susinno e altri, era riuscita a ricomporre le opere in modo unitario. Oggi appaiono sparse ognuna in una sala con motivazioni pretestuose, talvolta ridicole, usate come dei finti spettatori impietriti che guardano i quadri, imitando operazioni concettuali di famosi artisti come Michelangelo Pistoletto o Giulio Paolini, che però usavano dei gessi senza valore non le statue antiche originali. Anche se suggestiva, questa operazione è contraria alle basi della tutela, che si occupa di proteggere non solo la materialità ma anche i nessi di significato dei beni culturali. Il tutto risulta fumoso e imperscrutabile, oppure pieno di faciloneria e ingenuità, ma certo non corrisponde a quella idea di democratizzazione del museo che tanto viene sbandierata. Il museo democratico è un museo che dà l’opportunità di crescere insieme, dai bambini agli anziani, da chi ha disabilità a chi fa studi letterari, guidando il pubblico per mano con le diverse velocità e complessità dei percorsi; qui invece siamo di fronte a un elitarismo autoreferenziale mascherato da populismo demagogico del “museo per tutti”, come se il pubblico dei programmi di Maria De Filippi e delle partite di calcio venisse attratto dall’aver messo Canova tra Penone e Pascali!
Sulla parete, a sinistra un dipinto di Ugo Rondinone e a destra I visitatori di Michelangelo Pistoletto (1968). Sul pavimento i Bachi da setola di Pino Pascali (1968). Foto di Luca Zuccala |
Parliamo proprio del pubblico. Anche ammesso che “Time is out of joint” riesca a coinvolgere il pubblico meglio degli allestimenti precedenti, possiamo domandarci, anche in considerazione dei possibili e spinosi risvolti politici della questione, fino a che punto il pubblico possa essere considerato protagonista e fino a che punto l’azione della direzione di un museo debba seguire i gusti (o quelli che pensa siano i gusti) del pubblico?
La premessa fondamentale è che non esiste il pubblico come un tutto indistinto, oggi la massa è liquida e mutante, esistono molti pubblici, esiste il visitatore solitario, la famiglia con figli, il gruppetto di adolescenti, la visita organizzata dal centro anziani, gli specializzandi in storia dell’arte accompagnati da un docente, come anche il tour per i partecipanti a un meeting di cardiochirurghi oppure un pullman di giapponesi che non sanno niente della storia europea. Il museo deve riuscire a comunicare con tutti, ma insomma come si fa a parlare a tipologie così distanti? La risposta data dal nuovo allestimento è stata: mischiamo tutto, diamo un senso di luce e di chiarezza, lasciamo libere le persone di girare senza percorsi, senza ordine, senza pannelli, senza didascalie sui contenuti, ognuno si darà spiegazioni da solo, ognuno noterà qualcosa, farà una foto a una cosa che l’ha colpito. Si tratta di una resa di fronte alla complessità, per essere inclusivi si diventa semplicemente banali, per parlare a tutti si balbetta un inglese da prima elementare: my name is Burri, Canova is on the floor, the white wall is beautiful. Tra l’altro il titolo della mostra, che fa riferimento a un fortunato verso di Shakespeare, è stato lasciato in inglese perché, dice la Collu nel comunicato, la mostra scardina anche le traduzioni, alla faccia dell’inclusività. Del resto il primo indizio di questo stato confusionale era arrivato con l’introduzione del nuovo logo, che di fatto ha mutato il nome della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea in LA Galleria Nazionale, stop, senza altre indicazioni, con l’articolo evidenziato perché loro sono il museo per eccellenza; una cosa ridicola che scimmiotta il nome di grandi musei stranieri che si chiamano solo National Gallery, ma senza conoscere che la nostra storia dei musei ha previsto la creazione di numerose Gallerie nazionali come eredità della multiforme geopolitica degli Stati preunitari e che a Roma furono poi distinte la Galleria Nazionale d’arte antica da quella d’arte moderna; ma perché la ex Gnam dovrebbe essere l’unica Galleria Nazionale e non Palazzo Barberini? In realtà poi si è capito che non si era di fronte a una prevaricazione dei grafici ma alla volontà di rimuovere sia la parola arte che richiede conoscenze di significati e sia i concetti di periodizzazione cronologica, pur assai problematici, di modernità e contemporaneità. Si voleva inoltre eliminare il brutto acronimo Gnam, ma poi hanno creato l’account Twitter che usa la sigla Lagn, che mi pare decisamente più respingente! Naturalmente le mie critiche riguardano l’allestimento e queste affermazioni teoriche, perché poi ci sono molte cose buone, merito di ottimi professionisti che lavorano in Galleria e che continuano a portare avanti importanti tradizioni di quella istituzione, che vanno dell’accoglienza alla didattica, dai laboratori per i bambini alle “domeniche al museo”, e poi la presenza nel web col nuovo sito e la pagina Facebook, fino alla nuova App per smartphone che permette di ottenere le informazioni su alcune opere e artisti puntando la fotocamera, anche se bisogna andare per tentativi, perché nelle didascalie non è indicato né un simbolo né un numeretto che faccia capire quali abbiano la scheda, che comunque non fa riferimento al collocamento dell’opera nelle nuove sale a “cortocircuito”. Nonostante tutto la Gnam rimane un museo straordinario per la quantità e l’importanza delle sue collezioni, vorremmo però che ci fosse data la possibilità di poter vedere le opere, soprattutto l’arte dell’Ottocento che oggi è ridotta al lumicino e umiliata da una funzione di paragone con il contemporaneo; se io affianco una battaglia di Fattori a una plastica di Burri senza altro commento posso ottenere due tipi di reazioni: chi ha gusti più antichi dirà “ah come sapevano dipingere una volta, sembra vero, io questa arte contemporanea proprio non la capisco”, mentre chi ha gusti più spinti sull’avanguardia dirà “certo che gli artisti astratti hanno fatto bene a superare tutta questa noiosa pittura risorgimentale”. Sono due banalità che uso come paradosso ma un direttore di museo che faccia uscire i suoi visitatori senza aver tentato di contrastare le banalità e i luoghi comuni ha fallito la sua missione. La Collu dichiara di voler essere eterodossa e sovversiva ma il luogo comune da abbattere non è il manuale di storia dell’arte, casomai il problema è non saperlo raccontare in modo appassionante. Troppo facile “buttarla in caciara” come dice una colorita espressione romanesca.
Sulla parete la Superficie 512 di Giuseppe Capogrossi (1963). La scultura è una Figura distesa di Henry Moore (1953). Foto di Luca Zuccala |
Abbiamo anticipato che la nostra società sta vivendo dei notevoli cambiamenti: quelli che erano considerati i punti di riferimento della nostra società si sono sfaldati, e di conseguenza è normale che anche la storia dell’arte subisca dei cambiamenti. Non è detto che ciò sia un male, l’importante è che il cambiamento non diventi prevaricazione ma opportunità: in questo senso, qual è la strada che secondo lei ha imboccato la Galleria? E per concludere: esiste (e il visitatore può utilizzare) un antidoto contro il postmodernismo di “Time is out of joint”?
Sia ben chiaro, qualsiasi riflessione sul museo deve partire dalla analisi, ma anche dalla critica, del nostro tempo, altrimenti il dibattito diventa sterile. In questo senso va dato atto alla direttrice di aver riattivato un ampio dibattito su un museo che rischiava una certa marginalizzazione. Tuttavia è piuttosto facile ottenere attenzione in termini mediatici con una operazione radicale e scandalosa, soprattutto se si insegue un certo accanimento contro tutto ciò che viene considerato vecchio, dai funzionari dei beni culturali che mettono gli odiosi vincoli fino ai professori universitari che non comprendono i gusti della massa. Trovo infatti gravissimo che si sia cancellato, senza alcuno sforzo di confronto e di mediazione, l’allestimento della precedente direttrice, Maria Vittoria Marini Clarelli, realizzato solo pochi anni fa con il preciso intento di rendere più facile e suggestivo l’ordinamento cronologico che aveva voluto Sandra Pinto. Ogni direttore ha il diritto di dare la propria impronta ma il museo non è di sua proprietà, è un bene dei cittadini, di quelli di ieri e di quelli di domani, si dovrebbe garantire una certa continuità alla storia dell’istituzione. Dall’altra parte, cioè sul versante delle ricerche storico-critiche svolte in ambito universitario, la Collu ha evitato anche solo di ascoltare i pareri del comitato scientifico del museo, un organo consultivo appena insediatosi e voluto dalla stessa riforma ministeriale dei musei; dopo l’inaugurazione, due dei quattro membri si sono dimessi (Iolanda Nigro Covre e Claudio Zambianchi), gli altri due (Fabio Benzi e Flavio Fergonzi) sono rimasti in carica ma il primo ha scritto una dura lettera di dissenso al ministro e il secondo ha sollevato pubblicamente dubbi in un convegno a cui aveva invitato la Collu. Ora, se quattro consiglieri su quattro esprimono perplessità, un direttore dovrebbe farsi qualche domanda. Invece, come stavo dicendo, oggi venire criticati dai professori diventa una specie di vanto, basta vedere il livello di imbarbarimento dell’attuale dibattito politico. Del resto la vicenda della Gnam non è solo una questione culturale ma anche politica perché incarna tutte le contraddizioni delle riforme volute dal ministro Franceschini e di altre riforme del Governo che hanno attaccato la tutela dei beni culturali senza che il ministro competente opponesse resistenza. Non a caso, dopo le dimissioni dei due consiglieri, è prontamente intervenuta la deputata del Pd Lorenza Bonaccorsi per difendere la Collu da tutti coloro che si oppongono al “nuovo” che trionfalmente avanza. La mia non è una critica solo al Pd, anzi implica la constatazione che le posizioni culturali degli altri schieramenti politici sono ugualmente vicine al baratro. Del resto la riforma dell’intera struttura dei beni culturali ha scorporato i musei dal territorio, lasciando il capillare controllo del patrimonio diffuso e del paesaggio sempre più sguarnito e debole. Le vicende drammatiche degli ultimi mesi, con le scosse sismiche che hanno stravolto l’Italia centrale, ci obbligano a ripetere ancora una volta che il sistema di tutela e conoscenza del territorio dovrebbe essere potenziato, non svilito. Ecco, io vedo nell’appiattimento della Gnam verso un “modello Biennale” una conseguenza di questa filosofia. Molti anni fa Argan e Chiarante proposero per i beni culturali un ministero unito con la ricerca scientifica e l’università, invece si preferì unirli allo spettacolo e oggi anche al turismo. È chiaro che in questa ottica il problema non è mai la funzione conoscitiva del museo, ma l’evento, la suggestione, la condivisione. Naturalmente questi aspetti non sono negativi e a molti di sicuro la nuova mostra-museo piacerà, penso soprattutto agli artisti che preferiscono il “corpo a corpo” con le opere, forse anche alle famiglie che verranno a fare un giro senza l’angoscia di dover spiegare ai figli la storia. Ma si tratta solo della buccia della mela, c’è bisogno di arrivare anche alla polpa, perché poi i semi che portano frutto stanno in fondo. Il museo richiede una certa fatica e un certo tempo, il pubblico non va spaventato ma nemmeno impigrito. Oggi ci sono molti sistemi per rendere più avvincente la fruizione, per esempio sono interessanti gli esperimenti di realtà aumentata, che fanno vedere le opere nel loro contesto originario o in relazione ad altre cose, che abbinano multimedialità e interattività, per raccontare le molte piccole storie che formano la grande Storia, ma il primo esempio di realtà aumentata è l’accostamento sensato delle opere in una stessa sala, per farlo serve un progetto scientifico non il gusto della provocazione o il guizzo del vetrinista. L’unico antidoto alla disgregazione, frammentazione, liquidità, precarietà, del nostro tempo è la lentezza, la riflessione, l’interiorizzazione dell’esperienza conoscitiva, se io esco dal museo così come sono entrato, la mia visita non è servita ad altro che a staccare un biglietto. Le opere del passato, anche quelle di un passato recentissimo che arriva a ieri, raccontano delle storie, più sono lontane dal nostro tempo o dalla nostra cultura e più richiedono ascolto, il ricercare fili di senso che le collegano a noi. Non si tratta di attualizzare tutto, bisogna capire e immedesimarsi nelle vicende, nelle gioie, nei drammi, nei progetti di vite passate senza per questo farle parlare con la voce del nostro tempo. Quando questo avviene acquisiamo una duratura consapevolezza del flusso temporale in cui siamo immersi e allora forse, piano piano, non ci sentiremo più così alienati nella prigione della post-storia ma saremo un granellino che contribuisce a disvelare, come diceva Leopardi, “l’arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale”.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).