L’Icom a Praga ha fornito una nuova definizione di cosa debba intendersi per museo. Ma dal punto di vista prettamente giuridico come si devono inquadrare le punte di diamante del sistema museale statale? Il riferimento è ai musei autonomi. Su di essi il governo Meloni continua a investire. Se vogliamo, si tratta a sorpresa della promozione della Riforma Franceschini che arriva da un governo di destra, dopo aver subito per quasi due lustri il fuoco amico delle critiche. I diciassette nuovi musei dotati di autonomia speciale che si sono aggiunti ai 44 esistenti e l’avanzamento in prima fascia, una sorta di serie A dei musei italiani, di alcuni musei autonomi già voluti da Franceschini, come la Galleria dell’Accademia e i Musei del Bargello (accorpati) a Firenze, sono la conferma della bontà del corso impresso dal ministro della Cultura più longevo della storia della Repubblica italiana, a partire dal 2014, sotto entrambi i Governi Conte e quello Draghi. Dunque, in questo scenario di continuità la necessità di inquadrare a livello normativo i musei ad autonomia speciale si conferma anche con la nuova riorganizzazione del Ministero, discendente dal Decreto del Presidente del Consiglio 57/2024. Quest’ultima, lascia intatta, infatti, un’ambiguità riguardante la loro natura giuridica, che è stata già osservata per i parchi archeologici della Regione Siciliana in occasione del Convegno sul tema tenutosi all’Università di Messina nel 2022. Come questi ultimi anche i musei autonomi non sono enti pubblici strumentali, ma strutture organizzative del Ministero (laddove i parchi lo sono dell’Assessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana), seppur dotate di diversi profili di autonomia. Questa distinzione giuridica tra i musei statali è, del resto, confermata dal decreto ministeriale del 2014 sull’“Organizzazione e funzionamento dei musei statali”, che prevede la fattispecie dei musei dotati di personalità giuridica, come fondazioni museali o consorzi, definiti per l’appunto “enti”, distinguendoli, dunque, dai musei dotati di autonomia speciale. Facciamo il punto in questa intervista-conversazione con Lorenzo Casini, rettore e professore ordinario di diritto amministrativo nella Scuola IMT Alti studi Lucca. Casini è stato capo di Gabinetto del Ministero della cultura dal 2019 al 2022 e consigliere giuridico del Ministro Franceschini dal 2014 al 2018.
SM. Autonomi, ma non enti. Qual è lo status giuridico dei musei autonomi statali?
LC. Per lungo tempo, i musei statali sono stati uffici delle soprintendenze, privi di autonomia organizzativa e senza i tratti propri di una qualsiasi istituzione museale. È un tema antico e noto, ben descritto da Franco Russoli negli anni Settanta del XX secolo. A partire dalla fine degli anni Novanta è iniziato un percorso di riforma diretto a recuperare questo ritardo dell’Italia rispetto agli altri Paesi. È iniziato con la soprintendenza speciale a Pompei nel 1997, seguito dall’atto di indirizzo del 2001, dalle soprintendenze speciali per i poli museali a Firenze, Napoli, Roma e Venezia, ed è poi culminato con le riforme Franceschini degli anni 2014-2022. A seguito di questi interventi, oggi abbiamo appunto diverse ipotesi di musei statali. In primo luogo, vi sono i 60 istituti autonomi. Questi musei, parchi archeologici o complessi non sono enti pubblici, perché restano uffici del Ministero della cultura. Tuttavia, essi hanno lo status dirigenziale (di livello generale o non generale, con differenze quindi di stipendio per il direttore e di rapporti rispetto alle strutture centrali ministeriali) e, soprattutto, sono dotati di autonomia tecnico-scientifica, organizzativa e contabile: hanno un proprio statuto, un proprio conto bancario, un direttore, un consiglio di amministrazione, un comitato scientifico, un collegio dei revisori. In secondo luogo, vi sono le direzioni regionali Musei, da poco ridenominate Direzioni Regionali Musei nazionali. Questi uffici sono strutture dirigenziali periferiche della Direzione Generale Musei e hanno il compito di organizzare e gestire i musei non autonomi a esse afferenti. Sono state anch’esse dotate, con il nuovo regolamento, della stessa autonomia dei musei autonomi. Le ragioni di questa autonomia sono principalmente di natura contabile e di cassa, ma non è ancora chiaro come saranno costituiti effettivamente i loro organi. Le direzioni regionali sono quindi dei “poli”, che non dovrebbero essere gestite come musei, bensì come strumenti per assicurare il funzionamento dei musei non autonomi sotto la loro responsabilità. In terzo luogo, vi sono i musei e luoghi della cultura non autonomi, Questi uffici conservano lo status che tradizionalmente hanno avuto i musei statali. La differenza rispetto al passato, a seguito delle riforme Franceschini, è che oggi questi musei afferiscono a strutture periferiche dedicate ai musei (le direzioni regionali, appunto, e non più le soprintendenze), debbono comunque avere un direttore e uno statuto, sono inseriti nel sistema museale nazionale. In quarto luogo, vi sono i musei “statali" fuori dal Ministero, ossia quelle strutture, in prevalenza fondazioni, che sono stati costituti per legge (è il caso del Museo egizio o del MAXXI) oppure mediante accordi di valorizzazione con altri soggetti (come Villa Reale a Monza o il Museo Ginori di Doccia). Su questi musei il Ministero esercita un potere di vigilanza, oltre a finanziarli in modo più o meno importante.
Restiamo sui musei autonomi. Il loro regime giuridico che potremmo definire “ibrido” si spiega, forse, con la necessità di tenere insieme la maggiore autonomia a loro riconosciuta e il mantenimento di poteri di controllo e vigilanza centralizzati? Hanno un peso anche le ragioni di natura economica, giacché nessun museo sarebbe in grado di assumersi l’onere degli stipendi del personale, come avviene per gli enti pubblici strumentali?
Direi di sì. Se ci soffermiamo sui musei autonomi, appunto, qui è stato scelto un regime non dissimile da quello che la Francia adottò in un primo momento per il Louvre, prima di trasformarlo in un ente pubblico vero e proprio. Almeno in una prima fase, la scelta più ragionevole era quella di creare istituzioni autonome che fossero comunque dentro il Ministero. Questo ha comportato alcune rigidità organizzative, legate al fatto che i musei autonomi sono comunque uffici dirigenziali ministeriali. Mi riferisco al personale, per esempio, che dipende sempre dal Ministero, così come a tutte le regole che disciplinano l’amministrazione centrale dello Stato. La sua osservazione sull’autonomia finanziaria è corretta, anche se una maggior autonomia non impedisce di ricevere finanziamenti pubblici (basti pensare al caso delle fondazioni lirico-sinfoniche). In conclusione, il modello di autonomia prescelto dalla riforma Franceschini per iniziare ad avere musei statali italiani riconoscibili come istituzioni – un modello che origina dall’aggiornamento di quello delle soprintendenze speciali – è stato un primo passo necessario, ma chiaramente da valutare con attenzione a distanza di qualche anno e al netto della tragica vicenda rappresentata dalla pandemia.
Ritiene che siano necessari interventi normativi al fine di definire meglio il “modello autonomistico” di questi musei? e se sì, quali?
Con riguardo al modello di autonomia raggiunta all’interno del Ministero, non mi pare semplice immaginare ulteriori interventi di modifica. Il vero cambiamento, che andrebbe valutato caso per caso, sarebbe quello di ipotizzare un ulteriore passo verso forme più autonome, come quella di enti pubblici dotati di personalità giuridica (pensate al caso degli enti parco o anche delle università), o anche, ma mi sembra più problematico sotto il profilo della sostenibilità economico-finanziaria, quella della fondazione. Naturalmente servirebbe una norma di legge e soprattutto una quantificazione dei costi, non indifferente: a titolo di esempio, se gli Uffizi fossero trasformati in un ente pubblico vero e proprio o in una fondazione, vi sarebbe il problema immediato di trasferire alla nuova istituzione decine di milioni di euro per pagare il relativo personale pubblico (ammesso che questo non scelga di restare al Ministero).
A proposito di “modello” statale italiano, viene spesso “imparentato” (pressoché ignorando il precedente siciliano) a quello anglosassone o francese, seguito dagli anni Novanta anche da Germania e Spagna, con la trasformazione dei musei da enti pubblici a organismi, pur sempre prevalentemente pubblici, ma dotati di ampia autonomia gestionale e finanziaria. Tra questi livelli di autonomia rientra anche l’assunzione di personale? Come detto, i musei italiani in oggetto non hanno questa facoltà.
La ringrazio molto per questa domanda, perché consente di chiarire alcuni equivoci nati dopo la riforma. Il modello siciliano ci era ben presente, così come quello adottato da alcuni enti locali. In prospettiva comparata, il riferimento naturale è stato la Francia per tutta la parte riguardante la struttura ministeriale e la Direzione generale Musei (i nomi dei servizi dirigenziali italiani sono stati ispirati da quelli delle corrispondenti strutture francesi). Il Regno Unito è stato invece un riferimento, insieme con la Francia, per l’adozione dei livelli uniformi di qualità necessari per costruire il sistema museale nazionale. In termini più generali, la riforma Franceschini si è ispirata agli standard internazionali prodotti dall’ICOM: questi sono stati infatti richiamati più volte nelle norme di legge, nel regolamento di organizzazione e nel decreto sull’organizzazione sul funzionamento dei musei statali. Quanto alle risorse umane, ha centrato il punto, ossia i limiti per i direttori di musei autonomi di poter disegnare politiche del personale: anche questo deriva dalle regole sui Ministeri e solo una vera e propria entificazione potrebbe risolverlo, al momento.
A questo proposito, non potendo prevedere al momento un’entificazione dei musei statali, sostanzialmente per le ragioni economiche di prima, sarebbe giuridicamente possibile che ogni istituto autonomo effettuasse dei concorsi pubblici sulla base delle proprie necessità in materia di personale, restando il trattamento economico in capo all’amministrazione centrale?
Come ho detto, la strada verso una possibile trasformazione in enti pubblici dei musei statali non è fantasia. È quella seguita dal Louvre e sarebbe un naturale completamento del percorso di riforma e autonomia. Nelle more di questa possibile futura trasformazione, sono state trovate soluzioni ad hoc per il personale a tempo determinato o per gli esperti o i consulenti. Purtroppo per il personale a tempo indeterminato le regole dello Stato sono ancora molto rigide rispetto ai concorsi, principalmente per esigenze di controllo della spesa. Più volte si è cercato di introdurre modelli di maggior flessibilità e autonomia, ma senza successo.
Infine, dal piano giuridico a uno più squisitamente culturale e sociale: l’autonomia finanziaria potrebbe finire per mettere a rischio la finalità sociale che deve perseguire un’istituzione pubblica come un museo a vantaggio di un’elitarizzazione della fruizione? La sostenibilità di una gestione di questo tipo ha portato a un sensibile aumento del costo dei biglietti d’ingresso, in linea con la tendenza europea. C’è, d’altra parte, una reale questione dei costi di manutenzione di collezioni, sale e impianti. Escluse le condizioni di gratuità già previste per bambini e giovani, oltre alle diverse giornate di accesso a costo zero per tutti, una soluzione potrebbe essere quella di sostituire al costo di accesso fisso uno “flessibile” legato al reddito e alla condizione di residente? In altre parole la responsabilizzazione della dirigenza legata all’autonomia non dovrebbe essere intesa non solo in relazione ai risultati in materia finanziaria e di contabilità, ma anche di tenuta della democratizzazione della mission del museo?
Capisco i timori, ma mi paiono in larga misura non fondati. Innanzitutto, ricordiamoci che i musei sono istituzioni non profit e dunque le loro entrate non sono finalizzate a fare utili, bensì a finanziare interventi e coprire i costi. Ricordo sempre quel che disse Martin Roth, noto direttore del Victoria and Albert Museum di Londra, nel 2014 a un incontro di studio sui musei e sulla riforma italiana: i musei sono non profit, ma debbono essere gestiti “business like”. E faceva l’esempio di come la mostra su David Bowie organizzata dal suo museo avesse poi consentito di programmarne altre visitate da un pubblico limitatissimo perché ritenute di “nicchia”. Inoltre, le politiche di inclusione e ampliamento del ceto sociale delle persone interessate ai musei e al patrimonio culturale – per citare Massimo Severo Giannini – prescindono dai modelli organizzativi e dipendono da scelte politiche e finanziamenti complessivi. Al contrario, avere istituzioni museali autonome e meglio organizzate dovrebbe portare ancor di più a riconoscere nei musei quelle “powerful institutions” dedicate a conservazione, educazione, ricerca e comunicazione capaci di promuovere lo sviluppo della cultura. Sotto questo profilo, il caso del Museo Egizio è particolarmente eclatante: ci sono voluti diversi anni dalla sua creazione, ma oggi esso rappresenta un’eccellenza nel mondo sotto ogni profilo.
L'autrice di questo articolo: Silvia Mazza
Storica dell’arte e giornalista, scrive su “Il Giornale dell’Arte”, “Il Giornale dell’Architettura” e “The Art Newspaper”. Le sue inchieste sono state citate dal “Corriere della Sera” e dal compianto Folco Quilici nel suo ultimo libro Tutt'attorno la Sicilia: Un'avventura di mare (Utet, Torino 2017). Come opinionista specializzata interviene spesso sulla stampa siciliana (“Gazzetta del Sud”, “Il Giornale di Sicilia”, “La Sicilia”, etc.). Dal 2006 al 2012 è stata corrispondente per il quotidiano “America Oggi” (New Jersey), titolare della rubrica di “Arte e Cultura” del magazine domenicale “Oggi 7”. Con un diploma di Specializzazione in Storia dell’Arte Medievale e Moderna, ha una formazione specifica nel campo della conservazione del patrimonio culturale (Carta del Rischio).