Lino Guanciale: “la cultura dà riferimenti, e ci serve più di prima. Ma servono tutele”


Intervista esclusiva a Lino Guanciale, uno dei più apprezzati attori italiani contemporanei, su quello che sta accadendo nel mondo dei teatri. “Oggi”, dichiara, “a volerlo ascoltare, ci sarebbe un bisogno ancora più forte di prima della presenza della cultura come erogatrice di riferimenti per il futuro”.

Dopo mesi estremamente tribolati, alla fine della primavera il settore dello spettacolo dal vivo è ripartito, anche se con molte incertezze e tantissime difficoltà. E la situazione creata dalla pandemia di Covid-19 ha fatto emergere più che mai la precarietà del settore, oltre alla precarietà della cultura in generale. Perché però è così importante la cultura in questo frangente, perché ne abbiamo così tanto bisogno? E cosa dovremmo fare per garantirle un futuro? Abbiamo parlato di questi temi con l’attore Lino Guanciale, partendo dall’ultimo spettacolo che ha portato in scena lo scorso fine settimana all’Arena del Sole di Bologna, un reading dei Dialoghi di profughi di Bertolt Brecht. Ecco cosa ci ha detto. L’intervista è a cura di Ilaria Baratta.

Lino Guanciale. Ph. Credit Paolo De Chellis
Lino Guanciale. Ph. Credit Paolo De Chellis

IB. Al Teatro Arena del Sole di Bologna ha portato in scena (fino all’11 ottobre) i Dialoghi di profughi di Bertolt Brecht, che Lei ha definito “un testo della crisi, un testo generato da uno stato d’emergenza”, poiché compiuto durante l’esperienza d’esilio dello stesso scrittore. Un testo nato da un cambiamento, che si collega alla pandemia che ha colpito tutto il mondo negli ultimi mesi. Perché quindi Dialoghi di profughi è così attuale soprattutto in questo momento? Quali sentimenti in comune con l’attualità evidenzia il testo?

LG. Quello che il testo ha in comune con la nostra contemporaneità è il suo essere incentrato su uno sradicamento assoluto, nel senso che i due protagonisti sono stati letteralmente sradicati dal loro mondo d’appartenenza, la Germania democratica, che a sua volta è stata completamente annichilita e sradicata proprio come tutti coloro che furono costretti all’esilio, come Brecht, dalla furia nazista. Evidentemente questa realtà, questo sradicamento dei due personaggi, che sono tra l’altro molto diversi tra loro (e nel loro mondo di ieri non si sarebbero mai parlati, dal momento che uno è un proletario vero, e l’altro è uno scienziato che intuiamo essere alto-borghese), ha molto a che vedere con quello che tutti quanti noi, oggi, paghiamo sulla nostra carne, perché anche a noi, in qualche maniera, è stato strappato, in termini di sicurezze e di riferimenti, il mondo che avevamo fino a febbraio 2020. Esiste per tutti noi oggi uno stato d’emergenza, ovvero di angoscia permanente, che ci troviamo a dover imparare a gestire. Siamo quindi in una condizione senz’altro inaspettata, e questa improvvisa scomparsa dei riferimenti precedenti ha molto a che vedere con quanto succede ai protagonisti dei Dialoghi di profughi. Le differenze storiche sono evidenti, ma quello che noi abbiamo perso da febbraio è la granitica certezza che ormai la storia fosse finita, che tutto sommato si trattasse di un indefettibile progresso della civiltà occidentale in continuo sviluppo e crescita. E invece abbiamo imparato che non è così: anche questa consapevolezza della nostra precarietà è qualcosa che abbiamo assolutamente in comune con i protagonisti di questo testo di Brecht.

Ha scelto di leggere su Rai Radio3 il testo di Brecht il 15 giugno, in occasione della riapertura dei teatri dopo mesi di chiusura forzata a causa dell’emergenza sanitaria e ora la nuova stagione del Teatro Arena del Sole si è aperta proprio con questo spettacolo. In entrambi i casi è stato scelto per una ripartenza del mondo del teatro e della cultura. Quanto è importante la cultura per ripartire?

È fondamentale perché “ripartire” significa “ripartire in una qualche direzione”, ed è in questo senso che la cultura diventa determinante, perché che direzione prendere lo si riesce a immaginare, e poi a fare concretamente. Ci diamo dei riferimenti, delle coordinate orientative, e secondo me è la scena culturale a fornire queste coordinate, perché è con la cultura che si compone la visione analitica sia del futuro, sia del presente e anche del passato. È attraverso il movimento delle arti, attraverso il movimento delle scienze, da quelle umane a quelle naturali, che si riesce a costruire una traiettoria da prendere per il futuro, o almeno è così che dovrebbe essere. Non dovrebbe essere soltanto il metro di certi interessi, di certe convenienze miopi (perché tutto sommato tarate sull’istantaneo) a condurci nella nostra dimensione esistenziale. Oggi, in realtà, a volerlo ascoltare, ci sarebbe un bisogno ancora più forte di prima della presenza della cultura come erogatrice di riferimenti per il futuro.

L’emergenza sanitaria ha evidenziato ancora di più tutte le problematiche legate al teatro e allo spettacolo dal vivo. Ce ne vuole parlare? Cosa si aspetta dalle istituzioni?

Quello che è emerso è ciò che in realtà tutti sapevamo che esistesse, ovvero noi siamo oggi un paese privo di un vero e proprio sistema di tutele efficace per proteggere il lavoro intermittente quale è il lavoro del settore dello spettacolo. Mancando questa serie di strutture (in termini di previdenza sociale, di ammortizzatori, di giurisprudenze inerenti la difesa di alcuni diritti in caso di malattia, di perdita di lavoro e così via), è arrivata una condizione di emergenza che ha fatto piazza pulita del fragile equilibrio che si era costruito, probabilmente anche a partire da questa grande liquidità contrattuale del settore, che tutto sommato anche noi artisti abbiamo in qualche maniera assecondato, confidando nel fatto che questa liquidità si traducesse poi in libertà di movimento, in un valore. Quando l’emergenza si è accanita su tutta la nostra realtà ha creato delle conseguenze inimmaginabilmente gravi, perché nello spettacolo fidarsi di quella liquidità era sbagliato. Ed è stato sbagliato da parte dei lavoratori dello spettacolo e da parte delle istituzioni. Soltanto adesso, o meglio durante il lockdown, hanno concretamente assistito al paesaggio di rovine che, tutto sommato, prima era sotto il tappeto, ma non è che non esistesse. Per dirla più chiara, ha cominciato a soffiare un vento che ha scoperchiato tutte le contraddizioni. Quello che sicuramente non deve accadere è che si proceda con la costruzione di altri provvedimenti a tampone per il settore, di altra assistenza istantanea. Bisogna andare alla radice, bisogna mettere mano a un sistema giuridico, a un sistema di leggi che tuteli il lavoro intermittente del settore dello spettacolo. Significa anche per gli artisti, per i tecnici, per tutti i lavoratori del settore, farsi carico delle responsabilità che conseguono al riconoscimento di certi diritti. Ma le istituzioni sono assolutamente chiamate a dare questo non solo ai lavoratori dello spettacolo, ma al paese, perché senza questo sistema di tutele radicato su modello francese, belga, tedesco, paesi in cui questo sistema di tutele esiste in maniera più seria, il futuro è la desertificazione del settore, perché nessuno di noi può sapere quanto durerà e neanche quanto dureremo, perché fare il nostro mestiere in queste condizioni è molto, molto difficile.

Lino Guanciale e la violinista Renata Lackó in Dialoghi di profughi. Ph. Credit Paolo De Chellis
Lino Guanciale e la violinista Renata Lackó in Dialoghi di profughi. Ph. Credit Paolo De Chellis

Sono trascorsi quasi quattro mesi dalla riapertura dei teatri. Come vede la situazione attuale? Com’è stata la risposta del pubblico?

La risposta del pubblico c’è stata, al netto della paura e dei timori che un’ampia fetta di pubblico (penso a quello più anziano, magari tradizionalmente tendente ad abbonarsi ai grandi o medi teatri) ha dimostrato, perché è legittimo avere timore ad andare in un luogo chiuso, dove ti trovi, per ore, con tanta altra gente. In realtà stiamo scoprendo forse che un teatro, dove si sta distanziati e con la mascherina, rischia di essere... più sicuro di molti altri luoghi. Dato questo, il pubblico, ovviamente secondo la mia esperienza personale, sta rispondendo, nel senso che ha ripreso ad andare a teatro. Tuttavia, a fare la differenza è la prospettiva da cui si guardano le cose: io ho ricominciato a fare delle serate, a fare spettacoli in teatro, ho cominciato anche a fare una regia per il teatro di Emilia Romagna Teatro, però mi rendo anche conto che la mia è una situazione in qualche modo privilegiata: stanno lavorando (e hanno ripreso a lavorare) attori che potremmo definire attrattivi dal punto di vista del mercato e attrattivi nei confronti del pubblico. Che il sistema in qualche modo sia ripartito, pur tra miliardi di incognite, è sano, ma bisogna pensare anche a tutti quei lavoratori (tra artisti, tecnici, professionalità connesse alla scena) che invece sono a casa. Il teatro e la danza sono i settori che soffrono di più, mentre invece, in qualche modo, i set di cinema e televisione hanno ripreso a lavorare. Non bisogna farsi ingannare dall’idea che tutti siano ripartiti. Noi abbiamo deciso di segnalare simbolicamente la data del 15 giugno con la messa in scena radiofonica di Dialoghi di profughi anche per significare, insieme a Radio3 e a Emilia Romagna Teatro, che si trattava di una ripartenza problematica che poteva aver luogo, in determinati contesti e a determinate condizioni, ma che non significava assolutamente tornare alla normalità. Si è molto lontani dalla normalità, ma purtroppo si è anche molto lontani dall’avere direzioni chiare e affidabili, che riescano a garantire ai teatri che vogliono ripartire di poterlo fare, con addosso soltanto la responsabilità di cercare di ottimizzare le proprie risorse, non con davanti il baratro certo di vederle esaurite o di vedere annichilite le proprie possibilità.

Per concludere, il suo prossimo spettacolo La mia infinita fine del mondo parlerà di apocalissi, di precarietà e di possibilità che si aprono dalla fine. Un altro spettacolo teatrale che si lega alla crisi della pandemia. Ce ne vuole parlare?

La mia infinita fine del mondo è nato durante il lockdown dall’incontro (via Zoom per altro) tra me e Gabriel Calderón, geniale drammaturgo uruguayano, che come sintesi del dialogo intercorso tra noi due ha distillato questo testo, estremamente intelligente e credo anche intelligentemente divertente, che da un lato presenta degli esempî di varie apocalissi vissute non solo dall’umanità, ma dal pianeta Terra in generale, e dall’altro cerca di aiutare lo spettatore a problematizzare il tema della fine nella maniera più vicina possibile, cioè a portare nelle vite di ognuno il tema della fine di qualcosa e dell’inizio di qualcos’altro. S’intrecciano triceratopi e pterodattili che guardano sognanti il meteorite che sta per mettere fine alla loro esistenza sulla Terra e le vicende di una famiglia alle prese con la fine della propria capostipite. Non viene mai adombrata nel testo l’attualità della condizione pandemica: alcuni segni rimandano alla nostra attualità ma il rapporto con l’attuale è piuttosto sfumato, perché quello che Gabriel è riuscito a costruire è, credo, un discorso più generale su quante rimozioni, quante frustrazioni generi il fatto che non sappiamo rapportarci alla fine delle cose. Sia che si parli ovviamente della morte sia che si parli dell’esaurimento di un ciclo delle nostre stesse vite, però io credo che un messaggio importante da dare è che spesso quello che si crede una fine è forse la crisi più piena di opportunità. Anche facendo l’esempio del discorso sui lavoratori dello spettacolo di cui si parlava poco fa e su cui ci sarebbe ancora tanto da dire, beh... se non ora quando: per decennî ci abbiamo girato intorno, non siamo stati capaci di concentrarci sulla definizione di strumenti di tutela, adesso siamo proprio obbligati a cercare di darceli. Credo che questa sia in qualche modo non una bella occasione (perché di bello non c’è proprio niente in quello che sta succedendo), ma una chance che la storia ci dà per mostrarci all’altezza.


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Ilaria Baratta

L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta

Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.






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