Il giovane Francesco Guzzetti, studioso di Arte Povera: “Ecco come studio l'arte italiana negli Stati Uniti”


Intervista a Francesco Guzzetti, giovane studioso di Arte Povera che lavora negli Stati Uniti.

Francesco Guzzetti, nato a Lecco nel 1988, è un giovane studioso italiano che da qualche tempo ha avviato delle approfondite e originali ricerche sull’Arte Povera. Dopo il dottorato alla Scuola Normale Superiore di Pisa, si è trasferito in America, dove ha lavorato al Center Italian for Modern Art, all’Università di Harvard e quindi alla fondazione Magazzino Italian Art, per la quale ha curato la mostra Paper media: Boetti, Calzolari, Kounellis al Samuel Dorsky Museum di New Paltz (New York). Francesco Guzzetti è attualmente Post-Doctoral Fellow presso il Drawing Institute della Morgan Library and Museum a New York, dove resterà fino all’estate 2020. È negli Stati Uniti da quattro anni e ha maturato una significativa esperienza nel suo campo di studî: con lui abbiamo parlato delle sue ricerche sull’Arte Povera e abbiamo cercato di comprendere quali sono le differenze tra studiare arte in Italia e farlo negli Stati Uniti. L’intervista è a cura di Ilaria Baratta.

Francesco Guzzetti. Ph. Credit Marco Anelli, 2019
Francesco Guzzetti. Ph. Credit Marco Anelli, 2019

IB. Fino a luglio 2019, lei è stato il primo “Scholar-in-Residence” di Magazzino Italian Art, con sede a Cold Spring, New York, ed è curatore dell’attuale mostra Paper media: Boetti, Calzolari, Kounellis presso il Samuel Dorsky Museum. Come vive questi ruoli di grande rilevanza?
FG. È un grande privilegio ed è una grande opportunità: la curatela della mostra del Dorsky nasce di conseguenza alla mia fellowship a Magazzino, durata un anno e nata su proposta del direttore Vittorio Calabrese e dei fondatori Nancy Olnick e Giorgio Spanu. Mi trovavo comunque già negli Stati Uniti da prima, con una fellowship ad Harvard, nell’ambito della quale ho conosciuto il direttore Calabrese, e da questa proposta è nata questa esperienza straordinaria: questa di Magazzino è stata una grandissima opportunità sia per il mio lavoro di ricerca (dalla mia tesi di dottorato in avanti mi sono sempre occupato di Arte Povera), sia dal punto di vista umano. Come conclusione di questo mio anno di fellowship a Magazzino, durante il quale ho assistito Nancy e Giorgio alla creazione di un centro di ricerca (si è creata peraltro una struttura che nel corso degli anni sarà sempre più efficace ed efficiente, nonché pronta alle esigenze dei futuri borsisti), è arrivata la proposta di curare questa mostra: il progetto nasce anche dalla volontà di Nancy e di Giorgio di creare una rete di rapporti di collaborazioni tra Magazzino e le istituzioni dell’Hudson Valley, che è una miniera di centri culturali, musei, istituzioni e iniziative private (neppure io ne avevo idea prima di arrivare qua!). Magazzino ha avuto una risposta abbastanza stupefacente da parte della comunità: stupefacente perché Magazzino è un museo di arte italiana, quindi non c’è un legame diretto con il retroterra culturale di questa zona, però la risposta dalle comunità locali è stata veramente fantastica, e in virtù di ciò Magazzino sta cercando, e cercherà negli anni, di creare delle collaborazioni. Anche per questa ragione è nata una collaborazione con il Dorsky Museum, che è il museo di SUNY - State University of New York, una rete molto grande di università che coinvolge l’area di Manhattan e altri centri nello stato di New York tra cui New Paltz, città dell’Hudson Valley nel cui campus si trova questo museo, molto importante anche dal punto di vista della collezione. Cercando di trovare un tema che attingesse dalla straordinaria collezione di Nancy e di Giorgio ho pensato, anche in virtù dei miei specifici temi di ricerca attuali, che il disegno potesse essere un argomento interessante, e da qui è nato il progetto della mostra, basato sul fatto che nella raccolta ci sono dei nuclei particolarmente significativi di opere su carta dei tre artisti della mostra. Avremmo potuto farlo anche con altri artisti, ma devo dire che i nuclei dei lavori su carta di Boetti, Calzolari e Kounellis in Collezione Olnick Spanu sono veramente di qualità altissima.

Quali sono i pezzi più importanti tra quelli in mostra?
Occorre intanto premettere che, a mia conoscenza, si tratta della prima mostra dedicata esclusivamente ai lavori su carta dell’Arte Povera negli Stati Uniti. In generale quello del disegno nella pratica degli artisti di quegli anni è un tema ancora non molto studiato. In realtà, negli anni recenti ci sono state diverse occasioni, diversi studî, monografie, articoli che hanno gettato un po’ di luce anche sulle pratiche di alcuni artisti in particolare, da Paolini a Penone, e qualche affondo è stato fatto in questi ultimi anni, però manca ancora una ricognizione organica. Credo che sia stata fatta solo una mostra collettiva, finora, dedicata solo ai disegni dell’Arte Povera: una mostra che curò Gianfranco Maraniello a Porto Alegre in Brasile nel 2014, e che fu l’unica occasione in cui si fece un po’ di punto sulla pratica del disegno nell’Arte Povera in generale. Ci sono stati poi degli studî sui singoli artisti e sono state fatte delle antologie del disegno precedenti, ma non è stato fatto ancora uno studio organico e approfondito sulla pratica del disegno nell’Arte Povera: la mostra vorrebbe gettare una luce su questo argomento, in particolare negli Stati Uniti, dove credo sia la prima volta che venga fatta una mostra del genere, che ha anche a che fare coi miei temi di ricerca attuali e che ora, terminata la fellowship a Magazzino, continuerò alla Morgan Library di New York proprio con un progetto sul disegno nell’Arte Povera. Ci sono dei pezzi molto importanti, e se devo citarne alcuni di significativi potrei menzionare, per esempio, un lavoro su carta della serie degli Alfabeti di Kounellis del 1960, tre lavori di Calzolari degli anni storici non solo dell’artista ma anche dell’Arte Povera (1967, 1968, 1969: e tra l’altro adesso a Napoli c’è anche la mostra sul disegno e sulla pittura nel lavoro di Calzolari), e ancora di Boetti ci sono cose strepitose, come un esemplare del famoso invito alla prima personale di Boetti del 1967 alla Galleria Christian Stein di Torino (inviti in cui Boetti aveva incollato pezzetti di ciascun materiale di cui erano fatte le opere esposte in mostra), c’è una tiratura molto bella del portfolio dedicato alle dodici forme dal 10 giugno 1967. C’è un grande foglio del 1980 di Kounellis, popolato di teste a inchiostro che ricordano Munch. La mostra non è grandissima, anzi è abbastanza piccola come numeri, ma abbiamo cercato di selezionare opere di qualità che potessero restituire (anche a un pubblico che non necessariamente ha familiarità né con l’Arte Povera, né con questi artisti, né con il disegno in Italia in quegli anni) l’importanza di questa pratica e dare il senso di questo lavoro anche andando oltre la cronologia storica dell’Arte Povera (perché si parte dal 1960 con Kounellis e si arriva al 1987 con Boetti). Quindi l’idea è anche quella di concentrarci, nei limiti di una mostra piccola, anche sulle premesse e sul prosieguo dei lavori di questi artisti anche dopo i tre-quattro anni storici dell’Arte Povera.

Mostra Paper Media: Boetti, Calzolari, Kounellis, a cura di Francesco Guzzetti al The Samuel Dorsky Museum of Art di New Paltz, fino all'8 dicembre 2019. Ph. Credit Alexa Hoyer
Mostra Paper Media: Boetti, Calzolari, Kounellis, a cura di Francesco Guzzetti al The Samuel Dorsky Museum of Art di New Paltz, fino all’8 dicembre 2019. Ph. Credit Alexa Hoyer


Alighiero Boetti, Senza titolo (invito Stein) (1966-1967; carta, tessuto camouflage, plexiglass, sughero, tubo P.V.C., eternit, rete metallica, rame, alluminio, compensato, filo elettrico). Courtesy Olnick Spanu Collection
Alighiero Boetti, Senza titolo (invito Stein) (1966-1967; carta, tessuto camouflage, plexiglass, sughero, tubo P.V.C., eternit, rete metallica, rame, alluminio, compensato, filo elettrico). Courtesy Olnick Spanu Collection


Pier Paolo Calzolari, Senza titolo (1968; salgemma, cartone dipinto). Courtesy Olnick Spanu Collection
Pier Paolo Calzolari, Senza titolo (1968; salgemma, cartone dipinto). Courtesy Olnick Spanu Collection


Jannis Kounellis, Segnali (1960; tempera, colla su carta). Courtesy Olnick Spanu Collection
Jannis Kounellis, Segnali (1960; tempera, colla su carta). Courtesy Olnick Spanu Collection

Il Magazzino Italian Art Foundation è Centro di ricerca sull’arte italiana del dopoguerra e contemporanea e prevede anche un programma annuale di borse di studio per finanziamenti a studiosi emergenti che perseguino progetti di ricerca indipendente. Attraverso la Sua attuale mostra, la prima in America su questo movimento, Lei presenta l’Arte povera agli Stati Uniti, in particolare le opere su carta di Boetti, Calzolari e Kounellis. Si può dire quindi che l’America abbia scoperto un interesse per l’Arte povera e per l’arte italiana del Dopoguerra in poi? Da cosa si è generato questo interesse?
Sicuramente da una parte c’è una tradizione di mostre in America dedicate all’arte italiana del Dopoguerra e anche agli artisti dell’Arte Povera: si pensi alla mostra Young Italians curata nel 1968 da Alan Solomon (che aveva anche curato il famigerato padiglione statunitense della Biennale del 1964) al Jewish Museum di New York, e lì c’erano Kounellis, Pascali, Castellani, Bonalumi, Ceroli, Pistoletto e molti altri. Allora costituivano la nuova generazione di artisti italiani e si trattò di una mostra davvero epocale. Poi ci sono stati alcuni singoli musei che hanno fatto mostre monografiche su alcuni importanti artisti: per esempio, il Walker Art Center di Minneapolis ha fatto mostre su Pistoletto, Fontana, Mario Merz. Le gallerie fanno tanto: la Galleria Sonnabend organizza a New York mostre di artisti dell’Arte Povera fin dalla fine degli anni Sessanta, e così poi fa John Weber. Si pensi poi a un ulteriore momento fondamentale, ovvero la mostra The Knot dedicata all’Arte Povera e all’arte italiana di quella generazione, che Germano Celant curò al PS1 di New York nel 1985 (poi Celant avrebbe curato, pochi anni dopo, la grande mostra di Mario Merz al Guggenheim). Ci sono insomma varî momenti di interesse, sia per le singole figure, sia in generale per l’arte italiana e l’Arte Povera in particolare negli Stati Uniti. È vero che, anche secondo me, in questi anni c’è stata una ripresa consistente, che da una parte ha a che fare con tutto un ambito che io conosco molto poco e che è il mercato: si pensi che solo nel 2017 c’erano, più o meno in contemporanea, in tre delle gallerie più importanti di New York, tre mostre dedicate all’Arte Povera (Hauser & Wirth presentava la mostra della collezione Goetz, una straordinaria raccolta, di qualità altissima, di Arte Povera, da Levy Gorvy si teneva la mostra Ileana Sonnabend and Arte Povera, curata da Germano Celant, con le opere degli artisti dell’Arte Povera presentate dalla Galleria Sonnabend tra Parigi e New York negli anni Sessanta e Settanta, e poi Luxembourg & Dayan, che si occupa spesso di cose italiane, organizzava una mostra sull’eredità e sulla fortuna degli artisti dell’Arte Povera, che erano messi a confronto con artisti delle generazioni successive). Poi ovviamente ci sono le gallerie che rappresentano gli artisti dell’Arte Povera, per esempio Marian Goodman, Marianne Boesky, o Gagosian che rappresenta Penone (l’anno scorso peraltro è uscito per Gagosian un importante volume riepilogativo su tutto il lavoro di Penone, curato da Carlos Basualdo, curator del Contemporary Art Department del Philadelphia Art Museum). In questo momento è forte l’interesse verso l’Arte Povera, per ragioni di mercato e per ragioni d’interesse culturale: è un momento particolarmente buono, e su questo Magazzino si colloca in una posizione duplice, nel senso che da una parte è uno specchio della situazione del tempo di questo momento, ma dall’altra ha anche anticipato molto, precorrendo un interesse che si sta sviluppando in questi anni. Anche la mostra che c’è stata su Lucio Fontana al Met Breuer (per quanto cercasse di trovare anche delle radici latinoamericane nel lavoro di Fontana), o la mostra di Burri al Guggenheim curata da Emily Braun, sono altre tracce di questo interesse. Un interesse che poi, peraltro, si estende anche a figure come Vincenzo Agnetti o Fabio Mauri, che hanno avuto un ruolo fondamentale in quegli anni pur non avendo fatto parte dell’Arte Povera. Non dimentichiamoci che oggi noi tendiamo a far coincidere l’arte di quegli anni con l’Arte Povera, ma ci furono comunque figure molto rilevanti che ne rimasero al di fuori.

Lei ha curato esposizioni sia in Italia (a Lecco, a Milano) che negli Stati Uniti. Come cambia, se cambia, secondo Lei, il ruolo del curatore in Italia e in America?
Posso dire che, per questa mia ultima esperienza, il fatto di potersi appoggiare su di un team fortissimo come quello di Magazzino e su un team di grandi professionisti come quello del Dorsky (la mostra è coprodotta) ha consentito anche a me di potermi dedicare maggiormente al lavoro di scelta delle opere, di allestimento, di catalogo (la mostra avrà un catalogo impegnativo, nel senso che è stato fatto un lavoro di ricerca sui singoli pezzi, che sono in larga parte inediti). Insomma il fatto di aver avuto tempo di dedicarsi pienamente e liberamente a questo lavoro (soprattutto alla scrittura del catalogo, che per me è fondamentale) è un grande vantaggio, che non ho riscontrato nelle mie esperienze in Italia: in Italia si doveva essere pronti a intervenire su qualsiasi fronte dell’enorme macchina che una mostra muove (dagli aspetti burocratici a quelli organizzativi). Ecco, forse in Italia dobbiamo essere un po’ più presenti a 360 gradi.

La sede di Magazzino Italian Art. Ph. Credit Marco Anelli
La sede di Magazzino Italian Art. Ph. Credit Marco Anelli


The Samuel Dorsky Museum of Art
The Samuel Dorsky Museum of Art

Inoltre Lei ha studiato e insegnato in realtà universitarie di grande pregio, come la Scuola Normale di Pisa e l’Harvard University. Cosa l’ha spinta a dirigersi verso l’America? Quanto sono differenti, secondo Lei, le offerte formative nell’ambito dell’istruzione in Italia e in America?
Io più che altro ho fatto ricerca, e personalmente, fino a qualche anno fa, non sapevo che mi sarebbe piaciuto così tanto fare esperienza negli Stati Uniti: tutto è partito perché feci un’application quand’ero ancora studente di dottorato alla Normale per una fondazione di New York, il Center for Italian Modern Art (CIMA) creato da Laura Mattioli. Devo dire che è stata un’esperienza bellissima, indimenticabile e fondamentale per me: al di là dei ricordi molto belli legati al CIMA, è stata l’occasione di vivere a New York per un periodo lungo (un anno), tale da rendersi conto che la dimensione di questa città è totalmente diversa rispetto a quella delle nostre, sotto il punto di vista della vivacità e della vitalità (anche troppo forse, nel senso che torna difficile seguire tutto). Negli Stati Uniti comunque le opportunità sono tantissime, soprattutto quando si è alla prima esperienza, perché l’entusiasmo è generale. Da lì decisi che mi sarebbe piaciuto provare a restare negli Stati Uniti un po’ più a lungo e ho dunque cominciato a fare altre application. La cosa bella che l’America offre sono proprio le application: ce ne sono molte, sia all’università che nei centri di ricerca, che hanno molti programmi di fellowship semestrali o annuali. Solitamente si va per quantità, nel senso che si cerca di farne il più possibile sperando che almeno una vada bene. E un altro aspetto interessante è che nell’ambito delle fellowship si stringono relazioni che poi aprono ad altre possibilità. Le differenze con l’Italia ci sono ma non sempre sono positive: è vero che ci sono molte opportunità, ma è anche vero che la competizione è molto forte, nel senso che ci sono migliaia di persone che provano a concorrere per la stessa opportunità. Tuttavia l’idea di assorbire il lavoro di studiosi dall’estero nei centri di ricerca delle università americane è molto forte, qui è una tradizione: l’Italia non ha questa tradizione, al di là di alcuni centri (penso per esempio al Kunsthistorisches Institut di Firenze, l’Hertziana a Roma, l’American Academy di Roma, l’Accademia di Francia a Villa Medici: tutti centri che peraltro hanno affiliazioni straniere, a riprova del fatto che l’Italia, da sé, difficilmente fa cose di questo tipo).

Consiglia ai giovani studiosi italiani di andare negli Stati Uniti, o comunque all’estero, per ottenere maggiori soddisfazioni?
Secondo me, al di là delle soddisfazioni che può dare, un’esperienza all’estero è utile in generale. Io per esempio ripenso anche alla possibilità di tornare in Italia diversamente rispetto a qualche anno fa. Dopo l’esperienza al Center for Italian Modern Art, il mio sogno era rimanere negli Stati Uniti. Adesso anche io ripenso all’idea che forse a un certo punto non sarebbe male tornare in Italia: è vero che le strutture accademiche sono molto diverse (per esempio, i dottorandi americani insegnano, quelli italiani no), ma in generale anche un’esperienza di un anno solo, se non di qualche mese, potrebbe essere utile, perché apre la mente. Si percepisce un’altra dimensione, ed è un bagaglio culturale che fa bene anche quando si torna in Italia, nel caso lo si voglia fare. Quindi è un consiglio che do sicuramente.

Per concludere, quali sono i suoi progetti futuri?
Ora ho una borsa di ricerca di un anno alla Morgan Library con un progetto sul disegno nella pratica degli artisti dell’Arte Povera, soprattutto negli anni Settanta, in dialogo con l’arte postminimalista e concettuale americana. Sto inoltre cercando di lavorare a un’idea di libro su questi argomenti di cui comincerò a occuparmi l’anno prossimo. Nel frattempo farò altre application per fare un altro anno di Stati Uniti dopo la Morgan, e poi mi piacerebbe cominciare a fare esperienze d’insegnamento: questa è la prospettiva che mi piace. Ora però rimango concentrato sui progetti attuali!


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Ilaria Baratta

L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta

Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.






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