Il disegno è scultura nuda e cruda. Conversazione con Riccardo Gemma


“Penso spesso al disegno come scultura nuda e cruda: è il disegno che pensa di essere, io sono solo il tramite”. Una conversazione con Riccardo Gemma, grafico e disegnatore, che ci parla della sua arte.

Una conversazione con Riccardo Gemma (Roma, 1963), grafico e disegnatore che ci parla della sua arte. Dopo il Liceo Artistico si diploma allo IED, come grafico lavora da freelance, prevalentemente nell’editoria per l’arte contemporanea. Ha collaborato con innumerevoli artisti, gallerie, fondazioni, musei. Tuttora, tra gli altri, collabora con il Palazzo delle Esposizioni di Roma e il Maxxi. Ha inoltre progettato e realizzato l’immagine per eventi d’arte contemporanea ed altri eventi istituzionali. Come artista ha esposto alla Galleria Ugo Ferranti (Roma) nel 2008, all’open studio di Via Portonaccio (Roma) nel 2009, ha partecipato alle rassegne di FourteenArtTellaro (Tellaro, La Spezia) nel 2019 e nel 2022.

GL: Ciao Riccardo, per la maggior parte degli artisti i primi “sintomi” di questa grave malattia chiamata arte si manifestano già nella prima infanzia nelle maggior parte dei casi in modo inconsapevole, talvolta trasmessi da parenti più o meno prossimi. È successo così anche a te?

RG. La prima cosa che va detta è che a casa nostra ci sono stati sempre molti libri, di tutti i generi, dalle enciclopedie ai libri di storia dell’arte, dalla letteratura alle riviste di architettura e design, fino ai fumetti, naturalmente. Mio padre era appassionato di architettura e arredamento, di cose “moderne” diciamo, mia madre invece aveva una formazione classica, amava la musica sinfonica, le chiese antiche e Ingmar Bergman. Di chiese antiche e musei ne abbiamo visitati tanti da piccoli, nei viaggi con i genitori, tuttavia, di cose da guardare e assorbire ce n’erano tante in casa. Passavo ore a sfogliare i libri e a “guardare le figure”, tante figure, tantissime (una scoperta continua) e a leggere fumetti come tutti i ragazzini. Credo che la mia passione per le “figure” sia nata proprio grazie ai tanti libri che avevamo, quindi una passione non proprio nata direttamente dalle persone. Tuttavia avevo uno zio e un nonno che dipingevano per hobby, per cui immagino che qualcosa devo avere ereditato. Soprattutto dal punto di vista dell’hobby. A proposito di mio zio, mi ricordo un piccolo quadro che aveva dipinto e che da bambino mi piaceva moltissimo. Era il ritratto di un signore con un’espressione intensa e severa, con la barba e una maglia a strisce. A quel tempo non sapevo chi fosse quel signore e questo fatto di non sapere, questo “enigma”, mi piaceva. Poi molti anni dopo, sempre nei libri, ho scoperto che quel signore era Henri Matisse, copia dell’autoritratto del 1906. Di conseguenza, ho anche capito perché mi piacesse così tanto. In un libro di storia dell’arte scoprii la Crocefissione di Francis Bacon, accanto a Burri, a Moore, a Giacometti, a Warhol. Mi incantavo, mi piacevano tutti. Erano momenti prossimi alla felicità. Tuttavia non sapevo e non capivo. Non capivo niente. Il punto importante, credo, sta proprio in questo “non capire”. Ti avvicina alle cose in modo diretto, istintivo, primitivo, felice. Ti sembra di vedere ancora più in là, qualcosa di più grande e di straordinario, che probabilmente non esiste. è uno stato emotivo, i primi accenni di spiritualità. Il non capire è una promessa di rivelazione, è il “mistero laico” di Jean Cocteau, è il primo tempo sacro.

Hai mai avuto la voglia di impadronirti di queste immagini attraverso il disegno copiandole per farle tue?

Sì certo, ma più del desiderio di impadronirmi di un’immagine copiandola, c’era questa innata spinta all’emulazione. A tutt’oggi, quando vedo una cosa che mi piace (un quadro, una scultura, un video, un film, la grafica di un libro), istintivamente mi viene voglia di rifare qualcosa di simile, qualcosa che sia all’altezza, ma a modo mio. Naturalmente succede molto di rado, ho anche imparato a godermi le cose senza “ansia da prestazione”, tuttavia questa fibrillazione è sempre presente. Senonché, da ragazzino, leggendo tanti fumetti (supereroi perlopiù) mi veniva voglia di farli anch’io. Ma non li copiavo, li guardavo, li studiavo, poi chiudevo l’albo e iniziavo a disegnare personaggi miei “alla maniera di”. Questo è un metodo che mi veniva naturale, spontaneamente. Credo che sia un buon esercizio per metabolizzare le cose facendole proprie in modo originale, cercando di attingere alle proprie risorse emotive, anche, naturalmente, attraverso la memoria e a quello che ti ispira. Un esercizio tecnico, ma anche un esercizio spirituale. Poi però, più avanti, ai tempi del liceo, ho iniziato anche a copiare le foto che mi piacevano che trovavo nelle riviste. Le copiavo a matita, nel modo più preciso e analitico possibile (mi ero un po’ fissato con gli iperrealisti). Così ho imparato il chiaroscuro, cosa che non avevo mai imparato e capito copiando dal vero. Ed è a questo punto che arriva il problema: il mio limite a comprendere la realtà che mi circonda. Stavo imparando a capire le immagini e nel frattempo sfuggivo alla comprensione della realtà. La intuivo, appunto, attraverso le immagini. Così ho iniziato a fare le foto con la reflex (altro ottimo esercizio di formazione), foto che poi ridipingevo ad olio. Anche questo è un processo di appropriazione interessante.

Riccardo Gemma, Esercizi spirituali (2022; penna biro e inchiostro, 22 x 16 cm)
Riccardo Gemma, Esercizi spirituali (2022; penna biro e inchiostro, 22 x 16 cm)
Riccardo Gemma, Testa (maschera funebre) (2022; penna biro e pennarello, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Testa (maschera funebre) (2022; penna biro e pennarello, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Schema ripetitivo rotellare (2022; penna biro, stampa digitale, 21 x 29,7 cm)
Riccardo Gemma, Schema ripetitivo rotellare (2022; penna biro, stampa digitale, 21 x 29,7 cm)
Riccardo Gemma, Boris Vian-Io non vorrei crepare (2022; penna biro e inchiostro, 25 x 34 cm)
Riccardo Gemma, Boris Vian - Io non vorrei crepare (2022; penna biro e inchiostro, 25 x 34 cm)
Riccardo Gemma, Figurina (2022; penna biro e inchiostro, 15 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Figurina (2022; penna biro e inchiostro, 15 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Tauromachia (2022; penna biro, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Tauromachia (2022; penna biro, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Niente (schema) (2021; penna biro e salsa di soia, 21 x 15 cm)
Riccardo Gemma, Niente (schema) (2021; penna biro e salsa di soia, 21 x 15 cm)
Riccardo Gemma, Schema (Partituram) (2018; penna biro e pennarello, 21 x 15 cm)
Riccardo Gemma, Schema (Partituram) (2018; penna biro e pennarello, 21 x 15 cm)
Riccardo Gemma, Cane transdimensionale (2018; penna biro e acrilico, 23 x 30 cm)
Riccardo Gemma, Cane transdimensionale (2018; penna biro e acrilico, 23 x 30 cm)

Quale è stato il tuo iter scolastico? Durante i tuoi studi hai fatto degli incontri con persone che si sono rivelati importanti per i successivi sviluppi del tuo lavoro?

Ho fatto il liceo artistico e poi mi sono diplomato allo IED nel corso di grafica. La grafica sarebbe poi diventata il mio lavoro. Con alcuni compagni di liceo strinsi un’amicizia che, più o meno, dura ancora. Devo dire che sono stato fortunato, diciamo che la mia formazione culturale in senso più contemporaneo (ma non solo), la devo a loro. Erano ragazzi curiosi e intuitivi, più avanti di me. Si parlava di tutto, di arte naturalmente, di cinema, di musica, di libri, di cose nuove. Io ascoltavo e imparavo. C’era sempre qualche nuova scoperta sulla quale dissertare e ragionare. Si parlava di artisti, di persone e di ragazze. Ho imparato molto, ma la cosa più importante è che con loro ho sviluppato una certa sensibilità critica ed estetica rispetto all’arte e, in qualche modo, rispetto alla vita. E poi, anche se ancora molto giovani, loro avevano già le idee abbastanza chiare: sarebbero diventati artisti, o scrittori, chissà. Così, negli anni dopo il liceo, mi introdussero ai misteri dell’arte contemporanea e conobbi tanti altri artisti, e critici e galleristi, e di conseguenza feci nuove amicizie nell’ambiente romano. Nel frattempo continuavo a disegnare per me, a fare fotografie, a dipingere un po’. Anche allo IED conobbi persone con cui condividere la passione per la grafica e con le quali iniziai anche a lavorare. In ogni modo il mio lavoro di grafico si è poi sempre più svolto nel e per il mondo dell’arte contemporanea, dove effettivamente mi sono sentito più di casa, diciamo, essendo ormai avvezzo alla materia. E qui si chiude il cerchio. O un cerchio, non lo so ancora bene.

In quegli anni hai mai avuto voglia di fare l’artista anche tu?

A dire il vero avevo le idee piuttosto confuse. Sapevo che c’erano delle cose che mi piaceva fare, quindi anche l’idea di fare l’artista non mi dispiaceva. Sapevo di avere talento per il disegno, ma al contempo scoprii di avere anche talento per la grafica (al liceo si faceva qualche lavoro di grafica), per cui un po’ mi immaginavo pittore, un po’ mi immaginavo grafico, un po’ disegnatore di fumetti, un po’ attore comico. Io sono un pigro e quindi fatalista, dunque pensavo sempre “vabbè, vediamo che succede”. La verità è che il talento non basta, immaginarsi artista non basta, bisogna volerlo veramente, serve consapevolezza. E comunque, in generale, le cose vanno perseguite, ci vuole determinazione, bisogna insistere, altrimenti vuol dire che non sono poi così importanti. Prima lo capisci, meglio è. Ma questi sono ragionamenti fatti col senno di poi, all’epoca non avevo molto il senso dell’orientamento, per così dire.

Quindi hai continuato a cullarti in questa indecisione?

No no, decisi di fare l’Accademia di Belle Arti, pittura (forse magari senza tantissima convinzione), ma non passai l’esame d’ammissione. Comunque non rimasi né deluso né avvilito, lo considerai come un “episodio possibile” nel normale flusso degli eventi. Avrei potuto ritentare l’anno dopo, ma optai per la grafica. Evidentemente non avevo il cosiddetto fuoco sacro dell’arte. A questo punto potrei citare la famosa frase di John Lennon, ma non lo faccio. Tuttavia ho continuato a frequentare le amicizie dell’arte, gli studi degli artisti, a vedere le mostre. E a disegnare quando ne avevo voglia, in modo molto libero, sereno. Anche quelli erano momenti prossimi alla felicità. In linea di massima non ho mai più smesso. Senonché, in anni più recenti, mi sono ritrovato con un corpo di lavoro interessante diciamo, che ho deciso di rendere pubblico (seppure in modo episodico) grazie all’incoraggiamento degli amici. Insomma, a questa età ho imparato, in linea generale, che una cosa non esclude l’altra, le cose possono coesistere. Tutte le cose. Sembra banale, stupido, ma per me è una piccola rivelazione.

Riccardo Gemma, Studio per scultura (2019; penna biro, pennarello, fragola, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Studio per scultura (2019; penna biro, pennarello, fragola, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Due studi anatomici con cane (2019; penna biro e inchiostro, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Due studi anatomici con cane (2019; penna biro e inchiostro, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Due sculture (conversazione) (2017; penna biro e acrilico, 21 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Due sculture (conversazione) (2017; penna biro e acrilico, 21 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Gruppo scultoreo (schema) (2016; penna biro, grafite, inchiostro, 21 x 15 cm)
Riccardo Gemma, Gruppo scultoreo (schema) (2016; penna biro, grafite, inchiostro, 21 x 15 cm)
Riccardo Gemma, Figura (2013; penna biro, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Figura (2013; penna biro, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Schema (2015; penna biro e inchiostro, 30 x 23 cm)
Riccardo Gemma, Schema (2015; penna biro e inchiostro, 30 x 23 cm)
Riccardo Gemma, Figura nel paesaggio (2006; penna biro e tempera, 29,7 x 42 cm)
Riccardo Gemma, Figura nel paesaggio (2006; penna biro e tempera, 29,7 x 42 cm)
Riccardo Gemma, Due figure (2006; penna biro e tempera, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Due figure (2006; penna biro e tempera, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Figurine (1998; penna biro, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Figurine (1998; penna biro, 29,7 x 21 cm)

Il tuo lavoro d’ artista è sempre andato avanti sul suo binario autonomo rispetto al tuo lavoro con la grafica o ci sono stati dei momenti in cui le due cose hanno coinciso?

Ho sempre considerato il fatto di disegnare come momento di assoluta libertà, di libere associazioni, anche di non-sense se vogliamo. Il foglio è lo spazio dove tutto può avvenire. Il disegno è un pensiero anarchico. La grafica ha invece regole precise, si deve adattare al contenuto, è progettuale. Quindi, direi che no, le due cose non hanno mai coinciso realmente, anzi, nel mio caso sono opposte. Tuttavia, nei miei disegni, spesso associo alle figure numerazioni o scrittura (senza un vero sistema), che conferiscono al tutto una sembianza di schema, di tavola scientifica, di “figura” da libro. Questo è anche un sistema per “raffreddare” i miei disegni, che spesso sono un po’ crudeli, tragici e buffoneschi. Allora, in questo senso, si può trovare un punto di contatto tra disegno e grafica. Tra l’altro, negli anni, ho imparato ad apprezzare molto schemi grafici e diagrammi, sia da un punto di vista estetico, sia dal punto di vista del senso, della sintesi. Sono una sorta di poesia visiva. Tanti artisti che mi piacciono hanno lavorato e lavorano al riguardo.

Entrando nel merito del tuo lavoro artistico. Hai sempre disegnato in bianco e nero?

Sì, più o meno, salvo per qualche scritta o elemento fatti con penne colorate che si vanno a sovrapporre al bianco e nero portante delle figure. Quello che mi interessa sono il segno, i volumi e la dinamica delle figure. Quindi vado dritto al punto, il colore per me è una distrazione, non mi serve. Mi piace pensare in termini di assoluto. Se penso a un’immagine, la penso in bianco e nero, o comunque monocroma. Inoltre, come mi è già capitato di dire, spesso penso al disegno come scultura nuda e cruda, quindi automaticamente e involontariamente il disegno esce acromatico. In tutta autonomia. È il disegno che pensa di essere, io sono solo il tramite.

La scelta di lavorare principalmente con la penna a sfera che origine ha?

La penna a biro è sempre a portata di mano. Se mi viene in mente una cosa, un’idea, uno scarabocchio, prendo la penna e butto giù velocemente. Poi magari mi fermo, dopo un po’ riguardo, riprendo la penna e qualcosa viene fuori. Per me il senso è molto legato all’estemporaneità e la biro, nella sua semplicità, questo me lo permette. Va anche detto che sono un pigro, dunque semplifico le cose. Potrei usare la matita, ma alla fine è troppo “artistica”, la biro è basica, diretta, comune, e non si può cancellare. Per cui gli errori che vengono fuori restano, (sappiamo come l’incidente in arte sia sempre auspicabile, non si sa dove ti porta, si possono scoprire delle cose). Il fatto di non cancellare, alla fine, è una cosa legata all’onestà credo, al tentativo di essere veri. Naturalmente, oltre alla biro, uso pennello e inchiostro o qualche tempera. Per sbrigarmi anche il caffè e la salsa di soia, insomma quello che trovo al momento. Ma queste cose per me sono già sovrastruttura...

Mi piace molto quando dici: “è il disegno che pensa di essere, io sono solo il tramite.” Lo credo anch’io il lavoro quando c’è decide autonomamente il suo compiersi, il nostro ruolo è quello di assecondarlo nel miglior modo possibile prestando attenzione alla sua voce. Quando inizi a disegnare parti con un’idea precisa di quello che vuoi fare?

Qualche volta ho un’idea precisa, la maggior parte delle volte no. Quando ho un’idea precisa, difficilmente il disegno riesce come l’avevo immaginato. Alla fine diventa un’altra cosa, se ne va per conto suo, come dicevamo prima. Ma questo è il bello, non so mai cosa può succedere. A volte mi stupisco di quello che ho fatto, è una bella sensazione. Credo che valga un po’ per tutti gli artisti. Lo stupore è importante. Più spesso invece, inizio con una figura (per me tutto parte dalla figura umana), poi a mano a mano capisco come andare avanti, oppure mi fermo direttamente lì, decido che va bene. Ultimamente mi affido sempre di più al caso, sperando di fare qualcosa di diverso, ma più che altro mi vengono fuori delle cose senza senso. Non lo so, forse il senso sta proprio nel nonsense, oppure nel caos, nel vuoto metafisico, in questa sorta di teatro dell’assurdo che si autogenera...

Prima hai detto che pensi ai tuoi disegni come a sculture, intendi dire che hanno una valenza scultorea in sé o che sono degli appunti per delle possibili sculture che vorresti realizzare?

Diciamo entrambe le cose. Quando guardo le figure che disegno, penso che alcune siano delle sculture. Stanno lì isolate, nel vuoto del foglio bianco, presenze o apparizioni nello spazio neutro. Sul foglio, in genere, metto anche l’annotazione “studio per scultura”. Quando guardo le figure di Bacon, ad esempio, penso che siano sculture, o magari quelle di Giotto, sempre per fare un esempio. Le sculture di Giacometti, invece, sono disegni. Vedi come vanno le cose… comunque non credo che mi cimenterò mai nella scultura, è già tanto se riesco a disegnarla. Con i miei tempi lunghissimi mi ci vorrebbero almeno tre vite per fare quello che una persona normale fa in una. Però il pongo mi attira.

Riccardo Gemma, Il gabinetto del Dott. M. (2019; inchiostro, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Il gabinetto del Dott. M. (2019; inchiostro, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Head in the landscape (2019; inchiostro, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Head in the landscape (2019; inchiostro, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Studio per crocefissione o il corpo dopo gli organi (2022; penna biro, pennarello e inchiostro, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Studio per crocefissione o il corpo dopo gli organi (2022; penna biro, pennarello e inchiostro, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Io sono il protopollo (2021; penna biro e inchiostro, 21 x 29,7 cm)
Riccardo Gemma, Io sono il protopollo (2021; penna biro e inchiostro, 21 x 29,7 cm)
Riccardo Gemma, Fontana (studio per scultura) (2022; penna biro, pennarello e inchiostro, 15 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Fontana (studio per scultura) (2022; penna biro, pennarello e inchiostro, 15 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Crocefissione (2021; penna biro, inchiostro e smalto, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Crocefissione (2021; penna biro, inchiostro e smalto, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Figurina (2019; inchiostro, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Figurina (2019; inchiostro, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Naso-Vaso (2019; penna biro e inchiostro, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Naso-Vaso (2019; penna biro e inchiostro, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Mattinale (Il tao di Bruce Lee) (2019; inchiostro, 29,7 x 21 cm)
Riccardo Gemma, Mattinale (Il tao di Bruce Lee) (2019; inchiostro, 29,7 x 21 cm)

A proposito di Bacon, mi sembra che nel tuo lavoro tu lo tenga molto presente: per esempio l’idea della figura ingabbiata.

Bacon certo, anche da qui non ne esco, ma va bene così. Più che ingabbiata, direi che la figura è contenuta dalla struttura, è isolata da tutto il resto. È come metterla in una bacheca, sottovuoto, a gravità zero. E sta lì, in esposizione. Tra l’altro il parallelepipedo è un escamotage per mettere la figura in relazione con la superficie e dare tridimensionalità allo spazio che la circonda.

In quello che fai l’immaginario cinematografico ha una sua importanza? L’idea per esempio della rappresentazione del movimento, che da secoli gli artisti hanno affrontato in vari modi, che importanza ha per te? Ti volevo anche chiedere se sei mai stato tentato dall’idea di realizzare un film d’animazione partendo dai tuoi disegni?

Può darsi che qualche suggestione cinematografica sia entrata nei miei lavori, però, così a occhio, non saprei dirti niente di preciso. Forse c’è una certa idea di dramma in atto, questo sì. Per quanto riguarda la rappresentazione del movimento (giustamente puntualizzi “rappresentazione”), secondo me ci sono due aspetti fondamentali ed eventualmente separati da considerare. Uno è il dinamismo degli elementi nella stessa rappresentazione; l’altro è la rappresentazione divisa in sequenze. Il dinamismo è legato alla gestualità, alla visibile velocità esecutiva, all’assetto degli elementi. Poi c’è la rappresentazione in sequenze di immagini, quindi i polittici, le varie vie crucis, i fumetti. Qui la rappresentazione in movimento è chiaramente narrativa. La cosa interessante è che in tutti e due gli aspetti, attraverso il movimento, vediamo il tempo coagulato in un’unica dimensione. Quando disegno depenso, cerco la figura con la penna e non cancello. Senonché la figura viene fuori, spesso, da una serie di tentativi (segni) che restano visibili, o da grovigli di segni “furiosi” che coprono gli errori. A volte restano braccia e gambe in più, o in meno. Tutto questo mette la figura in risonanza diciamo, la postura è statica, ma la figura vibra, è in continuo movimento, in uno stato di ansia perpetuo. Implode e poi riesplode. Il tempo così diventa circolare o infinito. Alcune volte mi sono divertito a disegnare situazioni in sequenza, in sequenze da tre perlopiù. Ho fatto alcune foto con esposizione lunghissima, dove sullo stesso fotogramma viene impresso il soggetto nei suoi diversi movimenti durante l’esposizione, alla Duchamp per intenderci. Dunque il movimento è importante per me, sia in termini espressivi, sia in termini narrativi, sia in termini di tempo che passa e ritorna su sé stesso. Questa circolarità mi interessa, il concetto sarebbe da approfondire anche attraverso l’animazione, perché no. Qualche volta ci penso. Avevo fatto delle brevissime animazioni in stop motion con le foto, così, per capire.

Con che risultati ?

Soddisfacenti dal mio punto di vista e di partenza. Sicuramente non originali, un po’ nonsense (va da sé), un po’ cinema espressionista, un po’ David Lynch.

Prima quando ti chiedevo della vicinanza con il cinema pensavo proprio a Lynch che oltre a fare film è artista a tutto tondo. Che importanza ha il suo lavoro per te?

David Lynch pittore l’ho scoperto da pochi anni a questa parte e certamente ho trovato delle affinità con quello che faccio. Mi piace molto, ogni tanto mi guardo i suoi lavori. Ultimamente sono diventati una fonte di ispirazione. Alcuni hanno quell’atmosfera cupa e ironica dei suoi film in cui mi ritrovo. Forse non ha un’importanza centrale per me, però è diventato comunque un riferimento.

Ho visto che spesso nei tuoi disegni ricorrono delle immagini anatomiche di organi interni del corpo, spesso dell’apparato digerente, che si coniugano a meraviglia con il tuo segno. Che importanza ha la rappresentazione del corpo e della sua caducità nel tuo lavoro?

Per me il corpo è la figura, cioè l’immagine assoluta, l’icona, l’unica rappresentazione. Non esiste liberazione dal corpo; le figure che disegno le vedo spesso prigioniere, o meglio, tombate nel proprio corpo, statue tra vita e morte diciamo. La mia rappresentazione del corpo, anche se può non sembrare, è prima di tutto tragica, e poi comica. Non ne esco, è così. È l’entropia. E così ecco che si mostrano gli organi interni, che alla fine anche di questo siamo fatti. Gli organi sono belli da disegnare, li invento, seguo la mano, possono diventare un ghirigoro infinito. Decorano la figura con grazia e spavento (per chi guarda e per la figura stessa). A volte gli organi sono fuori dal corpo, e si mostrano alla figura come un’apparizione. Deleuze, a proposito di Francis Bacon, parla del “corpo senza gli organi”, non mi dilungo, ma è una cosa importante e assai suggestiva.

Esiste nel tuo lavoro un aspetto narrativo?

Esiste, sì, in molti casi. Come dicevo prima, inizio disegnando una figura senza sapere bene dove andare a parare, poi ad esempio, aggiungo un tavolo, poi un’altra figura e via dicendo. A questo punto si creano inevitabilmente delle dinamiche, di conseguenza il lavoro diventa narrativo. Ma sono le dinamiche che mi interessano, spesso sono impreviste, abbastanza incomprensibili, nonsense (ed è lì che mi diverto), a volte invece sono volute. Spesso metto due figure una davanti all’altra, speculari, come se una apparisse all’altra. Non sappiamo quale delle due sia l’apparizione, non conosciamo le ragioni dell’evento, e dunque il tentativo è proprio quello di creare una forma di sgomento in chi guarda. Questo è sicuramente voluto, o quantomeno cercato e alla fine diventa un po’ una provocazione. Mi interessa mettere in scena l’evento metafisico: si capisce che sta succedendo qualcosa, ma non si sa bene che cosa e perché. È inconoscibile. In un mondo di arte sempre e comunque spiegata e giustificata, io non so spiegare, non voglio spiegare e non giustifico, io posso solo raccontarvi del fantasma.

Riccardo, ti è mai venuto a trovare il fantasma delle pittura?

Sì, è un fantasma antico quello della pittura, viene da lontano, chissà da dove. Ma più che altro sono stato “visitato” da giovane. Ho dipinto per un po’, poi sono passato al disegno che, come dicevo, è un modo più veloce e meno impegnativo per tirare fuori delle cose. La pittura ha bisogno di tempo e io sono già troppo lento di mio. Quindi ho lasciato che le cose seguissero un loro processo naturale. Ma intendiamoci, non ho rimpianti per questa “incompiutezza”, sono un po’ fatalista e ognuno alla fine è quello che è. Tuttavia, ogni tanto, questo fantasma torna ancora oggi, sotto forma di visioni pittoriche, ma restano delle visioni appunto, restano nella mente, perché altrimenti questo significherebbe ricominciare tutto daccapo. Negli ultimi anni, tra l’altro, il “fantasma” mi appare più sotto forma di scultura che di pittura. Forse la scultura è la vera apparizione, forse disegno sculture che non farò mai. Per tornare alla pittura, va anche detto che il “quadro” resta sempre un inganno, l’immagine è confinata nei limiti della tela e sul supporto della tela. Anche se parliamo di astrazione o di pittura tra astrazione e figurazione, resta sempre un inganno. Allora mi viene in mente Fontana: se tagli un quadro, il quadro muore, muore l’immagine, sveli il trucco. Se tagli un disegno, lo strappi, lo sporchi, lo rovini, quello comunque resta disegno, anche più bello eventualmente. Perché alla fine il disegno rappresenta sé stesso, non ambisce a essere qualcos’altro, è onesto. Ma non sto qui a fare l’apologia del disegno, in realtà, altrettanto onestamente dovrei dire che l’ideale per me sarebbe quello di disegnare (o eventualmente anche di dipingere) sui muri, senza limiti, senza fine. In questo senso mi interessa molto anche la pittura installativa che interviene nello spazio e lo modifica.


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Gabriele Landi

L'autore di questo articolo: Gabriele Landi

Gabriele Landi (Schaerbeek, Belgio, 1971), è un artista che lavora da tempo su una raffinata ricerca che indaga le forme dell'astrazione geometrica, sempre però con richiami alla realtà che lo circonda. Si occupa inoltre di didattica dell'arte moderna e contemporanea. Ha creato un format, Parola d'Artista, attraverso il quale approfondisce, con interviste e focus, il lavoro di suoi colleghi artisti e di critici. Diplomato all'Accademia di Belle Arti di Milano, vive e lavora in provincia di La Spezia.





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