Negli ultimi anni, gli Uffizi si sono resi protagonisti nel mondo dei musei a livello internazionale grazie anche a una comunicazione frequente, costante, pervasiva, efficace, che ha utilizzato diversi strumenti e canali, dai media tradizionali (giornali, televisioni, radio) fino ai social, anche quelli mai esplorati prima da un museo. Quali sono le dinamiche che hanno portato gli Uffizi a investire tempo e risorse in comunicazione? Quali strategie adotta il museo di Firenze quando comunica con il suo pubblico? Quali cambiamenti ha riscontrato? Ne abbiamo parlato con il responsabile dell’ufficio stampa, il giornalista Tommaso Galligani. L’intervista è a cura di Federico Giannini.
FG. La comunicazione agli Uffizi viaggia su diversi canali: c’è un ufficio stampa, c’è la comunicazione istituzionale, ci sono le risorse digitali. Comincerei chiedendole nello specifico chi si occupa di cosa all’interno del museo e quali sono le strutture dedicate alla comunicazione.
TG. Da una parte abbiamo l’ufficio stampa che si occupa di tutte le relazioni con i media tradizionali (giornali, televisioni, radio, siti) e della comunicazione condivisa nel caso di partnership con altri enti. Tutto ciò che è destinato alla stampa e ai media tradizionali passa dal mio ufficio. Poi, accanto all’ufficio stampa, abbiamo la parte del sito e dei social, che sono ormai l’interfaccia ordinaria che il museo utilizza nei confronti di ogni potenziale tipo di utenza. Tutti possono oggi relazionarsi con gli Uffizi attraverso un clic, e il modo più facile per farlo, prima ancora che col sito, è mediante una delle piattaforme social del museo, ognuna caratterizzata da una diversa personalità: Instagram, Twitter, l’ormai tradizionale, generalista Facebook, e anche il celeberrimo TikTok, divenuto la nostra social e media star. Questo è il nostro “schieramento” complessivo, il nostro armamentario di comunicazione con il mondo esterno.
Andrei ad approfondire questi argomenti iniziando proprio dall’ufficio stampa: mai come negli ultimi anni gli Uffizi sono apparsi spesso non soltanto su quotidiani e riviste specialistiche ma anche su testate generaliste, senza menzionare naturalmente i servizi in televisione. Non mi sono procurato statistiche, ma mi sentirei di dire in maniera empirica che gli Uffizi sono il museo di cui si parla di più in Italia. Questo ovviamente non dipende solo dal fatto che gli Uffizi sono comunque il museo più grande e visitato del paese: dietro a questa costante presenza c’è una strategia ben delineata e mi piacerebbe se ci potesse raccontare qualcosa di come viene pensata e condotta...
Innanzitutto occorre subito sgombrare il campo da un potenziale equivoco: per quanto un esperto o uno specialista di comunicazione possano ritenersi volenterosi, competenti e bravi, si sta comunque parlando del museo più importante d’Italia e di uno dei musei più famosi al mondo, ragion per cui la comunicazione degli Uffizi ha una capacità propria di proporsi sull’affollato mercato delle notizie, di per sé assolutamente devastante e potentissima. Detto questo, la strategia di base è semplicissima e si può sintetizzare in una singola frase, che è poi la ragione per la quale direttore Eike Schmidt mi reclutò nell’ormai quasi lontano 2018: “il desiderio di raccontare la vita quotidiana del museo”. Ecco, questa è una cosa che forse prima, certo anche per ragioni di diversità del sistema, veniva fatta molto poco o per nulla. Raccontare la vita quotidiana del museo è servito secondo me a svelare innanzitutto all’opinione pubblica qualcosa che ignorava: e cioè che i musei, come voi di Finestre sull’Arte sapete benissimo, sono tutt’altro che teche polverose, piene di oggetti sacri o pseudo-sacri, da ammirare a capo chino in sofferente silenzio. Al contrario, sono veri universi da cui sgorgano ogni giorno milioni di storie, di aneddoti, di informazioni bellissime o comunque interessanti. Da questo inesauribile magma culturale, e di cronaca, si può ricavare un distillato che a volte, come capita con il “profluvio” dei nostri comunicati, può magari rivelarsi eccessivamente insistente, ma di sicuro tratteggia una vita e un profilo del museo, in questo caso le Gallerie degli Uffizi, come di una realtà viva, dinamica, simpatica (almeno questa è la mia percezione dall’interno, dal punto di vista di chi la racconta), e soprattutto perfettamente immersa nello scorrere del mondo. Quindi l’esatto contrario di quelle torri d’avorio che i musei, in modo tutt’altro che corrispondente alla realtà, sono sempre un po’ sembrati.
La vostra comunicazione raggiunge sia il pubblico italiano sia il pubblico straniero: molte testate all’estero hanno dedicato articoli e servizi agli Uffizi, e mi piacerebbe sapere quali sono le differenze tra i due pubblici e di conseguenza come vi comportate quando dovete far arrivare i contenuti...
Posso dire che la differenza, anche in questo caso, non è così complessa: diciamo che il pubblico delle testate straniere va più accompagnato dentro la notizia, dentro le vicende e dentro le storie che vogliamo raccontare: all’estero, benché gli Uffizi siano famosi nel mondo, la nostra realtà comunque si conosce molto meno che in Italia, e dunque servono notizie forti, e offerte con una semplicità maggiore di quella che può essere sufficiente nel confezionarle per il pubblico italiano. In Italia, per certi versi, la bellezza e questa cascata di arte e patrimonio culturale in cui il paese è immerso sono dati come una cosa nota, dunque per parlare col pubblico italiano servono codici di semplicità inferiori, perché il pubblico italiano è abituato a interfacciarsi con i beni culturali. Con il pubblico straniero bisogna spiegare molte più cose, questa specificità manca. Tuttavia l’aspetto più interessante sta nel fatto che c’è anche un approccio molto più mitico e sognante alle storie dei beni culturali, anche questo probabilmente legato anche alla maggiore scarsità che all’estero si riscontra su questo fronte. Mi torna in mente la meraviglia di alcuni colleghi della stampa inglese quando li condussi qualche anno fa a girare un videoservizio sulle sale da bagno di Palazzo Pitti: erano letteralmente abbacinati da questa scoperta. Un pezzo di questo tipo è un po’ più difficile proporlo a un pubblico italiano, anche se poi, in qualche modo, siamo riusciti a fare pure quello.
Un’attività di comunicazione come la vostra immagino debba prevedere un’interazione costante non soltanto tra ufficio stampa e direttore ma anche tra chi si occupa di comunicazione e chi invece lavora sulle collezioni, chi cura le mostre e via dicendo.
Certo, è un’interazione strettissima: il mio compito in questo caso è quello del traduttore. I curatori che si occupano della gestione effettiva del patrimonio, che organizzano le mostre, che conoscono tutti i segreti di ciò che custodiamo, sono storici dell’arte, e quello che loro esprimono e di cui si occupano, per arrivare nel modo più efficace all’opinione pubblica, deve essere in qualche modo “tradotto” in comunicati stampa che inevitabilmente semplificano e a volte magari possono anche approssimare un po’ la precisione e l’esattezza di certi concetti, di certi dettagli. Ma si tratta anche di un passaggio fondamentale affinché il messaggio di ciò che si vuole condurre all’opinione pubblica arrivi: l’importanza di una mostra, quali sono i pezzi forti, e le curiosità, che molto spesso a livello di stampa possono persino essere più funzionali ad attrarre l’attenzione verso ciò che si propone.
Dopo la pandemia di Covid, ma comunque si trattava di attività che erano partite già prima, gli Uffizi hanno intensificato la loro presenza online: per esempio trasmettete tutti gli eventi (o gran parte degli eventi: per esempio conferenze, incontri, presentazioni, inaugurazioni) sulle vostre piattaforme, avete un sito che possiamo ormai considerare un punto di riferimento su come dev’essere un sito web di un museo, per non parlare poi della presenza social su cui però vorrei tornare tra un attimo. Intanto Le chiederei quali sono i risultati che questa intensa attività vi ha portato, in termini, per esempio, di rafforzamento dell’immagine del museo e quindi di percezione che il pubblico ha nei riguardi dell’istituto, oltre che di crescita del pubblico online e offline, quindi se l’attività online porta benefici concreti e misurabili anche sulle presenze fisiche...
Senza dubbio sì: questo tipo di potenziamento è stato effettuato nel momento in cui non avevamo altro modo di raggiungere il pubblico, perché eravamo chiusi. E questa era un’opportunità per consolidare uno strumentario che, ora che siamo totalmente riaperti e i nostri numeri sono praticamente quelli del pre-pandemia, ci siamo guardati bene dal ridimensionare, perché va a sommarsi al rapporto diretto, fisico, concreto con il pubblico, e risponde ad esigenze e metodi di attrattività diversi. Noi, come tutti i musei, abbiamo guadagnato visitatori ed appassionati proponendoci attraverso i social e attraverso internet, perché l’assunto di base, contrariamente a quanto inizialmente alcuni pensavano (cioè che il museo che propone la visione dei propri tesori su internet rischia di lasciare a casa tutte le persone che potendo vedere già la Venere, la Primavera o la Medusa dal divano ci restano e non vanno ad ammirarle ‘live’), è che queste dinamiche funzionino esattamente all’opposto di come si potrebbe immaginare: tu vedi la Venere in pixel, magari anche in altissima definizione, o un video che te la spiega nei dettagli, o leggi una scheda sul sito, e poi però ti rimane addosso ancora più voglia di vedere l’originale. È un po’ come quando qualcuno ascolta il disco di una band che gli piace particolarmente: a quel punto non è che non va più al concerto perché ha il disco, anzi, ci va a maggior ragione proprio perché il disco gli è piaciuto. Qui funziona esattamente allo stesso modo, e noi dopo anni di intensissima attività web e social siamo tornati in un lampo, di sicuro in parte grazie anche a un buon posizionamento su questo tipo di attività, ai numeri del pre-pandemia. Non solo: abbiamo attirato al museo un sacco di giovani e giovanissimi (e questo è un nostro grande punto di orgoglio), che si sono lasciati affascinare da queste piattaforme che ormai, soprattutto per loro, rappresentano il primo modo di relazionarsi con l’esterno.
Passando a parlare di social, siete presenti ovunque: Facebook, Twitter, Instagram, TikTok. Quali strategie applicate ai diversi social?
Ogni social ha una personalità distinta e particolare. Instagram è consono alla natura della piattaforma stessa: più estetico, più grafico, basato sull’immagine e sulla fidelizzazione di chi desidera fruire contenuti prettamente artistici dei nostri spazi (gli Uffizi, Palazzo Pitti e Giardino di Boboli). Poi abbiamo la nostra ammiraglia generalista, ovvero Facebook, che ospita una tipologia di contenuti più eterogenea, e dove si possono trovare video di vario genere: abbiamo serie come La mia sala dove assistenti museali illustrano spazi e opere dei nostri musei o singole opere, le dirette della serie Uffizi on air, cioè appuntamenti in cui specialisti raccontano in diretta dipinti, sculture e storie e rispondono sempre in diretta alle domande del pubblico, poi ancora la serie di grande successo Gli Uffizi da mangiare dove accostiamo alcuni grandi cuochi a opere centrate su temi culinari e gastronomici. Facciamo poi le dirette delle conferenze stampa e degli appuntamenti culturali del mercoledì pomeriggio. Facebook è insomma il nostro ‘contenitore di diffusione’ di base, quello principale. Twitter è un po’ un mix tra Facebook e Instagram, mentre su TikTok abbiamo deciso (primo museo al mondo tra quelli internazionali nell’aprile del 2020 ad aprire un profilo su questa piattaforma) di pubblicare brevi video ironici dedicati alle nostre opere. È stata una scommessa, un tentativo coerente con la nostra filosofia di raccontare la vita quotidiana del museo, che prevede anche di desacralizzare un po’ quest’aura di ‘intangibilità’ delle opere, per avviare una modalità più colloquiale, divertente e divertita di proporle soprattutto ai ai giovani e ai giovanissimi. Pare proprio che l’esperimento abbia funzionato: abbiamo superato da poco il milione di like su TikTok per i nostri video e stiamo anche pensando a nuove modalità di espandere le tipologie dei nostri contenuti su questa piattaforma.
Siete stati anche criticati per certe vostre scelte: ricordo in particolare le polemiche suscitate dalla presenza di Chiara Ferragni, legate sia alla sua presenza all’interno del museo sia al modo in cui l’avevate comunicata, e quelle invece sul modo in cui avevate cominciato a comunicare su TikTok. Specifichiamo ovviamente che molti, la maggioranza, hanno invece salutato positivamente queste vostre iniziative, ma c’è una parte dell’ambiente, degli addetti ai lavori, che vi hanno accusato di fare una comunicazione banalizzante e sensazionalistica. Come rispondete a queste critiche?
Come rispondiamo da ormai due anni, perché la visita di Chiara Ferragni risale al luglio 2020 e quello diventò il dibattito da spiaggia di quell’estate. Rievocando il Sergio Forconi di Berlinguer ti voglio bene: “Pole un influencer permittisi di andare al museo?”. I critici avrebbero subito detto “no!” come Forconi nel film; invece, la maggioranza delle persone pensa, come noi, che un influencer possa andare al museo e comunicarlo. Il punto è che l’obiettivo di un museo (ed è un’opinione personale, ma penso possa essere condivisibile) dovrebbe essere quello di aprirsi al maggior numero possibile di pubblici diversi: non c’è da fare gli snob, semmai il contrario. E dunque perché un influencer non può rappresentare un modo per raccontare il museo? Perché bisogna limitarsi a forme e soggetti già consolidati che fanno riferimento o presa su pubblici che, tra l’altro, al museo già ci vengono? Mi spiego meglio, tralasciando il discorso Ferragni: abbiamo comunicato anche visite di attori, registi, personaggi sportivi, per esempio con giocatrici della Fiorentina femminile; lo stesso direttore Schmidt è stato in trasmissioni televisive di sport, sempre seguendo la stessa logica, ovvero cercare di intercettare pubblici diversi dai nostri consueti, per provare ad incuriosirli, ad interessarli all’arte, a convincerli a fare un salto in museo, ché poi magari si appassionano pure (succede spesso: è successo pure a me, altrimenti non sarei qui). Abbiamo fatto lo stesso con il rock, con l’appello ai partecipanti del grande evento Firenze Rocks, invitando al museo i rocker che suonavano così come i loro spettatori. Questi ‘esperimenti’ di incrocio dei pubblici funzionano: è anche grazie ad essi che abbiamo avuto più giovani, più persone. Chi s’interessa di moda, di moda, di cinema, di musica, di sport, perché non potrebbe aver voglia di interessarsi all’arte? E perché non usare i suoi codici e il suo linguaggio per entrarci meglio in comunicazione? Non farlo a prescindere è snobismo, tradisce la solita, ben nota volontà di chiudersi in presunte torri d’avorio legate a concetti elitaristici della cultura che ormai non hanno più senso d’esistere: è una mentalità da parrucconi e sepolcri imbiancati che qui agli Uffizi cerchiamo strenuamente di combattere.
Se però tra la musica rock, la moda e l’arte c’è comunque una viva contiguità, più difficile è trovare, per esempio, dei nessi tra sport e arte, e il pubblico dello sport di conseguenza potrebbe apparire molto più lontano. Qual è il meccanismo che porta un appassionato di sport a varcare la soglia degli Uffizi, e come si traduce la sua esperienza? Quali riscontri avete da questi pubblici che magari prima non avevano mai messo piede agli Uffizi o addirittura in un museo?
Non ci sono risposte in tasca. Quello che ci dev’essere però è la volontà di proporsi a questi pubblici diversi, andando incontro al loro linguaggio, alla loro percezione e ai loro interessi. Per nostra fortuna, è una specie di passepartout, perché possiede codici interpretativi di ogni tipo e può dunque dialogare efficacemente con ogni tipo di settore. Perché l’arte è onnicomprensiva, tocca tutti i soggetti: agli Uffizi abbiamo per esempio opere, soprattutto nel campo della scultura romana, che affrontano temi sportivi, che richiamano la plasticità corporea dello sport, oppure ne richiamano i simboli. Le suggestioni che l’arte può offrire nei confronti di pubblici che si interessano ad altro, anche a temi apparentemente lontani, è infinito. Inoltre, e capisco che possa sembrare una considerazione banale, è un fatto che la bellezza abbia in sé il potenziale per attirare chiunque. La bellezza stessa è dotata di capacità attrattive in ogni settore; dunque un settore come l’arte, che ha nella bellezza la propria ragion d’essere, possiede le chiavi per dialogare con tutti, e questo è ciò che cerchiamo di fare noi.
C’è stato comunque uno spartiacque nel modo in cui gli Uffizi interagiscono col pubblico e questo spartiacque è stata la riforma del 2014 con il successivo arrivo di Eike Schmidt alla direzione, che in questo senso ha provocato una piccola rivoluzione soprattutto sul digitale: in particolare gli Uffizi erano quasi del tutto assenti dai social e avevano un sito web poco aggiornato, poco moderno, poco funzionale. Che lavoro è stato necessario fare per trasformare gli Uffizi in un museo all’avanguardia nella comunicazione?
Di questo bisogna rendere onore ad Eike Schmidt, e lo dico senza timore di piaggeria. In quest’ambito le Gallerie stavano praticamente a zero, e lui dallo zero ha creato più o meno tutto: ha istituito dal nulla (non c’era, e comprensibilmente, perché, anche se sembra strano dirlo, sette anni fa era praticamente un’altra epoca) un dipartimento ad hoc per le strategie digitali, gli Uffizi non avevano un sito (c’era una pagina sul sito del Polo Museale Fiorentino, con un posizionamento primitivo e del tutto inefficace), non esisteva un logo, non c’era un brand. Insomma, non c’era praticamente nulla. La comunicazione del museo così come la vediamo adesso, è stato un modo di porsi costruito in pochi anni, e questo è successo per volontà di Schmidt. Questa però non deve essere letta come una critica nei confronti del passato: semplicemente, prima era un altro mondo. La riforma dei beni culturali del 2014, rendendo autonomi i grandi musei, li ha resi protagonisti come prima non erano mai stati: il sistema si è in parte decentralizzato e questi luoghi di cultura si sono ritrovati a essere come vere e proprie rockstar, perennemente sotto i riflettori. A differenza di quanto avveniva in precedenza, con un sistema molto più gerarchizzato, centralizzato e accentrato a Roma, i grandi musei si sono ritrovati a dover camminare sulle proprie gambe, a dover fare un sacco di cose da soli e pure a comunicare da soli: tale cambiamento è stato reso necessario dal cambio gestionale e di prospettiva introdotto dalla riforma, che, a Firenze, ha trasformato una realtà unificata come quella del Polo Museale Fiorentino (che raccoglieva oltre trenta musei) in una realtà molto più frammentata e difforme, nella quale ognuno dei grandi musei presenti (Uffizi, ma anche Galleria dell’Accademia e Bargello) ha dovuto imparare rapidissimamente a muoversi da solo. A questo bisogna ovviamente aggiungere il cambiamento impetuoso che negli ultimi anni una società sempre più digitale e virtuale ha imposto anche ai musei: dotare il museo di strumenti che lo rendessero capace di stare al passo con i tempi era diventato un obbligo non più rinviabile. Ecco spiegate le premesse del lavoro titanico di creazione dell’identità ‘digitale’ degli Uffizi: un’identità forte, ma allo stesso tempo sfaccettata, poliforme, ma che fino a pochi anni fa nemmeno esisteva. Oggi sembra scontato che un grande museo come le Gallerie abbiano un sito efficiente, www.uffizi.it (dove si trovano informazioni, il magazine, gli articoli di approfondimento scientifici della rivista Imagines, le opere, i video, ecc.): la verità è che tutto questo esiste dal 2017, prima non c’era. Allo stesso modo, sempre dal 2017, gli Uffizi hanno un logo che in poco tempo li ha resi ancor più visibili e riconoscibili sul web e non solo: certo, il nome non ha bisogno di presentazioni nel mondo, ma un logo che ti definisce in modo come identità unica ed esclusiva, aiutandoti a posizionarti nell’universo-giungla complicato e spesso cattivo di internet ha aiutato molto: prova ne è che ci abbiamo persino vinto il prestigioso premio ‘Compasso d’oro’ per il design di comunicazione.
Oggi quale profilo deve avere una persona che lavora nel settore comunicazione di un museo?
Il primissimo doppio requisito, lo dico a costo di sembrare estremamente banale, è dato dalla fantastica accoppiata curiosità-umiltà. Penso che essere giornalista mi abbia aiutato moltissimo a muovermi in questo strano mondo: da un lato esercitando tutta la curiosità possibile a cercare di capire nel più breve tempo le innumerevoli regole, dinamiche e storie in cui ci si imbatte aggirandosi in quel cosmo di microcosmi diversissimi che è un museo; dall’altro, dimostrando l’umiltà necessaria a rendersi conto che in un posto così c’è davvero moltissimo da imparare, ancora di più da guardare e ascoltare e assolutamente nulla da dare per scontato. Poi c’è l’ingenuità, intesa nel senso dello stupore di fronte alle storie: è fondamentale, perché quello che un comunicatore deve fare in un museo è proprio raccontarne le storie, i fatti, gli aneddoti, i numeri, le curiosità, e per farlo al meglio, con partecipazione emotiva, bisogna avere un animo per così dire ‘facile alla meraviglia’ e pronto ad appassionarsi anche alle piccole vicende, che poi, agli Uffizi, piccole non sono mai. Faccio un esempio: l’anno scorso si è stabilito nel giardino di Boboli uno sciame di api selvagge: questi insetti ingegnosi avevano trovato non si sa come il modo di costruire il loro alveare nel ventre di un muro plurisecolare e poi si erano messe a scorrazzare (pacificamente, senza disturbo alcuno per i visitatori, nello stile tipico delle api) tra i fiori della limonaia medicea. Venni a sapere quasi per caso di questo evento fortuito e mi innamorai istantaneamente. Mi sembrò una storia incredibile, pensando anche all’importanza che riveste il tema ambientale oggi: le api avevano scelto come casa Boboli, il polmone verde del cuore di Firenze. La proposi alla stampa e andò tutto molto bene: i media si resero molto volentieri partecipi di questo piccolo, ma significativo aneddoto avvenuto alle Gallerie degli Uffizi. Infine, bisogna imparare a scrivere bene, perché la scrittura è e sarà sempre la base di ogni forma di comunicazione (ma questo lo dicevano Umberto Eco e Bertrand Russell, non è che lo dico io), e occorrono ovviamente predisposizione e interesse verso i temi culturali. Sommate tutte queste caratteristiche, e avrete i requisiti per poter essere bravi comunicatori di musei.
Secondo Lei quanto occorre ancora lavorare, nel mondo dei musei italiani, per arrivare a standard comunicativi adeguati, tenendo conto che ci sono differenze tra musei grandi e musei piccoli, e che ci sono ancora divari importanti tra musei centrali e musei periferici, oltre che tra nord e sud?
Non vorrei fare un discorso di categoria, ma, secondo me, sarebbe davvero importante che i musei avessero uffici stampa, interni e formati esclusivamente da giornalisti: e come su questo esiste una legge per le amministrazioni pubbliche, lo stesso dovrebbe valere anche per i musei. Il giornalista porta un approccio alla narrazione che ha la caratteristica di riuscire ad inserire agevolmente il museo nel flusso della narrazione pubblica: della città che lo ospita, del Paese, persino del mondo, se il museo ha la dimensione per arrivarci. Per svolgere questa funzione al meglio, il giornalista deve poter raccontare il museo dall’interno, standoci dentro tutti i giorni, non lavorare da fuori, in società esterne, con incarichi a tempo, o magari a chiamata. Questo doppio aspetto, il lavorare da dentro con le competenze giuste, non è ben presente in tantissimi musei e spesso può tradursi in una minor capacità di comunicazione o comprensione delle dinamiche specifiche del mondo dell’informazione: ricordiamoci che come tutti i settori professionistici (l’architettura, l’ingegneria, il diritto, la stessa storia dell’arte) anche il mondo dell’informazione ha le sue dinamiche e logiche particolari, e serve un professionista per capirle, leggerle, decifrarle, usarle come si deve. I musei, ma direi gli enti culturali in generale, vivono di comunicazione più di ogni altra tipologia di soggetti: una mostra dev’essere comunicata bene, se no la gente non ci va, l’acquisizione di un’opera dev’essere comunicata bene, altrimenti la gente non saprà mai che quell’opera è stata acquisita dal museo, l’apertura di nuove sale deve essere comunicata bene, altrimenti le persone non verranno mai a conoscenza del fatto che esistono nuovi spazi. E dunque ribadiamolo: non esiste un soggetto più dipendente dall’esigenza di comunicarsi di quello culturale, e, nello specifico, del museo.
Per concludere, ultimamente si fa un gran parlare di tante innovazione sul digitale, per esempio ci sono musei che offrono ai visitatori la possibilità di scegliere percorsi di visita personalizzati a partire dal sito, ci sono visite virtuali, senza poi entrare nel discorso NFT: insomma, è un mondo che si sta evolvendo. In che modo gli Uffizi continueranno a potenziare la propria attività? Ci sono dei progetti a livello di comunicazione che andrete a costruire di qui a breve?
La comunicazione al momento sta andando molto bene e questo anche perché abbiamo sempre qualche nuovo progetto a bollire in pentola. Tuttavia la prima e migliore regola della comunicazione consiste nel saper comunicare al momento giusto: quando saremo pronti a farlo sarete i primi a saperlo...
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).