Giacinto Cerone, scultore libero e indipendente: intervista col curatore Marco Tonelli


Dal 18 gennaio al 27 aprile 2025, il MIC di Faenza ospita una grande mostra dedicata a Giacinto Cerone, scultore del secondo Novecento da riconsiderare. Ne parliamo con il curatore, Marco Tonelli, che ci racconta chi era Cerone: un artista libero, indipendente, originale e non inquadrabile.

Dal 18 gennaio al 27 aprile 2025 è in programma al Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza la mostra Giacinto Cerone. L’angelo necessario, antologica dedicata a Giacinto Cerone (Melfi, 1957 – Roma, 2004), singolare scultore dalla breve carriera che lavorò libero da gruppi, scuole e movimenti segnando una delle esperienze più singolari del secondo Novecento nella scultura italiana. La rassegna, in particolare, esplora il legame di Cerone con la ceramica e, più nello specifico, con Faenza: lo stesso titolo, L’angelo necessario, fa riferimento a una figura descritta dal poeta statunitense Wallace Stevens che torna spesso nella statuaria di Cerone. Curata da Marco Tonelli (Roma, 1971), critico e storico dell’arte, la mostra intende non soltanto ripercorrere il rapporto di Cerone con Faenza, ma anche delineare la sua figura e ricollocarlo nel contesto delle arti italiana del secondo Novecento. Ne abbiamo parlato con Marco Tonelli, l’intervista è di Noemi Capoccia.

Giacinto Cerone ritratto nello studio di Giosetta Fioroni, 1995. Foto di Giosetta Fioroni, su concessione di Fondazione Goffredo Parise e Giosetta Fioroni.
Giacinto Cerone ritratto nello studio di Giosetta Fioroni, 1995. Foto di Giosetta Fioroni, su concessione di Fondazione Goffredo Parise e Giosetta Fioroni.
Giacinto Cerone durante l'inaugurazione dell'esposizione Come sospesa, 1996. Su concessione di  Archivio Giacinto Cerone
Giacinto Cerone durante l’inaugurazione dell’esposizione Come sospesa, 1996. Su concessione di Archivio Giacinto Cerone

NC. Quale importanza ha avuto Faenza nel percorso artistico di Giacinto Cerone, e in che modo le sue sperimentazioni con la ceramica hanno trasformato la sua scultura?

MT. Dal 1993 Giacinto Cerone inizia a lavorare con la ceramica, affiancato da Davide Servadei delle Ceramiche Gatti, una figura di riferimento fondamentale. Non era la prima volta che si confrontava con questo materiale, avendo già realizzato opere in ceramica in altri luoghi d’Italia, come ad Albissola. Ad ogni modo a Faenza trova un contesto diverso grazie anche alla collaborazione con un tecnico dotato di una straordinaria sensibilità artistica, capace di interpretare le sue esigenze e il suo stile. Il tecnico, nel corso del tempo, perfeziona materiali e colori adattandoli sempre più alle modalità espressive di Cerone, che fino a quel momento aveva lavorato prevalentemente il legno e il gesso. La ceramica a Faenza, diventa per lui un materiale ideale, trattato con la stessa energia fisica e intensità che riservava ad altri supporti. Qui, grazie a moduli di argilla appositamente preparati da Servadei, sviluppa un approccio quasi brutale: colonne piegate, squarciate, calciate, colpite con violenza. Tutto ciò ha dato vita a opere dalla straordinaria forza gestuale. Emergono anche ceramiche più ricche, elaborate e cariche di significati simbolici, a volte con una vena mortuaria, altre di una bellezza sontuosa e raffinata. Faenza è il luogo dove l’arte ceramica di Cerone si definisce pienamente, pur mantenendo una distanza dalla figura tradizionale del ceramista. In questo contesto, Cerone si esprime come un autore completo, in grado di spaziare tra gesti violenti e soluzioni estetiche complesse, elementi che trovano una giusta sintesi nella mostra esposta al MIC dal titolo L’angelo necessario.

Perché è stato scelto il titolo L’Angelo necessario? Quali legami si possono tracciare tra le parole di Wallace Stevens e le opere di Cerone?

Ho sempre percepito Cerone come una figura solitaria e indipendente nell’ambito della scultura italiana, capace di mantenere un percorso personale nonostante il riconoscimento di critici e galleristi, e il contesto romano in cui visse. La sua opera e la sua vita si muovono con una leggerezza che porta con sé il peso di una profonda drammaticità. Se osserviamo le sue opere il senso di autonomia e originalità risalta con forza e molti dei suoi lavori evocano una dimensione sacra: figure di santi, apparizioni, fantasmi e monumenti funerari. Sono elementi che rimandano a un immaginario mortuario, ma non come commemorazione della fine, bensì come aspirazione verso un estremo, un passaggio verso un’altra dimensione. Nonostante fosse ateo, Cerone aveva una fede assoluta nella scultura. Per lui, la scultura e la vita erano inscindibili, due facce della stessa realtà. In questo contesto si colloca il titolo della mostra, L’angelo necessario, che trae ispirazione dall’omonima poesia di Wallace Stevens. In questo contesto l’angelo non è una figura celestiale, ma un’entità terrena, che attraversa il mondo con le sue fragilità, sofferenze e incertezze. Una figura che rispecchia, in parte, lo stesso Cerone: un artista che viveva la scultura come un’espressione poetica e un mezzo per esplorare l’indefinito. Sebbene Stevens non fosse un riferimento diretto, Cerone era profondamente influenzato dalla poesia, soprattutto quella di Hölderlin, Dino Campana e Sandro Penna, oltre che dalla vicinanza personale con Patrizia Cavalli. Le sculture di Cerone sono evocative e sfuggenti: figure che si intravedono senza mai essere del tutto definite. Non ci sono volti, mani o membra riconoscibili, ma solo frammenti che suggeriscono una presenza, come accade nell’angelo di Stevens, intravisto e mai pienamente rivelato. La tensione verso l’indefinibile e il poetico caratterizza l’intera opera di Cerone che ha saputo trasformare la materia in un mezzo per esplorare ciò che va oltre il visibile e che rimane sempre sospeso tra concretezza e astrazione.

Quali temi indaga l’esposizione del MIC?

Un elemento cruciale della mostra è il tema dei materiali, che abbraccia gran parte del repertorio esplorato da Cerone. Sono presenti legno, gesso, plastiche, ceramiche smaltate e metallizzate, mentre il marmo e la pietra, nonostante siano stati da lui occasionalmente trattati (con non più di cinque opere), risultano assenti per questioni logistiche legate alla difficoltà di trasporto. Accanto alle sculture, vi è un nucleo significativo di circa trenta disegni che completa la mostra e che testimonia un altro aspetto essenziale della sua pratica artistica. I disegni in questione, realizzati con tecniche diverse, vanno intesi come vere e proprie sculture su carta. Il gesto che li genera ha un impatto formale ed espressivo analogo a quello che Cerone imprime nelle sue opere tridimensionali. Tra i temi ricorrenti, spicca quello della ceramica, con particolare attenzione alle opere realizzate a Faenza. Qui il legame con la morte risalta attraverso un biancore che richiama la solennità e la nobiltà di una morte statuaria. Il dialogo tra la materia e il concetto di fine esprime una tensione verso l’estremo, un aspetto che risuona in gran parte della sua produzione. Infine, al centro della mostra si impone il tema stesso della scultura. Tutte le opere esposte si configurano come vere sculture, concepite per un museo della scultura in ceramica piuttosto che per uno dedicato alla ceramica.

Giacinto Cerone, Cairo (2002; maiolica)
Giacinto Cerone, Cairo (2002; maiolica). Foto: Francesco Bondi
Giacinto Cerone, Inverno Ateniese (1997; Legno)
Giacinto Cerone, Inverno Ateniese (1997; legno). Foto: Francesco Bondi
Giacinto Cerone, Ritratto di Alighiero Boetti (1996; plastica e gesso)
Giacinto Cerone, Ritratto di Alighiero Boetti (1996; plastica e gesso). Foto: Francesco Bondi
Giacinto cerone, Senza Titolo (2001; gesso)
Giacinto Cerone, Senza Titolo (2001; gesso). Foto: Francesco Bondi
Giacinto Cerone, Senza Titolo (2000; maiolica)
Giacinto Cerone, Senza Titolo (2000; maiolica). Foto: Francesco Bondi
Giacinto Cerone, Senza Titolo (2002; maiolica)
Giacinto Cerone, Senza Titolo (2002; maiolica). Foto: Francesco Bondi
Giacinto Cerone, Stele Bucolica (1994; plastica e gesso)
Giacinto Cerone, Stele Bucolica (1994; plastica e gesso). Foto: Francesco Bondi

Cerone è noto per la sua irruenza e libertà creativa. Queste caratteristiche hanno influenzato il concept e l’allestimento della mostra? In che modo?

Lo spazio espositivo del MIC – Museo Internazionale delle Ceramiche – si presenta come un ambiente molto peculiare, capace di influenzare in modo significativo l’allestimento di una mostra. Per questa esposizione ho costruito il percorso pensando allo spazio stesso, adattandomi alle sue caratteristiche senza concepire una mostra astratta o slegata dal luogo. Nel caso di Giacinto Cerone, questa modalità è risultata particolarmente naturale grazie alla possibilità di organizzare le opere in gruppi tematici ben definiti: le Malerbe, i gessi, le ceramiche metallizzate, i Fiumi vietnamiti, e le quattro figure di eroine, antiche e moderne. I nuclei, già presenti nell’opera di Cerone, presentano un punto di partenza per disporre le opere nello spazio in modo organico. La prima necessità è stata identificare e selezionare i gruppi tenendo conto che alcuni erano naturalmente estensibili, mentre altri si configuravano come unità definite. Successivamente, ho assegnato a ciascun gruppo il luogo più adatto all’interno dello spazio, seguendo le coordinate fisiche e visive del MIC. La priorità è stata quindi valorizzare le serie tematiche dando risalto alle famiglie di sculture concepite dall’artista e distribuendole in modo equilibrato per creare un dialogo continuo tra le opere e lo spazio. Per arricchire ulteriormente l’allestimento, abbiamo deciso di sfruttare alcune pareti apparentemente secondarie per installare disegni, sia di piccole che di grandi dimensioni. Tutto ciò ha permesso di stabilire una relazione tra le due tecniche principali di Cerone, scultura e pittura.

A suo avviso, qual è l’opera più significativa di Cerone presente in mostra, soprattutto per comprendere a fondo l’arte dell’artista?

Per la mostra proporrei due soluzioni che rispecchiano sia il carattere di Cerone che quello della mostra stessa. Da un lato, una delle sculture più potenti e solitarie, Ofelide, meritava di essere esposta in una stanza dedicata. L’opera, realizzata nel 2004, è tra le ultime di Cerone e porta con sé un significato interessante. Si tratta di una ceramica bianca che omaggia Ilaria del Carretto o il Cristo Velato di San Martino, ma anche un autoritratto dell’artista, che si rappresenta attraverso la figura di Ofelia distesa, come se stesse morendo nel corso del suo annegamento, immersa nell’acqua. È un’opera che segna un passaggio dal vissuto all’immaginato, in cui Cerone omaggia la scultura e, al contempo, la sua morte imminente. Per enfatizzare il senso di solitudine e riflessione, la scultura è accompagnata da un ritratto fotografico di Cerone, disteso tra due altre sculture, come se fosse lui stesso la figura di Ofelia. L’installazione evoca sicuramente un’atmosfera struggente ma anche affascinante. Dall’altro lato, la serie Fiumi vietnamiti presenta una proposta completamente diversa: sei sculture, di cui quattro sono esposte in mostra, accompagnate da dieci disegni che analizzano lo stesso tema. Rispetto alla solitaria Ofelia, qui c’è una forte coesione, un gruppo che si compone di sculture e di opere su carta.

Come si concretizza l’idea di “scultura totale” nelle installazioni di Cerone, e quale impatto potrebbe avere o suscitare nel pubblico che visita la mostra?

Il rapporto tra Cerone e la scultura totale è un concetto ben evidenziato nella rassegna. La sua ammirazione per Pino Pascali è visibile nelle opere che dedicò a lui, come il grande pavimento in gesso che fu realizzato a Torino e che, nonostante i danni subiti, continua a parlare del rapporto tra scultura e spazio, simbolicamente e fisicamente. Il riferimento a Pascali è forte e costante, un legame visibile anche in opere come le colate di gesso bianco che richiamano la morbidezza e la fragilità del mare con fulmine di Pascali, e nelle sculture orizzontali che evocano un’idea di scultura come portale o ingombro totale, qualcosa che travalica il singolo pezzo per trasformarsi in un intervento ambientale. Cerone, infatti, spinge il concetto di scultura oltre i limiti tradizionali. Le sue sculture sono colonne poggiate a terra, legni inclinati contro la parete, tappeti orizzontali, sculture che diventano parte della parete come se fossero quadri a rilievo. Ogni pezzo sembra cercare una connessione con lo spazio, con il pavimento, con la parete, in un continuo gioco di relazione tra forma e ambiente. Il concetto di scultura come spazio che si espande, come un’entità modulare che si dispiega nell’ambiente, è anche esemplificato dal suo Cenacolo, un’opera composta da cinque parti, che suggerisce la possibilità di una scultura componibile. Al MIC, gli spazi non consentono di ricreare opere che ormai non esistono più. Ma immaginando un intervento ambientale su larga scala come quello realizzato da Cerone a Tor Bella Monaca o in altri contesti, emerge una visione in cui la scultura occupa decine di metri e dialoga intenzionalmente con l’ambiente circostante.

Giacinto Cerone, Senza titolo (2004; smalto e carboncino su cartoncino)
Giacinto Cerone, Senza titolo (2004; smalto e carboncino su cartoncino)
Giacinto Cerone, Senza titolo (2004; smalto e carboncino su cartoncino)
Giacinto Cerone, Senza titolo (2004; smalto e carboncino su cartoncino)
Giacinto Cerone, Senza titolo (2004; smalto e carboncino su cartoncino)
Giacinto Cerone, Senza titolo (2004; smalto e carboncino su cartoncino)
Giacinto Cerone, Via Crucis (1996; matita, carboncino e colore a cera su cartoncino)
Giacinto Cerone, Via Crucis (1996; matita, carboncino e colore a cera su cartoncino)
Giacinto Cerone, Via Crucis (1996; matita, penna e acquerello su cartoncino)
Giacinto Cerone, Via Crucis (1996; matita, penna e acquerello su cartoncino)

Dal 1993, la collaborazione con la bottega Gatti ha segnato una svolta per Cerone. Quali tecniche non convenzionali adottava, e in che modo queste hanno arricchito la sua poetica?

L’approccio di Cerone alla ceramica è rivoluzionario. Il suo modo di lavorare il materiale diventa un vero e proprio atto di lotta con la materia e questo combattimento con l’argilla, che Cerone affronta con una forza fisica e mentale paragonabile a quella di uno street fighter, è un aspetto che distingue la sua arte da quella di altri scultori contemporanei, come Fontana ad esempio. Cerone aggrediva la ceramica letteralmente. Il suo modo di romperla, stracciarla, perforarla con le mani o i piedi, sembrava un attacco diretto alla materia stessa, come se volesse mettere in discussione la sua resistenza e capacità di sopportare l’intervento umano. L’invenzione del processo di svuotare il blocco di argilla ha permesso a Cerone di spingersi oltre i limiti tradizionali della scultura. È riuscito a dare forma a strutture che potevano essere strappate e manipolate senza compromettere la loro stabilità. Il fatto che la ceramica, una volta svuotata, diventasse una sorta di involucro che poteva essere piegato e perforato, è un’innovazione che consente all’artista di lavorare in modo più fisico e diretto, entrando dentro la materia senza il rischio di distruggerla completamente.

Secondo lei qual è il valore simbolico della diversità dei materiali utilizzati dall’artista?

Non so se esiste un valore simbolico; sicuramente sembrava avere una visione molto pragmatica e funzionale dei materiali. Per lui, l’importante non era tanto il materiale in sé, ma come questo potesse servire a realizzare la sua visione scultorea. I materiali erano strumenti che dovevano adattarsi al suo gesto creativo, che mutava in base al tipo di lavoro da realizzare, non credo li caricasse di un significato simbolico predefinito. Il bianco, in realtà, può essere definito l’eccezione. Nelle sue opere sembra evocare concetti di vita, morte e santità. La scelta del bianco per molte delle sue sculture dedicate ai santi, ad esempio, potrebbe essere letta come un rimando alla purezza, alla transizione tra la vita e la morte, o anche al concetto di trascendenza. È come se Cerone vedesse il bianco come il colore che più si adattava all’idea di trasformazione e di passaggio, sia spirituale che fisico. Al di là di questa riflessione sul bianco, Cerone non si è mai legato a un materiale specifico o a una tecnica in modo dogmatico. La sua coerenza risiedeva nel gesto, nell’idea della scultura come espressione fisica della sua visione. Anche quando utilizzava materiali come la plastica o il marmo, l’approccio era sempre dettato dal bisogno di immedesimarsi in quella materia, al fine di adattare la sua forza e tecnica in base alla sua resa e possibilità.

Allestimenti della mostra. Foto: Francesco Bondi
Allestimenti della mostra. Foto: Francesco Bondi
Allestimenti della mostra. Foto: Francesco Bondi
Allestimenti della mostra. Foto: Francesco Bondi
Allestimenti della mostra. Foto: Francesco Bondi
Allestimenti della mostra. Foto: Francesco Bondi
Allestimenti della mostra. Foto: Francesco Bondi
Allestimenti della mostra. Foto: Francesco Bondi
Allestimenti della mostra. Foto: Francesco Bondi
Allestimenti della mostra. Foto: Francesco Bondi

A vent’anni dalla sua scomparsa, quale traccia ha lasciato Cerone nell’arte contemporanea italiana? Secondo lei come viene percepito oggi dalle nuove generazioni di artisti?

La risposta non è semplice. Sebbene Cerone abbia avuto un impatto notevole in ambito artistico, il suo riconoscimento non è ancora consolidato come quello di altri artisti del panorama contemporaneo, e questo dipende in parte, dal fatto che non ha avuto un mercato stabile o un seguito costante da parte di critici e curatori. Nonostante il suo lavoro sia apprezzato e le gallerie che lo promuovono lo sostengano, non è riuscito a stabilire una presenza storica consolidata come capita a molti altri artisti, soprattutto quelli più legati a movimenti riconosciuti. Questa condizione sembra essere legata in parte alla sua scelta di restare fuori dai circuiti più tradizionali della storia dell’arte, non allineandosi a gruppi o a teorie critiche che abbiano influenzato il panorama artistico italiano del suo tempo. La sua carriera è stata essenzialmente indipendente e questo lo ha reso un caso particolare rispetto alle dinamiche tradizionali della storia dell’arte. Ciò ha sicuramente limitato la conoscenza della sua arte tra le nuove generazioni, che, salvo rare eccezioni, non sembrano avere una consapevolezza completa del suo impatto. Le generazioni che hanno lavorato con lui, come i suoi assistenti a Roma, sono ormai adulte, e quindi non resta che sperare che la storia dell’arte e la critica riescano ad attribuire a Cerone il posto che merita, riconoscendone il valore e la portata della sua creatività nel campo della scultura italiana.

Il Museo potrebbe avere in programma progetti futuri legati a Cerone o a tematiche affini?

Il processo di pianificazione delle mostre è spesso in fase di definizione e ci sono tante dinamiche che devono essere ufficializzate prima di annunciare qualsiasi programma futuro. Non so i programmi futuri del MIC a parte il prossimo Premio Faenza a giugno dedicato alla scultura internazionale, ma quello che emerge, comunque, è che il museo ha avviato un’importante valorizzazione di Cerone con opere già presenti nella collezione permanente, e la mostra in corso, accompagnata da un catalogo pubblicato da Corraini con un testo introduttivo della direttrice del museo, Claudia Casali, sta sicuramente presentando un nuovo sguardo sulla sua produzione artistica. Sicuramente la pubblicazione di un catalogo ben curato, che analizza la poetica dell’artista in modo approfondito, è sempre un ottimo strumento per arricchire il panorama critico e per sensibilizzare anche un pubblico più ampio sul valore della sua opera.


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Noemi Capoccia

L'autrice di questo articolo: Noemi Capoccia

Originaria di Lecce, classe 1995, ha conseguito la laurea presso l'Accademia di Belle Arti di Carrara nel 2021. Le sue passioni sono l'arte antica e l'archeologia. Dal 2024 lavora in Finestre sull'Arte.



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