Dall’11 dicembre 2021 al 18 aprile 2022 è in programma alla Basilica Palladiana di Vicenza la mostra La Fabbrica del Rinascimento. Processi creativi, mercato e produzione a Vicenza, a cura di Guido Beltramini (direttore del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio), Davide Gasparotto (Senior Curator of Paintings del J. Paul Getty Museum di Los Angeles) e Mattia Vinco (ricercatore di Storia dell’arte moderna all’Università di Trento). Per la prima volta, una mostra ripercorre le vicende del Rinascimento a Vicenza con le opere di tutti i grandi artisti che lavorarono in città al tempo, dal Palladio al Veronese, da Jacopo Bassano ad Alessandro Vittoria. Molte le novità: riuniti in città diversi capolavori assenti da secoli, per la prima volta una mostra sul Rinascimento veneto riflette sull’intreccio tra le tre arti, e molto altro. Di tutto questo abbiamo parlato con il curatore Mattia Vinco in questa intervista a cura di Ilaria Baratta.
IB. Da cosa nasce l’idea di questa mostra dedicata a cinquant’anni di arte a Vicenza, dal 1550 al 1600?
La mostra nasce da un progetto condiviso di Guido Beltramini, Davide Gasparotto e Mattia Vinco, con il quale si è cercato di mettere a fuoco i momenti principali della rinascita artistica della città di Vicenza nel Cinquecento. L’attenzione è stata focalizzata su alcuni fatti avvenuti attorno all’anno 1550 che hanno rappresentato una vera e propria svolta per l’ambiente storico artistico vicentino. Finora l’età di Palladio era stata raccontata in modo per così dire “enciclopedico”. Con questa ricerca e con la conseguente mostra si è preferito invece mettere in luce i punti di svolta cruciali per la comprensione del periodo in questione. Questa rinascita non è solo una rinascita storico-artistica, ma anche economica e sociale. Per questo motivo, con l’aiuto dello storico dell’economia Edoardo Demo, e degli altri collaboratori al catalogo, abbiamo cercato di lavorare su più piani, tenendo presente anche il contesto storico entro cui questi artisti si muovevano, non da ultimo quello spirituale e religioso, dato che la città di Vicenza fu una delle più sensibili in Italia alle istanze della riforma.
Qual era il contesto storico e culturale a Vicenza in quegli anni?
L’evento sicuramente più significativo è costituito dall’ingresso del vescovo Niccolò Ridolfi nel 1543. Il beneficio gli era stato concesso nel 1524, ma passarono quasi vent’anni prima del suo insediamento. Idealmente Niccolò è un anello di congiunzione con la Roma di Leone X e di Clemente VII, nella quale aveva trovato fortuna l’artista vicentino più importante della prima metà del Cinquecento, l’orafo Valerio Belli. Il Ridolfi è un membro della famiglia Medici per parte di madre e già dal 1518 fu in contatto epistolare con il più grande umanista vicentino, Giangiorgio Trissino. Possiamo dire che l’insediamento del vescovo Ridolfi racconta bene una città a due velocità alla metà del secolo. L’incarico di dirigere e progettare gli apparati effimeri per il suo ingresso è affidato al giovane Andrea Palladio, mentre la loro decorazione a pittori di cultura ancora tardo quattrocentesca, con l’eccezione di Giovanni Battista Maganza, amico dello stesso Palladio e dell’umanista Giangiorgio Trissino. L’architettura si dimostra insomma molto più aggiornata rispetto alle altre altri e in particolare alla pittura, proprio per la precoce presenza di Jacopo Sansovino a Venezia e di Giulio Romano a Mantova, che costituiscono i punti di riferimento imprescindibili per la formazione del giovane Palladio.
Si parla nel titolo di “Fabbrica del Rinascimento”. L’importanza di questa città in quell’epoca è data dalla presenza a Vicenza di alcuni tra i maggiori artisti italiani del Rinascimento che avevano rapporti anche con altre importanti realtà. Quali i principali e quale contributo ha dato ognuno di loro all’arte vicentina?
Nel 1551 (o già forse nel 1547) Alessandro Vittoria, uno scultore trentino che si era però già stabilito a Venezia per entrare nella bottega di Jacopo Sansovino, arriva in città per decorare alcuni ambienti di palazzo Thiene, un edificio progettato da Andrea Palladio. Nei suoi stucchi Vittoria porta una sensibilità completamente nuova, aggiornata sulle esperienze di Primaticcio a Fontainebleau, e una rilettura in chiave decorativa del lessico michelangiolesco. Paolo Veronese nel 1552 dipinge alcuni affreschi, purtroppo perduti, in un altro palazzo palladiano, quello di Iseppo Porto, marito di Livia Thiene, di cui realizzò anche la stupenda coppia di ritratti; inoltre, nel 1549, venne affidato all’architetto vicentino Palladio l’incarico di restaurare e dare una nuova veste alla Basilica Palladiana (sede della mostra) e di progettare Palazzo Chiericati, che con il suo portico sorretto da colonne rappresenta forse la maggiore novità del suo linguaggio. Infine, nella provincia vicentina, a Bassano, Jacopo da Ponte riscopre in quegli stessi anni l’arte di Parmigianino, in perfetto parallelo con Veronese e Vittoria.
L’artista che trasformò in maggior misura il volto di Vicenza fu Andrea Palladio, che nelle sue architetture guardava all’antico. Quale apporto diede Palladio alla città di Vicenza e quale rapporto intratteneva la città con l’antico?
A differenza di Verona o di Pola, a Vicenza i resti antichi sono molto limitati, anche se nel 500 era meglio leggibile di oggi il teatro romano di Berga. Il rapporto della città con l’Antico è più concettuale che fisico, quindi, si potrebbe dire sul modello degli interessi di un Petrarca o di un Dondi dell’Orologio per gli aspetti anche materiali della vita antica: non a caso vengono editi libri come il De sestertio di Leonardo Porto (1520), che è il primo studio sulle monete antiche e il Promptuarium di Giulio Barbarano (1569). Questa tensione a ‘rivivere’ l’antico trova una sua prima concretizzazione con la convocazione in città di Giulio Romano da parte del consiglio cittadino e, come si diceva, con l’allestimento degli apparati effimeri per l’ingresso del Ridolfi, composto da archi trionfali, pronai di tempio all’antica, obelischi, statue colossali, pitture a chiaroscuro. Di fatto questa effimera Vicenza “all’antica” prefigura la direzione della attività palladiana nei successivi decenni, impegnata a trasformare ‘l’invecchiata usanza’ degli edifici gotici della propria città in edifici pubblici e privati esemplati sulle architetture dell’antica Roma. Nei decenni successivi è come se l’apparato festivo di legno e stucco si pietrificasse, divenendo permanente, e questa è una chiave di lettura per spiegare perché gli edifici vicentini di Palladio abbiano dei caratteri spiccatamente figurativi, vere e proprie architetture parlanti con i riquadri delle storie, gli stucchi, le statue, senza precedenti nel Veneto del Cinquecento. Il teatro Olimpico, ultima opera di Palladio rimasta incompiuta per la sua morte nell’agosto del 1580, appare un approdo inevitabile. La struttura della scena è trionfale, parlante, dominata dai bassorilievi delle storie di Ercole e dalle statue degli Accademici, rivestiti di panni all’antica per rappresentarsi come Romani.
Come si struttura il percorso espositivo e quali aspetti s’intendono maggiormente evidenziare?
Il percorso espositivo si struttura in tre sezioni: la prima, appunto, cui già si accennava, dedicata alla rinascita artistica della città nel 1550 circa. Il visitatore fa subito la conoscenza dei personaggi (committenti e artisti) che lo accompagneranno in questo viaggio. Tra i committenti abbiamo scelto quelli che ci sembravano i più significativi: in primo luogo i coniugi Porto, riuniti per la prima volta a Vicenza con il prestito della tela con Iseppo Porto dalle Gallerie degli Uffizi e di Livia Thiene dal Walters Art Museum di Baltimore. Al loro fianco ci sarà un’altra coppia di vicentini illustri, i coniugi Gualdo di Giovanni Antonio Fasolo della Pinacoteca Civica di Palazzo Chiericati, per cercare di valorizzare in questo modo anche il patrimonio locale, troppo spesso dimenticato. I quattro artisti simbolo della rinascita della città sono presentati subito dopo con opere di altissima qualità: l’eccezionale prestito dell’Unzione di Davide del Kunsthistorisches Museum di Vienna di Paolo Veronese, che sullo sfondo presenta una edificio evocativo della Basilica Palladiana; il primo busto all’antica di Alessandro Vittoria raffigurante il giurista vicentino Giovanni Battista Ferretti, una commissione affidatagli da Daniele Barbaro, che di lì a poco incaricherà Palladio e Veronese di realizzare il loro capolavoro, la villa di Maser; l’Adorazione ai pastori di Jacopo Bassano, con la quale facciamo la conoscenza della sua assimilazione della maniera parmigianinesca in questi anni cruciali; un modello di Palazzo Chiericati, opera rivoluzionaria di Andrea Palladio, commissionata nel 1550. Si passa poi alla seconda sezione, dove sono indagati alcuni temi cruciali del processo creativo di questi quattro grandi artisti che cambiano il volto della città e del territorio vicentino: si potrà vedere come Palladio indaghi l’antico all’interno dei suoi progetti, come Bassano utilizzi un’incisione di Agostino Veneziano dallo ‘Spasimo di Sicilia’ per il suo Cristo portacroce del Fitzwilliam Museum di Cambridge; come Veronese, partendo da un disegno di Parmigianino, diede vita a uno dei suoi capolavori, la Madonna col Bambino e santi della Pinacoteca di Palazzo Chiericati. Si tratta ancora una volta un’opera caratterizzante del patrimonio cittadino, che apparirà senz’altro sotto una nuova luce grazie a questo prestito da parte del Teylers Museum di Haarlem del disegno del grande artista emiliano. Il tema del processo creativo è indagato però anche dal versante del passaggio dal progetto all’opera finita. Sarà interessante per questo motivo vedere da vicino i disegni di Veronese e Palladio, concepiti come un sistema di varianti continue e quello di Jacopo Bassano, che si concentra su un’unica figura, utilizzata nella cosiddetta Pastorale (“Il cavallo bianco”) del Museo di Belle Arti di Budapest. Inoltre una novità della mostra è rappresentata da focus sui bozzetti e sui modelletti, un nuovo strumento utilizzato dagli artisti del Cinquecento sia per ragioni progettuali intrinseche, sia estrinseche, legate alla presentazione ai committenti. Infine il processo creativo è stato indagato anche sul fronte, per così dire, opposto, quello della replica. Nel Rinascimento, e in generale nelle epoche preromantiche, non si dava troppa importanza al concetto di originalità. Il caso è illustrato dalla coppia di Adorazioni dei Magi del Barber Institute of Fine Arts di Birmingham e del Kunsthistorisches Museum di Vienna: entrambi capolavori al massimo grado di autografia di Jacopo Bassano e, al contempo, repliche della stessa idea. Un ulteriore approfondimento è poi dedicato all’importanza del disegno tratto da sculture, uno strumento indispensabile per imparare a raffigurare un oggetto in tre dimensioni: in un allestimento molto teatrale e suggestivo, il Ritratto d’artista di Palma il Giovane del Museo di Birmingham, il cui fondo è caratterizzato da sculture antiche molto famose all’epoca e impiegate dagli artisti veneziani come modello, sarà circondato dagli stessi marmi, gessi e disegni rappresentati nel quadro. La terza sezione è invece una riflessione a vasto raggio sul mercato dell’arte e soprattutto sui costi dell’arte nel Rinascimento: oggi si tende a sottovalutare l’importanza che aveva la materia prima nella valutazione di un’opera d’arte, assolutamente maggiore rispetto a quella che ha nel contemporaneo. Basti pensare alle opere digitali, che nelle ultime aste stanno battendo ogni record! Questo non accadeva nel Rinascimento. Utilizzando come termine di paragone alcune opere ben documentate dal libro dei conti della bottega bassanesca, e altre ancora, abbiamo provato a paragonarle ad altre che oggi destano meno l’attenzione del pubblico, come la croce in cristallo di rocca di Valerio Belli dei Musei Vaticani, l’arazzo su disegno di Andrea Schiavone per la Basilica Marciana etc., ma anche con i marmi romani antichi della collezione Bevilacqua di Verona, all’epoca probabilmente la più importante nella terraferma veneta. Il risultato è stato sorprendente. Per fare solo un esempio: uno dei dipinti veneti più affascinanti del Louvre, il Ritratto di due cani legati a un tronco di Jacopo Bassano, costava una cifra irrisoria solo perché era un dipinto di piccole dimensioni e con poche figure.
Quali novità propone il percorso espositivo? Un aspetto poco considerato e che invece questa mostra intende presentare ha a che fare proprio con il mercato dell’arte. Può spiegare meglio questo aspetto?
La terza sezione rappresenta una novità perché il significato delle opere d’arte sarà integrato dalla ‘visualizzazione’ del loro valore sociale ed economico. Questa indagine, che è stata resa in modo graficamente divertente e accattivante, è frutto in realtà di uno studio storico economico sulla società del tempo, svolto da Edoardo Demo con l’aiuto di Giulio Ongaro. Per dare in estrema sintesi del valore delle opere d’arte nella società pre-industriale, cioè in una società difficilmente paragonabile alla nostra, è stato individuato un termine di confronto in un bene di largo uso come il maiale ‘mezanotto’, ovvero un maiale di valore intermedio, di circa 3 ducati. In questo modo sarà possibile confrontare velocemente tipologie diverse di oggetti, un libro, una camicia etc. con le opere d’arte e capire subito come fossero valutate al tempo.
Quali sono le opere più significative in mostra?
I prestiti importanti sono molti e si farebbe torto a qualche istituzione citarne solo alcuni. Basti ricordare che i musei che hanno dato fiducia al nostro progetto sono i più importanti del mondo. Di certo la mostra rappresenterà una occasione unica, come si diceva, per vedere i ritratti dei coniugi Porto delle Gallerie degli Uffizi e del Walter Art Gallery di Baltimore, riunti a Vicenza per la prima volta; per vedere le due Adorazioni dei Magi di Bassano di Birmingham e Vienna, capolavori ‘identici’, fianco a fianco. Tra queste opere merita però una menzione particolare il bozzetto con della Giuditta con la testa di Oloferne del Museo Soumaya di Città del Messico che ci è stato generosamente segnalato da Xavier Salomon, vicedirettore della Frick Collection di New York. Un’opera nota da tempo, ma che a causa della sua collocazione è stata sostanzialmente dimenticata dagli studi. Poterla esaminare a confronto con la tela monumentale di Palazzo Rosso a Genova consentirà sicuramente di fare un passo in avanti nella conoscenza di Paolo Veronese, uno dei massimi artisti del Cinquecento veneto, che con i suoi due ritratti ha lasciato una traccia duratura nell’arte vicentina.Per concludere, tre motivi per cui il pubblico dovrebbe vedere la mostra.
Un primo motivo, che potrebbe sembrare banale, è costituito dal fatto che, per la prima volta in una mostra sul Rinascimento veneto, si potrà assistere al dialogo serrato delle tre arti: architettura, pittura e scultura. Qualcosa di simile era stato tentato solo con la mostra The Genius of Venice 1500-1600 del 1983-1984, senza peraltro che venissero esposti disegni di architettura nelle sale della Royal Academy of Arts di Londra. In secondo luogo si potrà entrare nel vivo del processo creativo di questi grandi artisti veneti, ammirando i punti di contatto e differenze del loro modo di inventare. Infine, ed è forse il motivo che rappresenta la maggiore novità, si potrà acquisire una maggiore consapevolezza rispetto a quanto sappiamo oggi dei costi e del valore dell’arte nella società del tempo. Non si tratta però solo di una mera analisi di tipo economico, ma anche di riflettere sulle opere d’arte quali preziose testimonianze del variare del gusto lungo i secoli.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.