Nata dall’incontro nel 2022 tra l’artista Michele Chiossi (Lucca, 1970), il gallerista napoletano Andrea Nuovo e la storica dell’arte Fernanda García Martino, napoletana d’adozione, la personale Prolegomeni porta in scena, nella home gallery partenopea, 17 opere che danno vita a un percorso visivo avvolgente. Il visitatore è guidato attraverso lo spazio espositivo, dal piano terra lungo la scala fino al primo piano, per poi giungere alle soglie del giardino sospeso, una sorprendente apertura paesaggistica. Artista poliedrico, Chiossi da anni concentra la sua ricerca sulla materia e sullo spazio, combinando tecniche tradizionali – marmo, alluminio, bronzo – con materiali contemporanei come resine, PVC e silicone, fino alla sperimentazione con la luce, dal neon ai LED. Lo abbiamo incontrato in occasione dell’opening.
FM: Prolegomeni. Perché questo titolo?
MC: Volevo evocare un’introduzione, un’apertura a un discorso più ampio. Un preludio che segna l’avvio di una ricerca artistica ancora in divenire. La mostra raccoglie opere che spaziano dal 1999 ai lavori più recenti, realizzati appositamente per l’occasione, tracciando l’evoluzione del mio percorso artistico.
Il motivo a zigzag è una cifra stilistica ricorrente nel tuo lavoro. Da dove nasce?
Negli anni Novanta frequentavo Alighiero Boetti, che usava la griglia della carta a quadretti come base per i suoi arazzi. Quel rigore mi ha influenzato profondamente. Ho adottato il motivo a zigzag nei miei disegni, nelle sculture in metallo e marmo e nei dipinti su marmo.
Come lo hai reinterpretato oggi?
Attraverso la scultura e la sperimentazione con i materiali. In Europe, per esempio, il motivo a zigzag diventa uno svolazzo calligrafico: una scultura sospesa in acciaio che richiama antichi patti e firme. Trattati e agreements venivano siglati infatti proprio con firme dagli svolazzi calligrafici finali. È un messaggio per l’Europa attuale, un invito a nuove forme di unione in un contesto segnato da conflitti e instabilità.
Quali altre opere sono presentate per la prima volta?
Ho lavorato su nuove serie, tra cui i curtain paintings o quadri-tenda, un incontro tra pittura e scultura. Uso materiali diversi: fusioni in ottone, legno, marmo, terracotta, acciaio, argento e luci.
C’è un fil rouge concettuale che lega questa nuova produzione?
Più di uno: dalla poesia di Virgilio alla Réverie di Bachelard, passando per Calvino, il Vesuvio, le nature morte fiamminghe e il respiro del mare.
Come è nato il tuo interesse per l’arte?
Fin da bambino ho avuto una forte propensione per la creazione. La mia prima “bottega” è stata la cucina: budini, pizzette, sperimentazioni con la materia. Poi ho indirizzato questo istinto verso la scultura.
Qual è il tuo primo ricordo creativo?
A sette anni, con una macchina per il gelato, passai un’intera estate a creare dolci usando stampi Tupperware. Già lì c’era un’idea di calchi e riproduzione. Più tardi, con Theory of Colors, ricreai la Pietà di Michelangelo con strati di gelato, esplorando la teoria dei colori di Goethe.
Hai già accennato al tuo periodo formativo. Cosa ricordi di quegli anni?
Il mio vero periodo di formazione è iniziato intorno ai 21-22 anni, con il primo viaggio a New York. Venivo da un contesto provinciale: Lucca fino al liceo, poi Firenze con l’Accademia. Milano, negli anni Novanta, aveva ancora una scena artistica limitata. Grazie a riviste come Tema Celeste e Flash Art, ho ampliato la mia visione. New York era il centro dell’arte, così ho deciso di trasferirmi, tra opening e incontri con artisti.
Una mostra che ti ha colpito particolarmente?
The Italian Metamorphosis al Guggenheim, curata da Germano Celant nel 1994. Una mostra interdisciplinare sull’arte italiana dal 1943 al 1968, con Pascali, Manzoni, prototipi Olivetti e Fiat, e il cinema neorealista. C’erano installazioni, proiezioni e, al piano terra, Il Socle du Monde di Manzoni. In alto, Il Ponte di Pascali.
Hai avuto modo di rileggere l’italianità da una prospettiva diversa?
Sì, soprattutto osservando come l’Italia veniva percepita negli Stati Uniti. Mi colpì molto, così come il design e la moda. Al MoMA c’era una sezione dedicata al design affascinante. Ricordo mostre di Bruce Nauman, Annette Messager e i Sunday tea da Louise Bourgeois.
Hai visitato studi d’artista a New York?
Tra i primi, quello di Not Vital, che mi ha introdotto alla New York art scene, e quello di Sandro Chia a Chelsea: un intero piano con vista sull’Hudson.
Cosa ti colpì di Chia?
Il modo di ricevere e accogliere, tipico della sua generazione. Era un’epoca meno marketizzata, con un approccio più spontaneo, quasi naïf.
Tornando invece all’oggi: quale opera di Prolegomeni consideri più emblematica?
Masino, una scultura nata dalle mie riflessioni sulla spiaggia della Lecciona, vicino a Viareggio. Lì raccolgo legni restituiti dal mare dopo le mareggiate. Uno di questi, un tronco massiccio di pino rosso, alto circa un metro e dieci, mi ha colpito per la sua forma levigata e profumata.
Come hai lavorato su questo tronco?
L’ho lavato, rimosso il sale e la sabbia, ripulito i nodi e le cavità con scalpelli e trapano. Per ridare vita al legno, ho usato cere naturali d’api, lucidandolo a mano per mesi. Il risultato è un legno che sembra resinato, ma completamente naturale.
E la base?
È in marmo, ispirata a una colonna classica reinterpretata con tre elementi. Durante il Covid ho riflettuto molto sulla cultura greca e mediterranea. Il simbolismo della colonna – stabilità, forza, concretezza – è tornato spesso nel mio lavoro. Qui, diventa organica, con un capitello arricchito da dettagli in ottone, terracotta esplosa e fusione d’argento.
Essendo la mostra a Napoli, se dovessi scegliere un numero della smorfia?
L’8, ’a Maronna (la Madonna).