La recente mostra su Guido Reni alla Pinacoteca Nazionale di Bologna (La favola di Atalanta. Guido Reni e i poeti, conclusa lo scorso 16 febbraio) ha introdotto importanti novità sull’artista bolognese e, in generale, sull’ambiente artistico della Bologna del primo Seicento. Le scoperte sono in gran parte merito della studiosa Giulia Iseppi (1985), che ha curato la mostra assieme a Raffaella Morselli, studiosa del Seicento, e Maria Luisa Pacelli, direttrice della Pinacoteca Nazionale di Bologna fino a novembre 2024. Noemi Capoccia ha intervistato Giulia Iseppi per approfondire le sue scoperte. Iseppi ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dell’Arte Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza nel 2020 ed è attualmente assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi della Tuscia (Viterbo). Dopo la laurea e la specializzazione a Bologna nel 2012, dal 2016 al 2021 ha ricoperto il ruolo di cultrice della materia in Museologia e Letteratura artistica presso il Dipartimento di Storia dell’Arte della Sapienza. È stata borsista alla Biblioteca Hertziana di Roma dal 2014 al 2017 e ora collabora come scientifica affiliata. Tra il 2021 e il 2023, ha ottenuto borse e assegni di ricerca presso l’Università di Teramo e la Fondazione 1563 di Torino. Inoltre, nel 2023 ha conseguito l’abilitazione scientifica nazionale a professore di II fascia per Storia dell’Arte Moderna. I suoi studi si sono concentrati sulla pittura bolognese tra il Seicento e il Settecento, approfondendo in particolare le dinamiche delle botteghe e la storia del collezionismo. È membro di numerosi gruppi di ricerca nazionali e internazionali e, dal 2021, insegna al Centro Studi sull’opera d’arte (DBC Campus Ravenna). Dal 2024, è anche membro del PRIN PNRR Farnese Fasti (Unitus).
NC. Com’è avvenuto il ritrovamento delle Poesie manoscritte di Andrea Barbazza?
GI. In un certo senso, è stato lui a trovare me. È successo come spesso accade nella ricerca d’archivio, mentre stato rincorrendo qualcos’altro. Gli archivi statunitensi sono in molti casi, serbatoi ancora vergini per lo scavo documentario: è il caso dell’Harry Ransom Center, connesso all’Austin University: ho notato subito la presenza di un fondo di documenti provenienti da archivi bolognesi soppressi. Non ho potuto ignorarlo e, esaminandolo, mi sono imbattuta nel manoscritto. Ciò che ha catturato immediatamente la mia attenzione è stato il nome di Barbazza, un autore di cui esistono pochissime immagini. La mia curiosità è aumentata di fronte al faldone che custodiva un manoscritto interamente rilegato, proveniente dall’archivio bolognese Ghiselli, che era noto per raccogliere memorie bolognesi e, probabilmente, aveva acquisito il manoscritto dalla biblioteca dei Gelati, per poi venderlo all’archivio Fantuzzi, gestito dalla famiglia omonima fino alla fine del Settecento o, al massimo, dell’Ottocento. Successivamente, come molti altri documenti di quell’archivio, anche questo è stato messo all’asta, finendo in una vendita del 1968 organizzata da una libreria bolognese. Il Ransom Center ha acquistato quel lotto senza avere piena consapevolezza del valore dei documenti che conteneva. Ed è così che il manoscritto è finito in Texas. Il motivo per cui l’ho ritrovato dipende dal percorso di ricerca che avevo intrapreso. Inizialmente, avevo cercato documenti su Barbazza negli archivi bolognesi e ferraresi, ma l’archivio della sua famiglia era andato completamente distrutto; una parte bruciata, un’altra venduta. Ritrovare tracce della sua attività sembrava impossibile. A quel punto, ho cambiato approccio e anziché cercare nell’archivio familiare, ho deciso di esplorare gli archivi delle istituzioni con cui Barbazza aveva collaborato, in particolare le accademie, che sono anche al centro dei miei studi. Seguendo i documenti dell’Accademia dei Gelati, ho cercato di capire dove fossero finiti materiali simili. Il percorso mi ha portata quindi all’archivio Ghiselli, poi all’archivio Fantuzzi e infine in Texas.
Attraverso il manoscritto si scopre una nuova immagine del poeta bolognese come collezionista. In che modo il ritrovamento cambia la percezione del collezionismo nell’epoca barocca?
Questa è una domanda molto importante e che richiede una risposta piuttosto ampia. In primo luogo, il manoscritto permette per la prima volta la ricostruzione di una personalità singola inedita, un poeta-collezionista come Barbazza, che già dai pochi dati noti a disposizione si intuiva essere al centro di un fitto network di relazioni e scambi. Attivo a Bologna, ma connesso a Mantova, Roma e Napoli, gli studi su Barbazza forniscono molti dati anche per l’aggiornamento delle ricerche su poli culturali e geografici disseminati lungo la Penisola. Inoltre, credo possa notevolmente ampliare lo spettro concettuale del collezionismo barocco. Dopo anni di studi, imprescindibili, sul collezionismo tradizionale legato a chi aveva alte disponibilità di denaro, i nobili e gli alti prelati, sono emerse nuove figure di collezionisti, esponenti dell’alta borghesia, oltre alla loro posizione sociale, ricoprivano ruoli eruditi all’interno di contesti accademici, dell’università, delle corti e sviluppavano interessi che si riflettono nelle loro quadrerie private. Questo tipo di collezionismo, legato ai letterati, è un ambito dissodato in anni relativamente recenti e ha iniziato ad emergere in diverse realtà geografiche, non solo a Bologna, ma anche a Roma, Napoli e Milano, spesso legato alle reti con i pittori create da Giovan Battista Marino, di cui già Giorgio Fulco coglieva la sostanza. Per Bologna, un’indagine sull’orientamento collezionistico dei poeti era un filone quasi inesplorato, per mancanza di connessioni interdisciplinari, nonostante le geniali intuizioni di Ezio Raimondi. Sul versante emiliano manca un’indagine sistematica su questa particolare declinazione del collezionismo legata ai letterati, più che in altri contesti culturali. Un primo passo è ciò che io e Raffaella Morselli abbiamo cercato di avviare attraverso il volume e la mostra.
Qual è il legame tra Guido Reni e i poeti bolognesi del suo tempo?
Il legame tra Guido Reni e i poeti del suo tempo è caratterizzato da moltissime sfumature, le stesse che riflettono la sua personalità poliedrica. Reni era un outsider, difficilmente paragonabile agli altri pittori bolognesi dell’epoca, sia per il suo carattere, schivo, per niente ruffiano e solitario, sia per il suo stile pittorico, sia per il valore economico delle sue opere. Questa unicità era ben chiara ai contemporanei già durante la sua vita, e i letterati dell’epoca cercavano spesso un rapporto diretto con lui, consapevoli che un simile legame avrebbe potuto portar loro luce e prestigio. Il primo strumento utilizzato dai poeti per avvicinarsi a Reni era la lode scritta: un mezzo di scambio reciproco. Da un lato, il pittore beneficiava di una ufficiatura erudita della sua arte e della sua figura; dall’altro, legando il proprio nome al più celebre artista della città, il poeta guadagnava visibilità, credibilità presso i potenti e un accreditamento nel mondo culturale. Oltre a questo scambio letterario, vi era poi un livello più personale. Guido Reni sapeva instaurare con i poeti rapporti profondi e diversificati, con una frequenza e una sistematicità superiori rispetto ad altri pittori. A figure come Cesare Rinaldi e Andrea Barbazza, Reni chiede amicizia, servizio, intermediazione presso i committenti e un ruolo di agente per la vendita delle sue opere. Alcuni di questi letterati avevano accesso alla sua casa. Cesare Rinaldi, ad esempio, trascriveva in bella copia le sue lettere, poiché Reni sosteneva di avere una pessima grafia. Tutti questi dettagli, noti grazie alla biografia di Malvasia e a nuovi documenti, ci fanno capire il grado di confidenza e intimità che Reni instaurava con i poeti, le relazioni professionali e personali si sovrapponevano strettamente.
Il rapporto tra pittura e letteratura è stato forse troppo trascurato negli studi di storia dell’arte? Quali sono i vantaggi di un approccio interdisciplinare?
È un rapporto che nella storia dell’arte moderna è stato a lungo sottovalutato, principalmente per una reciproca mancanza di intreccio tra le due discipline. Gli storici dell’arte hanno spesso considerato la letteratura, in particolare quella poetica, come una fonte meno fertile rispetto ai documenti d’archivio tradizionali, come inventari, libri di conti e biografie. Si è ritenuto che i testi letterari potessero restituire poche informazioni concrete sulle opere e sui contesti artistici. In realtà il cambio di prospettiva ha rivelato un patrimonio documentario di notevole interesse. Già negli anni Settanta e Ottanta, studiosi come Giorgio Fulco o Ezio Raimondi avevano intuito il potenziale di questo approccio, studiando il collezionismo di Giovan Battista Marino. Nonostante ciò, questi tentativi, seppur fondamentali, erano rimasti episodi isolati. Ultimamente si sta sviluppando con maggiore sistematicità questo link tra storia dell’arte e studi letterari. Uno dei principali vantaggi di questa integrazione è che la poesia ecfrastica barocca è un terreno molto dissodato dagli italianisti. Numerosi studi hanno prodotto un’enorme quantità di dati, collettanee e documenti che però, nonostante la loro disponibilità, venivano poco incrociati con le fonti della storia dell’arte. Questo significa che esiste un bacino di conoscenze in parte ampiamente accessibile, in parte ancora da esplorare per via manoscritta ma di cui è stata tracciata la via, da rielaborare attraverso un confronto con il dato pittorico. Uno dei primi passi, oltre alla scoperta di nuovi documenti come nel caso di Andrea Barbazza, è proprio l’intersezione tra discipline che fino a oggi hanno dialogato poco.
Secondo lei, quali nuove prospettive di ricerca possono emergere nel campo del collezionismo e del mecenatismo bolognese tra Seicento e Settecento?
L’approccio sviluppato nello studio del rapporto tra Guido Reni e i letterati del suo tempo, frutto di una ricerca condotta insieme a Raffaella Morselli, delinea un modello di indagine innovativo e applicabile a molti altri pittori dell’epoca moderna. Guido Reni costituisce un caso forse unico per la profondità dei suoi legami con i letterati del Seicento e per la vastità di materiale letterario a disposizione, ma il metodo di analisi utilizzato può essere esteso ad altri artisti del Sei e del Settecento. La prospettiva apre nuove possibilità di studio, tenendo comunque presente che la produzione letteraria e il ruolo sociale del pittore mutano nel passaggio tra i due secoli. Se nel primo Seicento il rapporto tra pittura e letteratura si struttura in dinamiche precise e selettive, già alla fine del secolo e per tutto il successivo si assiste a un ampliamento esponenziale del rapporto fra pittori e poeti, per via delle coordinate culturali che si modificano, con una diffusione più capillare della produzione letteraria nelle maglie della vita dei pittori. In ogni caso, il modello d’analisi rimane valido per comprendere le relazioni tra artisti e letterati in epoca barocca. Già oggi, lo stesso approccio viene applicato a numerosi altri pittori e in altri contesti geografici e culturali, rivelando nuove connessioni e informazioni inedite. Dal punto di vista della storia dell’arte, la metodologia si sta dimostrando estremamente proficua. L’auspicio è che possa stringersi sempre di più e più a lungo questa interrelazione.
Passiamo a parlare della mostra. Come è nata l’idea della rassegna La favola di Atalanta. Guido Reni e i poeti esposta (fino al 16 febbraio 2025) alla Pinacoteca Nazionale di Bologna?
La mostra nasce dall’intreccio di due eventi distinti ma strettamente connessi. Nel 2022 ho pubblicato, a quattro mani con Beatrice Tomei, Humanista delle tele. Guido Reni e i poeti, un volume che per la prima volta ha esplorato in modo sistematico i rapporti tra Guido Reni e la poesia a lui contemporanea. Il libro ha due anime, grazie a un doppio approccio alla ricerca proveniente dalla diversa impostazione mia e della collega. Il libro ha suscitato interesse e Maria Luisa Pacelli, allora direttrice della Pinacoteca Nazionale, ha deciso di trarne spunto per una mostra che approfondisse questi legami. Il secondo evento fondamentale è stato il ritrovamento di una terza versione autografa dell’Atalanta e Ippomene di Guido Reni, in collezione privata. La scoperta ha portato a un riesame delle due versioni già note, rispettivamente custodite al Museo del Prado (Madrid) e al Museo Nazionale di Capodimonte (Napoli), perché mette davanti al fatto compiuto che non si tratta più di una coppia di dipinti, ma di una serie. Era una rilettura che richiedeva una nuova formulazione di contesto, un contesto che con Raffaella Morselli abbiamo quindi individuato nell’ambiente accademico contemporaneo. Il legame critico fra tutti questi elementi ha dato poi motivato la mostra di Bologna.
In che modo la mostra contribuisce a una nuova lettura dell’opera di Guido Reni e del suo rapporto con la mitologia?
La cavalcata novecentesca che ha rivalutato Guido ha avuto grandissimi meriti, primo fra tutti quello di tirare fuori (letteralmente) dipinti impolverati da chiese e magazzini e restituirli al grande pubblico. Per molto tempo però si è faticato a scardinare l’idea che Reni fosse un artista di eccezionale abilità tecnica, senza domandarsi da quale tipo di erudizione provenissero alcune tra le sue invenzioni più geniali e innovative. Un pennello ineguagliabile, con uno spessore erudito che però non arriva a influenzare la sua produzione. Una convinzione che non poteva infondata. Lo studio approfondito delle fonti, della storia delle sue opere e delle sue invenzioni dimostra invece come Reni fosse un intellettuale, profondamente connesso al mondo accademico e letterario. Si muoveva con agilità tra le élite intellettuali dell’epoca, alcune delle sue opere, spesso quelle senza storia, tradiscono uno studio del dato poetico a un livello che tutt’altro che superficiale, come mero serbatoio di iconografie. Il suo tratto distintivo, forse il suo vero vantaggio, è stato quello di non appartenere mai in modo esclusivo a un circolo accademico o letterario, ma di orbitare intorno a tutti, partecipando e traendone ispirazione senza mai vincolarsi a una singola scuola di pensiero. La sua posizione fluida gli ha permesso quindi di stringere rapporti con membri di diverse accademie tra Bologna e Roma, influenzando e allo stesso tempo venendo influenzato da esse, e con eruditi che entrando ed escono dalle corti. Un esempio dello scambio è proprio la serie dell’Atalanta e Ippomene. Raffaella Morselli ha argomentato in modo convincente che l’invenzione andrebbe ricondotta a committenti di altissimo profilo. L’esposizione ha rivelato dunque Reni come il fulcro di una rete culturale tentacolare, un protagonista attivo nella macchina letteraria del Seicento, che fu promotore e parte integrante. Il suo atelier, oltre ad essere un luogo di produzione artistica era un centro di elaborazione e scambio culturale, dove i letterati trovavano ispirazione diretta dalle sue opere.
Qual è stata l’importanza di riunire le due versioni dell’Atalanta e Ippomene di Reni, provenienti dal Museo del Prado e dal Museo di Capodimonte, in un’unica esposizione?
La rassegna ha costituito un’occasione incredibile per il pubblico: le due versioni dell’Atalanta e Ippomene non venivano riunite in Italia da oltre cinquant’anni, ovvero dalla storica esposizione monografica su Guido Reni del 1988, curata da Andrea Emiliani presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna. Quella mostra, fondamentale per gli studi sul pittore, attraversò l’Atlantico e fu ospitata anche negli Stati Uniti, a Los Angeles e Fort Worth in Texas. La possibilità di rivedere insieme le opere ha aperto nuove prospettive di studio e il confronto diretto tra le due versioni ha permesso a me e Raffaella Morselli di approfondire gli aspetti cronologici e di contesto, per cercare di trovare un’unità di tempo, luogo e spazio per i due esemplari. Nonostante alcune differenze formali tra i due dipinti, le nostre ricerche suggeriscono che siano stati realizzati in un arco temporale molto ristretto, probabilmente tra il 1622 e il 1623.
Quali sono le principali differenze stilistiche tra le due versioni di Atalanta e Ippomene di Guido Reni?
Già Pepper si rese conto che la versione di Madrid, anche se da subito considerata autografa, era stata poi declassata a opera di bottega per via di una ridipintura successiva fino agli anni Settanta, quando la pulitura ha fatto emergere la qualità della pittura. Quel dipinto, recentemente restaurato e riportata ad uno stato smagliante, presenta delle aggiunte seicentesche successive alla morte di Guido: misura qualche centimetro in più di quella napoletana, a destra contiene altre due piccole figure che decorano il paesaggio sullo sfondo, mentre sul margine inferiore e di sinistra vi è una vera e propria aggiunta di tessuto, applicato con molta probabilità per allungare il terreno e il paesaggio così da dare più profondità e centralità alle due figure in primo piano. La versione napoletana è intrisa di un impasto cromatico e chiaroscurale molto più insistito rispetto al dipinto madrileno, che ha portato una parte della critica, capofila Cavalli e Gnudi nel 1954, a pensare che esso sia anteriore al dipinto spagnolo, più vicino ad anni romani, in cui Guido avrebbe riflettuto sugli originali caravaggeschi.
Come ha anticipato, è stata scoperta una terza versione dell’Atalanta che inizialmente era prevista per l’esposizione. Può dirci di più sulla scoperta? Come mai alla fine non è stata esposta?
La scoperta di una terza versione dell’Atalanta e Ippomene di Guido Reni solleva questioni di grande rilievo per gli studi sull’artista. Ritrovata di recente da Raffaella Morselli in una collezione privata, è stata fin da subito considerato un originale per la straordinaria qualità pittorica, ed è stato presentato per la prima volta nel 2023 durante il convegno di studi in occasione della grande mostra su Reni organizzata al Prado di Madrid da David Garcìa Cueto. Lo stato di conservazione è eccellente. Le lacche e le velature risultano integre e le dimensioni coincidono quasi esattamente con la versione napoletana. Si distingue invece dalle prime due versioni per l’assenza dei due gruppi di figure laterali, e le indagini diagnostiche hanno confermato che non furono mai realizzate, piuttosto che eliminate in una fase successiva. Le analisi hanno inoltre rivelato dettagli importanti sulla tecnica di esecuzione. Il supporto tessile è composto da due pezzi di tela cuciti verticalmente, con una giunzione che attraversa la coscia di Atalanta. Inoltre, sulla coscia destra di Ippomene emergono chiaramente segni di spolvero, che indicano l’uso di un cartone preparatorio o di una sagoma, forse impiegata anche per le altre versioni della serie. Per quel che riguarda la provenienza, si sa solo che il dipinto appartenne nel XIX secolo al marchese Capomazza di Napoli. Nel 1940, con lo scoppio della guerra, l’opera venne poi trasferita in un deposito di sicurezza organizzato dalla Soprintendenza di Napoli, come attestato da un cartellino apposto sul retro della tela. Questo ci conferma che il dipinto godeva già allora di un riconoscimento di notevole valore storico-artistico. La mostra di Bologna è stata concepita attorno al ritrovamento di questa terza versione, e la sua esposizione avrebbe rappresentato un momento centrale del percorso espositivo. Ma il tempestivo ritrovamento di una quarta versione, presso il museo di Libourne e attualmente in corso di restauro, ci ha spinto ad essere più prudenti. Aspettiamo l’occasione di avere tutte e quattro le opere davanti agli occhi per ragionare sulla complessità del sistema atelier di Guido Reni, un tema rimesso al centro del dibattito anche dall’ultima mostra allestita ad Orleans.
Essere una giovane studiosa di storia dell’arte in Italia oggi presenta confronti continui ma anche opportunità. Nel suo caso quali complicazioni ha incontrato, e incontra ancora oggi, nel suo percorso? Qual è il consiglio che sente di dare a chi vuole intraprendere la carriera di storica/o dell’arte?
Il primo problema di uno storico dell’arte è proprio la contestualizzazione della parola “giovane”, e riguarda la discrepanza tra l’età anagrafica e l’occupazione accademica. Spesso si è considerati giovani nonostante un lungo percorso di studi, prestigiosi titoli e un consistente numero di pubblicazioni, perché l’accesso a una posizione stabile all’interno dell’università avviene con notevole ritardo rispetto alla preparazione già acquisita, aumentando di fatto l’età anagrafica media del ricercatore. Al di là della tenacia indispensabile per affrontare un percorso governato da un precariato sempre crescente, nel mio caso le principali complicazioni riguardano l’equilibrio tra ricerca e maternità. In Italia siamo ancora lontano da un principio di equità su questo tema, e l’ho vissuto sulla mia pelle dopo la nascita del secondo figlio, quando ho dovuto scegliere di non usufruire dell’interruzione di carriera per maternità per non perdere alcune opportunità. Questo visualizza piuttosto bene il collo di bottiglia che si crea quando si cerca di conciliare ricerca scientifica e vita familiare, e l’impatto negativo che, paradossalmente, la maternità può avere sulla carriera di noi donne. Sappiamo che spesso, dopo la maternità, tante ricercatrici sono costrette a ridimensionare o, in molti casi, abbandonare, il percorso accademico. Aver scelto di affiancare, in questo percorso, colleghe che prima di me hanno abbattuto questo stereotipo, dà una sferzata di ottimismo e fiducia. Da qui ne deriva uno dei consigli per chi vuole intraprendere questo tipo di carriera, quello di non considerarsi una monade. Evitare di vedere la ricerca esclusivamente come esperienza personale, ma da integrare a relazioni sociali e capacità di gestirsi. Il lavoro di gruppo, con persone di diverse età, specializzazioni e percorsi, aiuta a sviluppare nuove idee e nuovi approcci, e a creare rapporti di fiducia duraturi. Un altro punto critico riguarda la produzione scientifica. Il sistema concorsuale italiano tende a privilegiare, grazie alle ultime riforme di legge, la quantità a discapito della qualità, favorendo quindi chi ha un numero maggiore di pubblicazioni piuttosto che chi ha prodotto ricerche più approfondite e innovative, anche se in numero minore. Gli esempi virtuosi di colleghe e colleghi più anziani comunicano l’idea che, per la crescita personale e per costruire un solido profilo scientifico, è essenziale trovare un equilibrio tra quantità e qualità: se la quantità resta un fattore determinante per avanzare nei concorsi accademici, la qualità definisce il valore di uno studioso. Alla fine, nella mostra di Bologna abbiamo scelto come criterio la seconda rispetto alla prima, con sole 30 opere: non una sfilata di quadri ma un intreccio metodologico che andava rimesso sul palcoscenico.
L'autrice di questo articolo: Noemi Capoccia
Originaria di Lecce, classe 1995, ha conseguito la laurea presso l'Accademia di Belle Arti di Carrara nel 2021. Le sue passioni sono l'arte antica e l'archeologia. Dal 2024 lavora in Finestre sull'Arte.