Daniele Bacci (Lucca, 1975) vive e lavora a Lucca. La sua ricerca artistica è incentrata da sempre sul paradosso di dispotismo e libertà, descrivendo una realtà illusoria, sempre uguale a se stessa, formata da rette che intrappolano il nostro sguardo, la nostra mente e la nostra esistenza. Tra le sue mostre personali si ricordano: È domenica e non ho niente da fare. Non ho neanche voglia di sognare, Piano Nobile, Pistoia (2024); Permutazioni - One After Another, Artcore, Bari (2016); Il suono della conchiglia, Gedok, Monaco di Baviera (2011); Daniele Bacci, T293, Napoli (2003). Il suo lavoro è stato esposto anche in numerose mostre collettive tra cui: La pittura geometrica contemporanea italiana, Spazio Bedeschi, Verona (2024); Sparta (Sulla pittura in Italia), Villa Gori di Stiava, Lucca (2023); La peinture, une bonne resolution, galleria Vis-à-vis, Metz (2022); Intérieur/Extérieur, puzzle>pzzl, Ville de Thionville (2020); Non ho fatto io la sedia il tavolo il foglio la penna con la quale io scrivo..., Museo d’Inverno, Siena (2019); Heavenly Creatures, Kunsthalle, Merano (2019); Ixion, MAC, Lissone (2018); Awakening Room, The Others, Torino (2018); Schwarz-weiss-grau, Kunstraum, Monaco di Baviera (2016); Ciò che l’apparire lascia trasparire, MAC, Lissone (2014); Niente da vedere tutto da vivere, Istituto del marmo, Biennale di scultura, Carrara (2010), Z4 marginal zone, Villa Ockenburgh, Den Haag (2008); Luogo/nonluogo=nuovo luogo, Fondazione Antonio Ratti, Como (2003). In questa conversazione con Gabriele Landi, Bacci ci parla della sua arte.
GL. Per la maggior parte degli artisti, l’infanzia rappresenta il periodo d’oro in cui iniziano a manifestarsi i primi sintomi di una certa propensione ad appartenere al mondo dell’arte. È stato così anche per te?
DB. Non ho avuto la folgorazione sulla via di Damasco per l’arte da bambino. L’unica cosa di artistico che ricordo dell’epoca era disegnare gli oggetti che inventavo e costruivo con le Lego. Mi aiutavo con le carte a quadretti per delineare i prospetti, le facciate degli oggetti affinché avessi un progetto per ricostruirli una volta distrutti. Non sapendo disegnare in assonometria e men che mai in prospettiva, all’età di otto/dieci anni riempivo fogli con queste immagini che poi tenevo chiusi in un cassetto. Forse per questo ho sempre avuto un amore viscerale per l’architettura e per il disegno geometrico. Mi sono avvicinato alla pittura rimanendone incantato all’età di vent’anni quando, nonostante fossi iscritto ad Facoltà di Architettura, trascorrevo le mie giornate principalmente all’Accademia di Belle Arti dove mi incontravo con alcune amiche ed ex compagne dell’Istituto d’Arte che vi erano iscritte. Ho iniziando così a frequentare la scuola del professore Gianfranco Notargiacomo e Stefano Rogai, rimanendo catturato da quell’aria che si respirava: un’aria anarchica. La porta di quell’aula era sempre aperta, si poteva entrare indisturbati, guardare e mettersi a chiacchierare tranquillamente. Quindi il mio amore per la pittura in senso stretto è nato fondamentalmente perché facevo forca ad Architettura. Questa scuola di pittura inoltre era frequentata tra l’altro da Sisley Xhafa, David Casini, Gianluca Malgeri, Silvia Papucci e successivamente è arrivato Michael Rotondi.
Anche tu, come tanti, hai avuto un primo amore artistico?
Ne ho avuti molti. Alcuni nel tempo li ho traditi e altri dopo momenti di oblio sono ritornati. Sicuramente Umberto Boccioni è stato insieme al Futurismo uno dei miei primi amori. Ho sempre saccheggiato molto, e molta della mia opera, se non tutta, ha richiami precisi ad una moltitudine di artisti, architetti, poeti e scrittori.
Quali studi hai fatto?
Ho fatto studi regolari. Ho frequentato l’indirizzo di Disegno di Architettura presso l’Istituto d’Arte “Passaglia” di Lucca ed è venuto abbastanza logico iscrivermi alla Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze. Poi, come ho raccontato prima, ho iniziato a frequentare e mi sono iscritto all’Accademia di Belle Arti di Firenze.
Ci sono stati incontri importanti durante gli anni della formazione?
Ci sono stati molti incontri in questi anni e tanti sono stati importanti. Uno in particolare che voglio ricordare è quello con Richard Nonas alla Fondazione Antonio Ratti di Como per il Corso Superiore di Arte Visiva. Era e rimane un artista ma prima di tutto una persona umana, sincera e autentica. Questa è stata la sua lezione. E senz’altro ha cambiato anche il modo di approcciarmi con lo spazio. Nonas rimase colpito da un mio video, Corner, nel quale una persona rimaneva seduta su una sedia con lo sguardo rivolto verso l’angolo della stanza. All’apparenza sembrava immobile ma soltanto ad una osservazione più attenta si poteva cogliere un movimento frenetico ed ossessivo delle sole gambe. Confrontandomi con lui e ragionando su spazio e luogo, argomenti del suo corso, feci un’azione dove rimanevo chiuso in un interstizio dell’abside della chiesa, le porte non potevano essere aperte perché risultavano legate mentre io cercavo di uscire verso altri spazi. Questa esperienza mi ha aiutato per prima cosa ad essere sincero nel relazionarmi con gli altri, a capire e a leggere lo spazio che mi circonda. Inoltre, la corda che chiudeva le ante della porta fu legata da Nonas per questo ancora oggi la conservo gelosamente in studio.
L’architettura, oltre ad essere una parte importante del tuo bagaglio formativo, come ha riverberato nel tuo lavoro?
Ho sempre amato l’architettura, per dirla con una frase di Gio Ponti. Quello che mi ha sempre incuriosito dell’architettura e anche dell’urbanistica è il senso di libertà che vorrebbero rappresentare e che cercano di distribuire, i vincoli e limitazioni che invece stabiliscono e organizzano. Le scuole, le università, le colonie, gli uffici, le fabbriche e le città sono plasmate per dare indipendenza ma finiscono per confinare ed isolare. Io non essendo un architetto ho cominciato a rubare quello che mi affascinava dei maestri: ritrarre le forme architettoniche che desideravo e che potessero aiutarmi a parlare, a dire quello che pensavo e le cose su cui riflettevo e ragionando sulle costrizioni che la società ci impone ho iniziato a raffigurare gli edifici scolastici. Le costruzioni rappresentate sono progettate o edificate negli anni Venti, Trenta e Quaranta del secolo scorso. Ho scelto le architetture del Razionalismo perché nate in un periodo caratterizzato da nazionalismi e da regimi totalitari che hanno cercato di plasmare un nuovo uomo. Ma la situazione odierna non è poi tanto diversa. Pier Paolo Pasolini, in una intervista del 1974, prendendo spunto dalla città di Sabaudia voluta dal regime fascista, diceva che a fare quella omologazione che non era al fascismo ci era invece riuscita la civiltà dei consumi. Ecco, io ho cercato di lavorare su queste parole, tenendole come faro.
Puoi parlare di questi lavori in modo più esteso?
Le architetture sono schede di catalogazione ma allo stesso tempo sono paesaggi completamente cancellati. Le architetture infatti sono immerse in un lattiginoso bianco di titanio. I dipinti sono molto essenziali e caratterizzati da variazioni cromatiche sulla gamma dei grigi che evidenziano le varie superfici delle forme architettoniche ritratte. I soggetti sono volumi architettonici prosciugati da ogni tipo di infrastruttura e si fanno forme minimali e pure. Queste forme architettoniche e rigorose si stagliano sulla tela ed assumono l’aspetto di oggetti estranei e minacciosi. Lo spazio interno è completamente chiuso e pronto ad esplodere accentuando in modo particolare la costrizione imposta e l’aspirazione alla libertà. Tutto il mio lavoro, non solo le architetture, parla della relazione tra la crescita e l’esistenza dell’individuo e la costrizione imposta dalla società. Nell’installazione Controlled revolution, un quadro che rappresentava la Torre Velasca era posizionato in alto sulla parete in modo tale da riprodurre l’effetto di soggezione e il punto di controllo che l’architettura esercita quotidianamente sulla città. Tutto questo era accentuato dal disegno di radici sulla parete e sul pavimento che prolungavano le nervature della struttura portante del grattacielo. Un disegno leggero che accerchiava e ingabbiava lo spettatore.
Il disegno ha una qualche importanza per te?
Il disegno è un mezzo che ho utilizzato e lo adopero ogni volta che ne ho bisogno; l’ho sempre amato pur non avendolo usato su larga scala. Per la serie delle architetture diventa elemento fondamentale per sviluppare il mio pensiero. Il disegno di piccoli arbusti tracciati direttamente a parete si contrappone alle pitture di architetture rigorose e monolitiche. Immagini di alberi che sembrano svettanti ma che lo sono soltanto grazie ad un bastone che li sostiene.
Che ruolo ha la luce nel tuo lavoro?
La luce è sicuramente fondamentale per i pittori quindi per la pittura e per i colori. Spesso utilizzo delle tinte acriliche metalliche che attraverso l’intervento della luce sfumano e cangiano, aggiungendo movimento alla rappresentazione. La luce dunque diventa parte integrante dell’opera.
La tua è una pittura molto rarefatta quasi fatta per sottrazione: puoi descrivere il tuo processo di lavoro?
Non so cosa tu intenda per rarefatta, forse che suggerisce un’impressione di immortalità e di raffinatezza? Forse l’assenza di pennellata? Alla fine il mio è un lavoro semplice. Applico il colore con il pennello ricercando un’apparente mancanza di manualità, sempre per specificare la mia ricerca. Ho sempre concepito la mia pittura come rigorosa e in un certo qual modo monastica. Pur usando i colori acrilici e vinilici la mia pittura ha un’esecuzione lenta, la stesura della tinta si protrae nel tempo insieme a pause e attese.
Che importanza hanno i colori per te e come procedi nella scelta degli accostamenti?
La scelta dei colori è importante, per non dire fondamentale: sono una riflessione sulla società, l’architettura e il paesaggio. I miei progetti sono una sintesi di questi temi e delle relazioni e degli impulsi che provengono dal contesto in cui vivo. Sono campionature delle mie passeggiate. Il lavoro di selezione inizia fuori dallo studio per poi continuare dentro. Seleziono le immagini che ho raccolto oppure mi aggrappo agli stimoli e ai miei ricordi, scelgo alcuni colori e poi con un’ulteriore cernita delle tonalità, inizio a dipingere.
Usi i colori così come li compri o li mescoli fra loro?
Il mio lavoro è razionale e razionalista ed utilizzo il colore in commercio direttamente dal barattolo o dal tubetto, senza effettuare mescolanze o velature. Ho sempre privilegiato i colori acrilici e vinilici per la loro facilità nella stesura e perché sostengono la ricerca che faccio.
Prima o poi o almeno credo tutti gli artisti fanno i conti con il nero... e tu?
In questi venticinque, trent’anni di pittura ho realizzato alcuni quadri neri. Non molti, quelli che servivano. L’ultimo realizzato Forse un mattino andando in un aria di vetro del 2023, che rappresenta un’astrazione di un volto, era il primo quadro che apriva il progetto della mia ultima mostra personale. Fa parte della serie Niente di speciale: è una tela dalle dimensioni contenute e completamente buia, sembra un monocromo ma al suo interno invece è suddivisa in quatto spazi triangolari che si notano soltanto dopo un’attenta osservazione. Quattro linee leggere in rilievo dovute all’aggrumarsi di pigmento.
La dimensione delle strisce che dipingi è sempre la stessa: da che cosa è determinata?
Come ho già detto il mio è un lavoro razionale. Ragionando sull’idea di omologazione, ho scelto di suddividere il dipinto con strisce larghe 5 centimetri così da ricoprire interamente la superficie del quadro. La scelta delle tele infatti è determinata solo dalle misure più semplici che si trovano in commercio. Io ho scelto alcuni formati sui quali il mio lavoro ha preso forma in maniera più organica. Questa regolarità, questa forma grafica è sempre stata presente nel mio operato. Ad esempio nella mia prima mostra personale tenuta presso la galleria T293 a Napoli, uno dei lavori esposti era la fotografia a tutta parete di una pioppeta, un bosco costruito dall’uomo per la produzione di legname: gli alberi sono equidistanti tra loro per ottimizzare e facilitare la crescita stessa di ogni singola pianta, alberi perfettamente verticali senza nessun tipo di imperfezione. Questa immagine non è differente dalle strisce che ho dipinto ieri.
Presti una attenzione particolare alla scelta delle dimensioni delle tele su cui dipingi? Sei interessato alla sezione aurea e a tutti gli aspetti che si porta dietro?
Le misure delle tele sono determinate soltanto da quelle che si trovano maggiormente in vendita. Tutte le serie eccetto quella delle architetture hanno una dimensione specifica. Amando tantissimo artisti come Judd, Baer, Truitt, McCracken, Carrino, Flavin, ho sempre inteso e preferito sviluppare il mio lavoro per moduli. Nella ripetizione ossessiva delle strutture riesco a trovare la mia libertà. La sezione aurea? Mi ha sempre affascinato ma non ne ho mai fatto un uso esplicito.
Quando devi fare una mostra come ti muovi? Che importanza ha la relazione che si viene a creare fra i vari lavori che decidi di esporre insieme?
Ho sempre inteso il mio lavoro come un’opera unica. Quindi tutti i lavori interagiscono e dialogano tra di loro per descrivere le mie osservazioni, i miei pensieri e le mie ossessioni. Considero le mie opere contemporanee nel senso che sono realizzate per me tutte nello steso momento. Per me non esistono i lavori precedenti e successivi anche se cronologicamente sono stati realizzati in anni molto distanti tra loro. Lo spazio della mostra è importante: quindi alcune opere sono più adatte rispetto ad altre.
Ti interessa l’idea di messa in scena del lavoro?
Se per messa in scena pensi a come voglio che vengano installate le mie opere, ti rispondo sì e no. In una delle ultime collettive alle quali ho partecipato sono stato contattato dal curatore perché durante il montaggio aveva notato una discrepanza tra le immagini spedite e la scheda di installazione. I quadri risultavano disposti in maniera differente. Ho spiegato che ho sempre immaginato i miei quadri liberi. Le bande colorate infatti non hanno una vera e propria direzione. Le fotografie delle opere sono soltanto una delle ipotesi di un probabile suggerimento di collocazione. È plausibile che alcuni lavori abbiano una predisposizione ad essere disposti in verticale piuttosto che in orizzontale ma la facoltà di collocare il dipinto in una maniera o in un’altra non è esclusa. Anzi è proprio a quello che aspiro!
Il titolo è come un colore in più, diceva Duchamp: è così anche per te?
Quando ho iniziato questo lavoro ho sempre immaginato per le mie opere dei titoli, ma li escludevo per il più abusato “senza titolo”. Credevo così di dare più fiducia ed efficacia alla rappresentazione pittorica sulla tela. I “senza titolo” acquistavano soltanto una dicitura dell’installazione o della mostra nella quale erano esposti. Ed è accaduto che le stesse opere incluse in mostre differenti abbiano cambiato titolo dopo il semplice “senza titolo,...”. Negli ultimi anni invece ho ragionato molto più spesso sui titoli delle mie opere. Anche perché non ho mai pensato alla mia opera come ad un lavoro freddo e calcolato ma bensì poetico. Per esempio nell’ultima mostra personale È domenica e non ho niente da fare. Non ho neanche voglia di sognare che ho tenuto a Pistoia da Piano Nobile, i titoli delle opere letti nell’ordine generavano una poesia, una passeggiata tra i quadri esposti dando vita ad un’unica installazione. Tutto il progetto porta a riflettere sul nostro vivere quotidiano.
Quando dipingi lavori ad un quadro alla volta o ne lavori più di uno simultaneamente?
Ho sempre lavorato contemporaneamente su più lavori e su serie differenti nello stesso momento. Come già sottolineato, infatti, ho sempre definito ogni mio lavoro come intercambiabile. Le serie sono tutte aperte anche se alcune possono rimanere in stand-by come sta accadendo alle architetture. Altre nel tempo si aggiungono ma rimangono fedeli al mio assunto.
Che importanza hanno le categorie di tempo e spazio in quello che fai?
Lo spazio per me è sempre stato un elemento di relazione tra individuo e architettura. Due categorie sempre più presenti in questi anni nel mio lavoro. Prima pensavo al tempo e allo spazio ma credo che non riuscisse a venire fuori come avrei voluto. Lo spartiacque è stato il 2020 per tutti gli eventi accaduti. Le opere, insieme ai titoli, hanno chiuso e contemporaneamente aperto il mio lavoro. Ho sempre amato leggere di tutto, sono un lettore ossessivo ed amo circondarmi di libri, sfogliarli, gustarli, rubare citazioni e frasi. Tutto questo ha contribuito a far sì che il mio lavoro prendesse più coscienza del tempo e dello spazio.
A tale proposito ti volevo chiedere di parlare dell’azione che fai quotidianamente su Facebook tutte le mattine sempre all’incirca alla stessa ora, ormai da diversi anni, pubblichi l’immagine di Bill Murray che si sveglia alle 6.00 tratta dal film Il Giorno della Marmotta.
Ricomincio da capo è una commedia che amo molto e Bill Murray lo trovo semplicemente fantastico. L’idea di routine difficile da spezzare, i ritmi quotidiani che si ripetono sempre identici a sé stessi fanno parte da sempre di quello che tento di verificare con l’arte ed in particolare con la pittura. La pubblicazione è iniziata il 3 febbraio 2021. Sono più di 1.400 pubblicazioni della stessa immagine. Che aumentano in modo esponenziale con il contributo di Facebook attraverso i ricordi. È un mio lavoro: sul tempo, sulla ripetitività, sull’essere obbligati a replicare giornalmente le stesse azioni, sulle costrizioni e obblighi che la società, il lavoro, il tempo libero ci impongono. Scontata è stata la scelta dei social, nati per dare la possibilità alle persone di rincontrarsi sono diventati un luogo virtuale dove le persone scaricano le proprie frustrazioni. Umberto Eco intervenendo su una discussione su i social-media affermava che “danno diritto di parola a legioni di imbecilli... che hanno lo stesso diritto di un premio Nobel”. Ed ecco che mi è venuto naturale non utilizzare questa piattaforma per scopi onanistici ma per mettere in risalto questa monotonia. Stessa idea che poi ritroviamo nella serie dei quadri I giorni del passato e gli altri che verranno: simili che si ripetono.
Parlami dei bordi dei tuoi quadri che contrariamente alla superficie dipinta spesso recano traccia del lavoro svolto, perché decidi di lasciarli così?
Ho sempre ragionato in termini politici ed anche la pittura per me lo è. È la ricerca della libertà, della propria individualità e togliersi il peso dell’omologazione. C’è un passo di una poesia di Eugenio Montale che dice “...cerca una maglia rotta nella rete...” . Ecco, con la mia arte cerco quel buco. Il lavoro sui bordi è fondamentale perché lì si mette in contraddizione la pelle rigorosa, incorrotta e determinata che è sul fronte. E in quello spazio laterale, il bordo appunto, dove il colore sfugge, si fa spreciso e gocciolante, la pennellata si fa sporca e scarica, ecco proprio lì, ho sempre pensato che ci fosse l’opera. Infatti credo che il mio lavoro abiti nelle imperfezioni e non sulla ricerca della irreprensibilità. Spesso ad un primo sguardo i quadri sembrano perfetti, e forse alcuni lo sono anche, ma osservandoli attentamente compaiono piccole imprecisioni, tele e telai non perfetti, perché la società è questa: una pellicola di perfezione che vuole coprire qualcosa che ineccepibile non è. È una pelle che cerca di soffocare le differenze. Ed il bordo quindi diventa fondamentale perché è lì che c’è la ricerca della propria libertà.
Che idea hai della bellezza?
Non trovo che la bellezza sia fondamentale per quello che faccio. Credo che siano più importanti le riflessioni e i ragionamenti che l’opera fa scaturire ed emergere in chi la osserva e la vive.
Qual è la tua posizione rispetto al tuo lavoro?
Non c’è una posizione. Non ho mai immaginato il mio lavoro diverso da me stesso.
L'autore di questo articolo: Gabriele Landi
Gabriele Landi (Schaerbeek, Belgio, 1971), è un artista che lavora da tempo su una raffinata ricerca che indaga le forme dell'astrazione geometrica, sempre però con richiami alla realtà che lo circonda. Si occupa inoltre di didattica dell'arte moderna e contemporanea. Ha creato un format, Parola d'Artista, attraverso il quale approfondisce, con interviste e focus, il lavoro di suoi colleghi artisti e di critici. Diplomato all'Accademia di Belle Arti di Milano, vive e lavora in provincia di La Spezia.