Il 14 luglio scorso è stato presentato a Roma, al Ministero della Cultura il rapporto Federculture 2022 (ne avevamo parlato qui), alla presenza della dirigenza di Federculture, del ministro della cultura Dario Franceschini e dell’assessore alla cultura di Roma Capitale Miguel Gotor. Un rapporto che, come osservato da diversi commentatori, ha il merito di non perdersi nella retorica e di dare una fotografia chiara, pur senza pessimismi, di un settore in difficoltà. E di proporre soluzioni. Come spiega Federculture, che è una Federazione di “aziende, società, enti la cui attività è rivolta alla promozione, produzione e gestione nel campo della cultura, turismo, servizi, sport e tempo libero”, il rapporto 2022 è dedicato in particolare al tema del lavoro culturale, “un tema che, anche a seguito della crisi conseguente alla pandemia da Covid-19, è emerso con sempre maggiore forza e oggi, in particolare, pone al centro del dibattito la questione della riconoscibilità del lavoro nel settore della cultura”. Si tratta di una particolarità rispetto ai rapporti recenti ma anche al dibattito culturale istituzionale. Per questo, abbiamo deciso di intervistare in particolare su questi temi Andrea Cancellato, presidente di Federculture con una lunga carriera nel settore. “Il risultato economico non potrà più conseguito a discapito dei lavoratori bensì come frutto della migliore organizzazione dei servizi” ci spiega, tra le altre cose.
LB. Partiamo da una summa del rapporto, che racconta una grossa difficoltà del settore. Cos’è accaduto dal 2020 in poi?
AC. I dati che abbiamo raccolto nel Rapporto di quest’anno evidenziano chiaramente come la pandemia e le relative chiusure e misure di contenimento delle attività e della socialità che ne sono derivate abbiano avuto degli impatti molto importanti. Il blocco del turismo da una parte e le restrizioni alla vita sociale per i cittadini dall’altra hanno determinato una profonda crisi per il settore culturale in tutti i suoi ambiti, dallo spettacolo, alle attività museali ed espositive. I numeri sono abbastanza espliciti, per citarne solo alcuni: Istat nel biennio 2019-2021 registra una drastica diminuzione della partecipazione culturale: i cittadini che hanno frequentato i cinema sono stati l’81% in meno, -85% per il teatro; nei musei il 72% in meno e -82% ai concerti. Certo nell’anno in corso si vedono dei chiari segnali di risalita con mostre, eventi, concerti che tornano ad essere affollati – basti pensare ad esempio al successo del Salone del Libro di Torino o ai grandi concerti estivi che stanno facendo il pienone – e questo fa ben sperare per una rapida ripresa. Ma l’impatto di questi due anni è stato “travolgente” e seppure gli interventi del governo a sostegno del settore sono stati tempestivi ed efficaci – dobbiamo riconoscere in questo senso l’impegno del Parlamento e del ministro Dario Franceschini – per risalire la china e tornare a crescere riteniamo servano ulteriori misure di lungo respiro, “strutturali” e riforme concrete.
Quali sono queste proposte, in breve?
Abbiamo per questo presentato al legislatore e al governo una serie di proposte. Tra queste la defiscalizzazione del consumo culturale, in analogia con le spese mediche e farmaceutiche, l’abbassamento e l’equiparazione dell’Iva per i prodotti della cultura; il ripristino della legge “2%” sulle opere pubbliche e sulle infrastrutture per favorire una grande stagione di committenza pubblica culturale e artistica; il rifinanziamento e potenziamento del Fondo per la Cultura, sia nella versione a favore delle opere pubbliche in campo culturale, sia come Fondo di Garanzia per gli investimenti e le iniziative di soggetti privati. Su questi temi si è da tempo avviata una positiva interlocuzione con i decisori politici, più di un ordine del giorno votato in parlamento ha impegnato le camere in questa direzione, ma la crisi di governo e la fine anticipata della legislatura impongono una battuta d’arresto pesantissima ad ogni processo avviato, producendo danni difficilmente riparabili.
Rispetto ai rapporti recenti, quello del 2022 dedica diverso spazio al lavoro dipendente, autonomo e precario: a cosa è dovuta questa scelta?
Federculture è prima di tutto un sindacato d’impresa. Rappresentiamo le molte aziende ed enti culturali che applicano il nostro contratto, quindi il tema del lavoro è centrale nella nostra attività. E anche sul lavoro culturale gli ultimi due anni hanno fatto emergere fragilità e criticità nuove e preesistenti la crisi attuale. I dati del Rapporto anche in questo caso parlano chiaro: nei due anni di pandemia l’occupazione culturale è diminuita del 6,7% e, negli ambiti più strettamente culturali, il calo arriva all’11%. È inoltre emersa con sempre maggiore forza ed è al centro del dibattito la questione della riconoscibilità del lavoro nel settore della cultura. Abbiamo quindi ritenuto che fosse giunto il momento di approfondire questo tema partendo dal delineare un quadro aggiornato dei diversi aspetti del lavoro culturale. I contributi che abbiamo raccolto nel volume, di tantissimi autori impegnati su questo “fronte”, ci raccontano da vari punti di vista i problemi, a volte i drammi, le opportunità e le occasioni che il lavoro culturale mette in gioco per il nostro Paese. Non è facile, anche in Italia ci sono diversi livelli entro i quali si svolge la produzione e la fruizione culturale: quelli delle strutture, pubbliche e private, garantite dentro il recinto dei contributi pubblici (quelle che nonostante la pandemia hanno chiuso il 2021 e, prima, il 2020 con bilanci in utile), quelli delle tante associazioni e strutture di base che hanno nel precariato il loro sistema di vita naturale, quelli del privato sociale e culturale che dentro la temperie della competizione interna e internazionale riescono comunque a produrre eventi e progetti culturali di grande impatto sociale ed economico e che non sempre godono di finanziamenti pubblici.
Recentemente, e nel rapporto, l’associazione ha indicato l’urgenza di applicare il contratto Federculture a tutti i lavoratori del settore, cosa che oggi accade in meno del 30% dei casi. Perché avete maturato la convinzione che questa sia la via da seguire?
Proprio l’osservazione di cosa si muove nel nostro settore e la raccolta di dati e testimonianze ci hanno evidenziato che oggi il lavoro culturale non è più e non solo meramente creativo e poetico, ma fortemente connesso con un professionismo reale, che produce “cose” che hanno un “mercato”, che concorre ai buoni esiti di progetti e iniziative, che partecipa all’insieme dei servizi di un paese consapevole che la cultura è fondamentale per la qualità della vita e delle comunità, e che, come avviene anche in altri ambiti dell’economia, pretende una corretta valutazione. Abbiamo davanti agli occhi un settore con grandi potenzialità ma un settore fragile, nel quale si riscontrano alti livelli di professionalità e qualità del lavoro accanto a endemica precarietà e frammentarietà delle tutele e delle modalità organizzative. Noi riteniamo che il contratto sia lo strumento principe per concordare insieme ai lavoratori il percorso comune che, partendo da responsabilità diverse, unisce tutti verso l’obiettivo di una più ampia e migliore fruizione della cultura in Italia. Accanto al contratto, il nostro impegno è quello di redigere e sottoscrivere entro breve tempo una sorta di Statuto dei Diritti dei Lavoratori della Cultura, uno strumento forse del secolo scorso ma utile a ricordare a tutti, noi per primi, di cosa e da chi è fatto il lavoro culturale.
Oggi contratti diversi, a partire dal Multiservizi, sono applicati in moltissimi siti statali, a partire dal Colosseo o Pompei. Come si è mostrato il Ministero nei confronti di una riorganizzazione in senso positivo dei contratti?
La disomogeneità contrattuale presente nei servizi in concessione in molti siti, non solo dello Stato, è uno degli aspetti che abbiamo rilevato e che innegabilmente caratterizza il settore. Credo che i contratti applicati dalle società concessionarie dei servizi culturali dovranno cambiare e adattarsi ad un nuovo e più completo strumento di relazione sindacale. Il risultato economico non potrà più conseguito a discapito dei lavoratori bensì come frutto della migliore organizzazione dei servizi. Anche a questo proposito le esperienze in campo internazionali saranno benvenute per completare il cammino verso il contratto unico della cultura.
Nel 2023 cadrà il trentesimo anniversario della legge Ronchey, che ha introdotto i servizi aggiuntivi di musei e biblioteche. Il prossimo rapporto Federculture sarà una sorta di bilancio di questi trent’anni di riforma. Quali sono le vostre valutazioni sull’impatto fino a qui della legge?
Non credo ci sia nessuno che voglia tornare indietro. È per tutti evidente che i cosiddetti servizi aggiuntivi sono indispensabili per completare una proposta culturale davvero inclusiva e completa. O vogliamo tornare a quando non si poteva bere un caffè al museo? Poi, non dappertutto c’è la medesima qualità, ma complessivamente si tratta di una riforma di assoluto rilievo, la cui portata in termini di innovazione nella gestione delle strutture culturali è indubbia. In ogni caso, faremo una valutazione collegiale della portata di questa legge e di eventuali proposte migliorative nella direzione di estendere la capacità di iniziative autonome da parte di musei e biblioteche.
L'autore di questo articolo: Leonardo Bison
Dottore di ricerca in archeologia all'Università di Bristol (Regno Unito), collabora con Il Fatto Quotidiano ed è attivista dell'associazione Mi Riconosci.