“Credo a una fotografia lenta, pensata, costruita e poetica”. Intervista a Mario Cresci


In occasione della mostra “Mon cher Abbé Bionaz! Mario Cresci un fotografo per la Valle d’Aosta”, Mario Cresci, uno dei maestri della fotografia italiana, si racconta a Ilaria Baratta in questa intervista. La mostra, le sue idee sulla sua fotografia, i suoi consigli ai giovani.

Fino al 18 giugno 2023 al Castello Gamba - Museo di Arte moderna e contemporanea della Valle d’Aosta è allestita su tre piani la mostra Mon cher Abbé Bionaz! Mario Cresci un fotografo per la Valle d’Aosta, curata da Luca Fiore e prodotta da Le Macchine Effimere. Un omaggio al territorio, alla storia e alla cultura soprattutto rurale valdostana attraverso i lavori di Mario Cresci (Chiavari, 1942), tra i maestri della fotografia italiana, che con la Valle d’Aosta ha intrattenuto nel corso della sua vita un profondo rapporto. Ci siamo fatti raccontare proprio da lui stesso non solo il percorso espositivo in corso al Castello Gamba, ma anche aspetti della sua produzione e del suo essere fotografo. L’intervista è di Ilaria Baratta.

Mario Cresci
Mario Cresci

IB. La Sua mostra al Castello Gamba ruota attorno alle sedici fotografie conservate nelle collezioni regionali che Lei ha realizzato nel 1990 per raccontare il mondo rurale valdostano. Può raccontarci quell’esperienza? Cosa raffigurano questi scatti?

MC. La mostra inizia proprio al piano terra con questi scatti del 1990. Mi trovavo per la prima volta in Valle d’Aosta su incarico della Regione per un reportage fotografico dedicato alle comunità rurali valdostane. Un tema a me caro perché arrivavo dalla Basilicata ed ero quindi abituato a occuparmi degli aspetti di tipo etno-antropologico e della cultura materiale contadina. Sono sedici scatti in bianco e nero realizzati in Valle d’Aosta, soprattutto nelle zone interne, nelle campagne e negli altipiani. La Valle d’Aosta è una regione ricchissima di prospettive straordinarie. Da un lato mi sono trovato bene con le persone, i contadini, gli artigiani, dall’altro lato il paesaggio era ovviamente diverso da quello della Basilicata. Una volta finito il mio lavoro attraverso quest’esperienza, ho lasciato poi le sedici fotografie nell’archivio della regione, poi diventate parte dell’archivio fotografico del Castello Gamba. Ora dopo tanti anni mi sono ritrovato a rivedere quelle fotografie.

Come prosegue il percorso espositivo?

La mostra è suddivisa in tre parti, sui tre piani del Castello Gamba. Al piano terra, come si è detto, sono esposte le fotografie del 1990. Il piano successivo è per me un momento innovativo perché nell’archivio fotografico del Castello Gamba mi sono trovato di fronte alle fotografie di un sacerdote fotografo, Émile Bionaz, che nei primi del Novecento è stato parroco per trentasette anni di un piccolo centro della Valle d’Aosta, Saint-Nicolas: lui fotografava le famiglie, i battesimi, i matrimoni, i bambini, le scuole, e soprattutto tutta la società rurale di quegli anni. Io ho elaborato in chiave digitale quelle foto e le ho reinterpretate senza alterare il senso originale dello scatto. Ne sono risultate venti stampe fotografiche, nuove. I soggetti sono quelli che lui aveva scelto: gruppi di famiglie, gruppi di contadini e anche situazioni legate all’attività agricola. Ho quindi interpretato questi scatti con una visione contemporanea. La domanda che mi sono fatto è stata: “Ma che senso ha rivedere delle vecchie foto per poi rifarle negli stessi luoghi? Lavoriamo anzi sulle immagini di chi ci ha preceduto e vediamo quali sono i punti d’incontro tra il mio sguardo e lo sguardo di Bionaz”. È quindi una specie di lavoro sul tempo: il suo tempo e il mio tempo. Potrei dire tra virgolette di aver lavorato insieme a lui, ed è stato molto gradevole, perché questo apre anche una riflessione sugli archivi fotografici in Italia. Abbiamo un patrimonio enorme che rimane lì, che spesso è abbandonato e che spesso ha bisogno di essere sistemato, studiato, in quanto memoria storica del nostro paese. Al piano ancora successivo sono state invece collocate sei grandi fotografie senza cornice, che sono le impronte grafiche lasciate dagli oggetti che ho incontrato nel Museo dell’artigianato valdostano di Fénis. Li ho fotografati e poi li ho trasferiti in elementi grafici come dei grandi poster, dove non ci sono più né i colori e né la materia, ma l’ombra. Come dei grandi loghi, proveniendo io dal mondo del design e della grafica, ho cercato di riattualizzare ancora di più il lavoro fotografico che avevo fatto dal 1990 ai giorni recenti, fino a realizzare queste sei proposte che intendono avere anche un valore educativo. La mia intenzione infatti, insieme a quella del curatore Luca Fiore, era quella di presentare un metodo di lavoro e di ricerca che può essere usato anche nelle scuole e da appassionati di fotografia e di grafica, attingendo alle memorie storiche della propria regione, dei propri musei, della propria terra.

Mario Cresci, Vetan, Saint-Pierre, 1990 © Archivio Mario Cresci
Mario Cresci, Vetan, Saint-Pierre, 1990 © Archivio Mario Cresci
Mario Cresci, Saint-Pierre, 1990 © Archivio Mario Cresci
Mario Cresci, Saint-Pierre, 1990 © Archivio Mario Cresci

Come menzionato precedentemente, nel corso della Sua produzione ha dato particolare rilievo al mondo rurale, alle tradizioni contadine. Perché questo interesse?

Il mio interesse è nato alla fine degli anni Sessanta, quando facevo parte di un gruppo di ricerca di cinque persone composto da architetti, da un sociologo, e io mi occupavo della fotografia. Da Venezia ci siamo trasferiti a Tricarico, in Basilicata, per il piano regolatore di questo paesino vicino a Matera di 6mila abitanti. Per la prima volta mi sono trovato catapultato da Venezia nel Sud, nel Mezzogiorno, e sono rimasto abbagliato da questa regione, probabilmente perché vengo da una famiglia contadina (mio nonno paterno era delle campagne liguri, mio nonno materno era un sardo, dell’entroterra della Sardegna). Quindi probabilmente per ragioni mie personali sono rimasto affascinato dal mondo rurale di questa terra. Dal 1967 fino a prima degli anni Ottanta ho vissuto a Matera, ho messo su famiglia, i miei due figli sono nati a Matera, lì mi sono integrato e ho svolto un’intensa attività nell’ambito non solo delle culture popolari ma anche degli enti pubblici e della città; ho lavorato nell’ambito della progettazione fotografica e grafica, aprendo anche uno studio. La questione della cultura popolare è antica, molto mediterranea e italiana, perché si collega a un’idea di integrazione delle attività dell’uomo con la natura, l’ambiente, la conoscenza del clima, la capacità di utilizzare i materiali; è un qualcosa che ha a che fare con la cultura dell’homo faber che ancora il contadino allora aveva. Mi sono appassionato a questo mondo come si era appassionato ad esempio Carlo Levi o Olivetti stesso. Inoltre il mio maestro, il sociologo Aldo Musacchio, era un meridionalista che insegnava sociologia al Corso di Design a Venezia dove io ero studente: è nata così la mia passione per il mondo rurale e soprattutto per le regioni del Mezzogiorno, per le problematiche politiche e sociali di una terra che non conoscevo. È stata una illuminazione spontanea che mi ha consentito poi di lavorare lì per molti anni.

E invece cosa La lega alla Valle d’Aosta? Cosa l’ha affascinata di questo territorio?

Avevo un amico, un grafico straordinario di Aosta, Franco Balan, che andavo a trovare spesso. Lui aveva lo studio vicino agli scavi romani nel centro storico di Aosta e aveva una casetta di campagna deliziosa lungo il fiume, prima di salire in città. Questa amicizia mi ha portato spesso in Valle d’Aosta, facevamo dei lunghi giri insieme in macchina ma anche a piedi, ed è stato proprio lui, anche se adesso purtroppo non c’è più, a farmi conoscere seppur in maniera abbastanza superficiale questa regione. Da quando poi lui è mancato, non ci sono più tornato per molti anni. La Valle d’Aosta era per me in quegli anni una regione anch’essa ricca di memoria storica. La manualità, il saper fare di questo popolo mi ha sempre affascinato anche in funzione di un insegnamento, che io cerco di trasmettere ancora ai miei ragazzi a Urbino (insegno fotografia e grafica all’ISIA). Siamo in un’epoca in cui il virtuale, l’intelligenza artificiale e tutte le nuove tecnologie ci portano a livelli di tecnologie avanzate e stiamo perdendo veramente la manualità della scrittura, del disegno; questo recupero di manualità e di storia del fare è importantissimo secondo me, perché significa coniugare il passato con il presente. Se non conosciamo il passato è inutile andare avanti col presente. Questa è la lezione che in Valle d’Aosta sembrava simile a quella di certe regioni del Mezzogiorno, come la Puglia, la Basilicata, la Campania, ma anche a quella di certe regioni del Nord, come la Carnia, l’Alto Adige. Il desiderio è che attraverso l’arte e la fotografia si possa ragionare ancora in termini del fare, in maniera però cosciente, non retorica; credo che sia utile ai giovani, alle nuove generazioni. A livello artistico mi piace l’idea che un autore si impegni anche a divulgare un messaggio di questo tipo attraverso il proprio lavoro. La Valle d’Aosta ha sempre fornito delle mostre molto interessanti anche sotto questo aspetto. Mi sono trovato sempre bene in questa regione, e mi piacerebbe continuare ad avere un rapporto coi musei e con gli archivi della Valle d’Aosta.

Mario Cresci, dalla serie Mon cher Abbé Bionaz!, 2023 © Archivio Mario Cresci
Mario Cresci, dalla serie Mon cher Abbé Bionaz!, 2023 © Archivio Mario Cresci
Mario Cresci, dalla serie Mon cher Abbé Bionaz!, 2023 © Archivio Mario Cresci
Mario Cresci, dalla serie Mon cher Abbé Bionaz!, 2023 © Archivio Mario Cresci
Mario Cresci, dalla serie Mon cher Abbé Bionaz!, 2023 © Archivio Mario Cresci
Mario Cresci, dalla serie Mon cher Abbé Bionaz!, 2023 © Archivio Mario Cresci
Mario Cresci, dalla serie Mon cher Abbé Bionaz!, 2023 © Archivio Mario Cresci
Mario Cresci, dalla serie Mon cher Abbé Bionaz!, 2023 © Archivio Mario Cresci

Lei che tipo di fotografo si definisce? È più istintivo o aspetta il momento giusto per scattare Oppure costruisce le Sue fotografie?

Non sono un fotoreporter, mi piace la fotografia d’istinto e quando mi capita la faccio volentieri anch’io, perché anche Cartier-Bresson teorizzava questa questione del momento magico, dell’attimo fuggente che viene colto dalla macchina fotografica, ma io credo molto di più a una fotografia lenta, pensata, costruita, nello stesso tempo poetica, non irrigidita dall’ottica della macchina fotografica e sempre motivata dal desiderio soggettivo di esprimere noi stessi attraverso l’immagine. È la realtà che noi vediamo che alteriamo. Non mi sento più di fotografare la realtà, ma di creare volta per volta dei paesaggi interiori, delle immagini che ho dentro di me e che vado continuamente a verificare con lo sguardo fuori da me. La fotografia per me è la congiunzione tra il proprio sentire e lo sguardo esterno. L’unione tra il vissuto, il vedere interno e il vedere esterno attraverso l’immagine fotografica crea immagini che sono interiorizzate, e se non lo sono significa che sono state fatte solo per il gusto estetico, e questo a me non interessa. Scoprire e fare ricerca: questo è il mio assunto, quello che ho sempre cercato di fare in tanti anni di lavoro.

Quanta sperimentazione c’è nei Suoi scatti?

Ogni volta che si fa una foto si sperimenta sempre. La curiosità porta alla sperimentazione. Più che di sperimentazione io preferirei però parlare di ricerca. Perché parlare di ricerca significa considerare la fotografia un lavoro come la vita stessa. Durante il giorno guardo le cose senza pensare al fatto che non ho la macchina fotografica con me, guardo, penso e poi se decido di fotografare lo faccio, altrimenti è sufficiente lo sguardo. Noi siamo come una macchina fotografica umana che interiorizza ciò che vediamo, però la fotografia aggiunge qualcosa di più. La fotografia è un medium che muta ancora continuamente a livello tecnologico; gli smartphone ormai stanno diventando delle piccole macchine fotografiche. Tutti ora possono fotografare e questo è molto bello, ma sarebbe opportuno che si cominciasse a studiare il linguaggio fotografico in modo più approfondito. Che si insegnasse a scuola ai bambini cosa voglia dire usare i mezzi audiovisivi per produrre e per creare immagini. Sarà comunque sempre più difficile nei prossimi anni denominare fotografia un qualcosa che già comincia a scricchiolare, perché già l’idea di matrice e di negativo non esiste più. È un file che può essere duplicato, mistificato. In questo senso possiamo lavorare dentro un nuovo linguaggio, un nuovo campo di ricerca che attiene agli artisti, ai comunicatori, ai giornalisti, a coloro che producono informazione, e soprattutto a livello creativo io vedrei sempre di più l’insegnamento di questo senso dell’arte contemporanea nelle scuole. Fare fotografia è una ricerca di senso del mio vivere, del mio vissuto, della mia quotidianità attraverso progetti che mi consentono di proporre delle narrazioni e dei racconti, come in queste fotografie della Valle d’Aosta che si relazionano con la Storia, con il passato e con il presente.

Per concludere, quali suggerimenti si sentirebbe di dare a un giovane fotografo?

Io ho frequentato una scuola molto buona di Design nei primi anni Sessanta e mi è servita molto. Per imparare a fotografare a un giovane fotografo direi di continuare a fotografare, ma senza pensare a farsi indottrinare da dogmi fotografici e di pensiero. Dovrebbe innanzitutto imparare a conoscere il linguaggio della fotografia, e poi il decidere a cosa dedicarsi nello specifico, ad esempio fotoreporter, fotografo di moda eccetera, verrà dopo. A livello formativo a me per esempio sono serviti di più testi di letteratura invece dei manuali di fotografia. Leggere Calvino o i grandi scrittori del Novecento che sapevano scrivere visualizzando i loro pensieri in maniera straordinaria creavano in me delle immagini. Il consiglio è di assorbire ciò che si vede a teatro, al cinema, ciò che si legge nei libri, sui giornali, e farlo diventare materiale di studio, di ricognizione, di verifica continua, sapendo riconoscere ciò che più ci interessa. Le scuole di fotografia sono utili solo a livello tecnico; se un giovane fotografo vuole imparare a fare l’autore che dà alla fotografia un significato più esteso, ad essere come uno scrittore, allora consiglierei di leggere e di vedere tanto, di studiare e di sentirsi impegnato nella società in cui vive e di non sentirsi mai l’ombelico del mondo. Lavorare quindi nel sociale con l’ambizione di fare ricerca, variare molto gli interessi e fotografare continuamente, ogni giorno, anche con lo smartphone, come prendere appunti, e poi disegnare ogni tanto, tenere un libretto in tasca per gli appunti. Usare il cellulare come una penna, mettere via le immagini e crearsi un proprio archivio, senza buttare via nulla, mettendo le date, i luoghi, e i riferimenti al proprio lavoro.


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Ilaria Baratta

L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta

Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.






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