Come saranno in futuro le mostre? Ancora grandi mostre blockbuster? Piccoli approfondimenti tematici? Quanto conterà l’immersività? Le mostre sapranno integrare il digitale, rispettare più punti di vista, tenere in considerazione le esigenze dell’ambiente? Di tutti questi argomenti abbiamo parlato con Bernadine Bröcker Wieder, co-fondatrice dell’azienda Vastari, con sede a Londra: Vastari è una piattaforma, operativa in tutto il mondo, che collega musei, produttori di mostre, sedi, collezionisti e fornitori per consentire agli organizzatori di mostre di lavorare in modo più efficiente. Di questo argomento, Bröcker Wieder ha parlato nel suo intervento A Bright, Hybrid Future for Exhibitions al convegno MUŻE.X - S - Shaping Museum futures, di cui Finestre sull’Arte è partner. L’intervista è a cura di Federico Giannini.
FG. La pandemia ha cambiato molto la situazione delle mostre: è diventato molto più difficile organizzarle, ma anche spostare il pubblico. Quali sono le modifiche più importanti che, a Suo avviso, questo ultimo anno e mezzo ha portato nel mondo delle mostre?
BW. Credo che l’ultimo anno abbia avuto un impatto molto forte sulle mostre, perché abbiamo cambiato il modo di guardare all’offerta digitale legata alle mostre. Già prima della pandemia abbiamo assistito a un aumento dei contenuti digitali negli spazi fisici (pensiamo per esempio alle mostre immersive su artisti come Van Gogh), ma durante la pandemia tutti gli spazi erano chiusi, quindi i musei hanno dovuto pensare alla loro offerta digitale quando le porte dell’istituto sono chiuse. Purtroppo però molti professionisti dei musei non hanno guardato al pubblico del digitale come a un pubblico molto rilevante: si sono limitati a guardare ai contenuti digitali come a uno strumento per portare persone nello spazio fisico. Al contrario, quello che ci ha sorpresi è il gran numero di pubblici interessati ai contenuti dei musei, in tutto il mondo, se questi contenuti sono disponibili online. E questo cambia le cose: il tuo sito smette di essere semplicemente un cartellone che indica dove si trova la mostra, ma diventa una mostra di per sé.
Abbiamo quindi assistito a un incremento delle pratiche digitali, però Lei sta dicendo che i musei hanno adoperato il digitale per lo più come un mezzo per portare i visitatori dentro al museo fisico. Allora vorrei sapere, intanto, quali sono i limiti di questo approccio, e poi in che modo e quanto conteranno le tecnologie nelle mostre del futuro.
Durante la pandemia sono nate nuove mostre e anche nuovi tipi di collaborazioni, che sono state peraltro continue fonti d’ispirazione. Abbiamo visto musei collaborare con aziende del comparto tech per attivare nuove esperienze, per esempio la National Gallery di Londra che ha collaborato con Moyosa, uno studio di realtà virtuale, per creare, appunto nella realtà virtuale, una mostra di gran qualità sulle opere preferite del direttore del museo. Abbiamo visto musei collaborare con le aziende della blockchain per creare NFT, abbiamo visto musei lavorare con organizzazioni come Google Arts & Culture per allestire mostre online che il pubblico ha potuto visitare, ma abbiamo visto anche istituti impegnati nello sviluppo di offerte digitali di dimensioni più ridotte. Per esempio ci sono stati musei che hanno proposto visite guidate su Zoom, usando tecnologie molto semplici col fine di condividere un po’ della conoscenza che è racchiusa tra le loro mura, e anche questo ha avuto un impatto notevole (ed è la dimostrazione che spesso non serve proporre contenuti ad altissimo tasso tecnologico). Penso che nel futuro andremo verso musei che avranno un’offerta digitale che accompagnerà quella fisica, ci sarà molto più dibattito su cosa mostrare, ci saranno anche mostre fisiche che in qualche modo includeranno delle porzioni di digitale. I musei che vorranno scegliere mostre di questo tipo saranno in grado di attirare più pubblici (del resto hanno già sperimentato i benefici del digitale), e in più, se la pandemia continuerà, per i musei sarà anche necessario avere un piano dell’offerta digitale. E poi la cosa buona delle mostre che includono un’offerta digitale sta nel fatto che si ha più flessibilità e si può lavorare in modo diverso.
Lasciamo da parte il mondo digitale per tornare in quello fisico e introdurre una discussione che in Italia è molto sentita. Prima della pandemia eravamo abituati a vedere spesso grandi mostre con decine, a volte centinaia di opere (parlo naturalmente di mostre d’arte). Con la pandemia la tendenza (che era già in atto) delle mostre focus di poche opere, spesso centrate sulle collezioni dei musei, si è ulteriormente diffusa. È questo il futuro delle mostre? Crede che ci sarà ancora spazio in futuro per grandi blockbuster o vedremo sempre più mostre piccole e mirate?
Il mondo dei musei d’arte ha diverse strategie che sta seguendo in questo momento in relazione ai loro programmi espositivi. I musei generalmente pensano che, sia che decidano di avere mostre grandi e su soggetti molto popolari, sia che decidano di concentrarsi su mostre specialistiche, l’enfasi sia sull’assicurarsi che il programma espositivo rimanga in linea con la mission dell’istituto, e che l’impegno sia riconosciuto in maniera adeguata. In gergo economico si parlerebbe di ROI (Return On Investments): nel caso dei musei non si tratta necessariamente di un ritorno in termini di denaro ma di ricerca, educazione, impatto sociale, e così via. Questo dovrebbe essere il principale ritorno per una mostra. In futuro ci sarà meno spazio per mostre fini a se stesse.
C’è anche un altro argomento importante da approfondire: in un Suo recente intervento Lei ha sottolineato la necessità di avere mostre più inclusive, perché spesso le mostre sono anche poco democratiche, secondo quanto ha detto. Qual è adesso la situazione in Europa? Come si può fare per avere mostre più inclusive?
Credo che molti siano arrivati alla conclusione che essere più inclusivi riguardi solo l’argomento della mostra, ma secondo me non si tratta solo del tema della mostra: si tratta anche dei punti di vista che vengono esposti nel corso della mostra. Per esempio, quando si cura una mostra, si può avere solo il punto di vista del curatore, oppure si possono invitare altri punti di vista, e si fa in modo che questi dialoghino con quello del curatore. Faccio un esempio su come ho notato questo aspetto in passato, e riguarda il concetto di “importare” ed “esportare” mostre. In molti musei europei, ci si aspetta che i musei dei paesi emergenti (per esempio quelli del Sudamerica o dell’Asia) importino le loro mostre e quindi spesso le mostre concepite in Europa vengono sviluppate per essere mandate in tour sui nuovi mercati. Ma, al contrario, i musei occidentali non mettono a disposizione risorse per importare a loro volta mostre nei loro spazi. E questo non è un do ut des, non è uno scambio equo. Se avessimo un approccio più equo, credo che i musei metterebbero a disposizione risorse sia per sviluppare mostre da esportare, sia per importarle. Sarebbe un modo anche più sostenibile per organizzare mostre. Se si importano mostre, si importano anche altri punti di vista.
Ha appena citato la parola “sostenibilità”, altro tema molto rilevante: chi organizza mostre si pone oggi il problema della sostenibilità, per esempio degli spostamenti di grandi masse di persone che si muovono per visitare mostre spesso lontane. Qual è secondo Lei l’approccio migliore?
I musei si stanno muovendo su approcci molto diversi al tema della sostenibilità, ma di base cercano sempre di assicurarsi che, nel caso in cui debbano intraprendere attività che hanno un impatto sull’ambiente, tutto ciò sia in linea con la mission dell’istituto. Quindi, ad esempio, le grandi mostre blockbuster dovrebbero essere giustificate non solo sulla base del grande pubblico che possono attirare, ma anche sulla base di altri tipi d’impatto che possono avere. Potrebbe essere dunque una strategia (cosa che sta già accadendo) organizzare mostre più piccole, come Lei diceva prima, che si concentrino su parti della collezione permanente, magari con pochi e mirati prestiti da altri istituti. Un’altra cosa che noto è che alcuni musei stanno allugando la durata delle mostre: se prima in media le mostre duravano tre mesi, si potrebbe estendere il termine fino a sei mesi, per esempio. Un’altra strategia è decidere di esporre una riproduzione digitale di un’opera quando l’originale non è necessario, e un’altra strategia ancora è prendere a prestito più opere da istituti locali, per accorciare le distanze sulle quali le opere viaggiano.
E per quanto riguarda il pubblico? Se i musei devono cambiare approcci e strategie, mi viene da pensare che anche il pubblico debba cambiare il suo modo di visitare i musei e le mostre. Dunque in che modo le mostre andranno a porsi nei confronti del pubblico in futuro?
Credo che nel caso del pubblico non sia cambiato alcunché... ma il cambiamento è necessario. I musei si stanno ancora rivolgendo agli stessi pubblici con le loro mostre, ma dovrebbero cominciare a pensare di rivolgersi a pubblici più locali e più giovani per quanto riguarda le mostre negli spazi fisici, e viceversa se hanno un’offerta digitale dovranno pensare a espandere il pubblico secondo un’ottica più internazionale. Ci sono ancora tanti cambiamenti, e molto motivanti, che si possono mettere in atto pensando al pubblico, ma che non sono ancora stati sperimentati.
Per concludere, Lei parla di un futuro “ibrido” per le mostre. Che cosa significa?
Digitale e fisico allo stesso tempo. In parti uguali, ma definite in modo chiaro.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).