Uliano Lucas (Milano, 1942) è uno dei protagonisti della fotografia sociale italiana ed europea, attivo da oltre sessant’anni in Italia e in tutto il mondo, con reportage che hanno documentato tutti i più grandi cambiamenti che il nostro paese, e tanti altri luoghi in giro per il globo, hanno conosciuto dagli anni Sessanta a oggi. Cosa vuol dire fare il fotoreporter? Come la fotografia ha contribuito a cambiare il mondo? C’è ancora spazio oggi per i reportage fotografici? Le risposte in questa intervista, originariamente uscita su Contatto Radio, in occasione della mostra Uliano Lucas. Altre voci, altri luoghi, visitabile fino al 5 maggio 2024 a Carrara, museo CARMI. Per l’occasione verrà stampato un catalogo della mostra con più di 140 fotografie e un’intervista inedita a Uliano Lucas. Il volume uscirà nella Serie Sguardi della collana “Verba manent. Racconti di vita e storia orale”, Edizioni ETS di Pisa, a cura di Archivi della Resistenza, in collaborazione con Tatiana Agliani e con uno scritto di Annalisa Vandelli. L’intervista è di Simone Lazzaroni.
SL: Rompiamo subito il ghiaccio: fotoreporter, fotografo, artista... ?
UL: Direi fotoreporter. Mi sono sempre sentito un fotoreporter, anche se il termine in Italia non è ben comprensibile. Ho lavorato all’interno del sistema della comunicazione, cioè dei giornali, per cui il fotografo è uno che fa still life, fa moda, fa altre cose, mentre l’artista è un’altra storia. I francesi hanno un termine straordinario, photographe de presse, ovvero “fotografo per la stampa”. Oggi invece non posso dirmi un fotoreporter, preferisco dire fotografo, nel senso che sono entrato in quell’età in cui non corro più...
Tra l’altro all’epoca Lei era fotoreporter freelance, quindi per quel periodo forse una cosa anche abbastanza inedita...
Eravamo in diversi, perché il giornalismo italiano permetteva questa figura del fotoreporter indipendente, cioè una persona che produceva le immagini, costruiva dei servizi, andava in determinati luoghi, paesi o nella cronaca, e poi c’erano allora molti rotocalchi, di varie tendenze culturali, politiche e altro, e vendevano il servizio. Devo dire che questo era anche possibile perché la maggioranza dei rotocalchi non aveva fotografi interni, per cui il sistema si appoggiava alle agenzie fotografiche e poi a queste figure di freelance. Noi abbiamo avuto degli straordinari fotoreporter freelance, gente che è entrata nella storia della fotografia europea e anche internazionale.
Qual è la differenza fra l’essere un fotoreporter freelance e un fotografo di redazione? Forse c’era anche la possibilità di essere molto più liberi?
Sì, io ho scelto di fare il fotoreporter freelance proprio per gestire la mia libertà e anche il mio tempo. E mi riflettevo in una serie di giornali politicamente e culturalmente, nel senso che ho fatto il reporter, ma non ho mai dato una mia fotografia a un giornale come Gente o Oggi. Cioè, ero dichiaratamente, e sono, un comunista libertario, e difendo questa mia posizione: significa e ha significato andare a fotografare o andare a fare dei reportage che io sceglievo, che decidevo, che costruivo, per cui è una storia diversa rispetto a quella di tanti altri e a quella di un giornalismo, quello dei rotocalchi, con tirature di milioni di copie (era come la televisione di oggi), con editori che erano dei codini, dei reazionari (l’Italia era molto arretrata): era un’editoria del potere, per cui la visione che davano attraverso le fotografie era una visione di un’Italia completamente falsa. Se uno va a sfogliare questi rotocalchi trova l’Italia delle maggiorate fisiche di Gina Lollobrigida, di Padre Pio, dei reali. L’immaginario era quello che poi la televisione di Berlusconi ha fatto suo. Un immaginario dalle conseguenze che poi abbiano sentito, perché non ci hanno informato di quale fosse il vero stato del nostro paese. Il problema era di fare allora una informazione o una controinformazione che raccontasse, o tentasse di raccontare, il mondo degli invisibili, il mondo della realtà, il mondo di quello che ci stava intorno.
È un mestiere che non c’è più?
No, non c’è più, a causa della trasformazione straordinaria dei sistemi della comunicazione, in cui noi Italia arriviamo in ritardo. Il digitale, che entra negli anni Novanta del secolo scorso, ci trova totalmente impreparati e ha spazzato via la carta stampata e tutto il sistema dell’informazione. Ormai la gestione della notizia è lasciata a cinque o sei agenzie internazionali che determinano il nostro punto di vista: il problema della comunicazione visiva, televisiva, scritta oggi è un problema di democrazia e noi siamo impreparati. Detto questo, poi ha spazzato via tutto questo nostro giornalismo, però non si è affrontato un problema di inventare altro. Per cui anche in questo fotograficamente siamo dipendenti all’80% di quello che viene acquistato da agenzie di stampa straniera.
Una rivoluzione digitale, quindi, con un’accezione forse non positiva?
No, a mio avviso è positiva. Il problema è che non siamo riusciti a gestirla. È uno sconquasso che però in alcuni paesi sono riusciti a gestire, mentre invece all’interno della comunicazione visiva italiana si nota una arretratezza dovuta al fatto che parte della comunicazione e, devo dire, anche del mondo dell’editoria, è sempre stata legata a un potere politico.
Andiamo agli inizi: come è arrivato alla fotografia? Come si è avvicinato alla fotografia?
La mia è la storia di un giovane che, per una serie di circostanze, entra in un mondo magico, meraviglioso, fiabesco, quello degli anni Sessanta all’ombra dell’Accademia di Belle Arti di Brera, che era allora un centro culturale notevole (vi erano appena usciti i pittori degli anni Quaranta e Cinquanta e tutte le avanguardie), e frequenta un una serie di piccoli locali, bar e latterie nel centro di Milano, in via Brera, tra cui una un bar che è diventato poi un mito, il Jamaica. Entrando in questo luogo, una grande stanza piastrellata, sentivo discorsi nuovi per me, cioè sentivo gente che discuteva del surrealismo, del dadaismo, del cinema, del neorealismo, del cinema americano, della musica leggera. Giovani, vecchi, anziani, personaggi con il basco che era il tipico copricapo del bohémien. Sono rimasto affascinato, avevo sedici anni, da questa questa continua discussione. Sono stato lì giorni e giorni e poi ho detto: “Questa è la mia università”. E poi è stata il mio ufficio, la mia casa, il mio lavoro, dove ho conosciuto personaggi veramente straordinari, generosi, incredibili come veramente generoso, incredibile è sempre il vero artista. Ogni giorno sentivo, facevo, apprendevo, cercavo di capire la musica, il teatro. Io sono cresciuto insieme con Piero Manzoni, con Castellani, con le avanguardie, con Arbasino, con Bianciardi. I nomi sono tanti, e tanti sono diventati poi degli amici che però mi mandavano anche a delle lezioni, mi mandavano a studiare all’Accademia Braidense, la mattina sfogliavamo i giornali, e all’interno di questa solidarietà, di queste discussioni, di queste conoscenze, il mio interesse verso il cinema e verso la fotografia è aumentato. Ma quando c’è stato il momento poi di scegliere cosa fare da grande ho capito che interessarmi di pittura o altro sarebbe stato una truffa. La scrittura non era adatta a me, ero più un lettore, ho capito che il cinema mi affascinava (andavo continuamente al cinema col mio amico Piero Manzoni) ma è un sistema industriale per il quale non ero in grado... ed ero un ragazzino anche molto ribelle e ho capito (e mi han fatto capire) che una macchina fotografica messa in mano a persone come me poteva essere un dialogo con me stesso. Ho capito così che c’era un piccolo spazio di cui poter approfittare e che le mie fotografie erano guardate già con interesse, così ho iniziato a far fotografie che erano delle impressioni di gente e di situazioni che stavano intorno a me.
Poi è arrivato il ‘68 e, anche se è banale chiederlo, c’è stata forse una svolta?
Il ‘68 mi sorprese, devo dire, già formato. Nel senso che negli anni precedenti ho frequentato questo mondo di artisti e mi davo da fare da freelance. L’antiautoritatismo del ‘68 mi trovò in un momento in cui avevo una buona formazione culturale e politica. Il nodo però è che il ‘68 aveva bisogno di fotografi nuovi, cioè qualsiasi rivoluzione ha bisogno di protagonisti nuovi nel senso di raccontatori: nella scrittura, nella fotografia, nel cinema c’era un nuovo linguaggio (Godard è l’esempio), e alla fine il problema non era di fotografare un momento dei giovani che stavano nell’assemblea universitaria e altro, ma era di raccontare questa esplosione che dal mondo operaio sindacale arrivava fino ai ragazzi delle scuole medie che prendevano coscienza. Per cui si trattava di un nuovo tipo di fotografia, un nuovo modo di ragionare, una geometria delle forme, entrar dentro con i sentimenti. E io e un paio di altri fotografi lo abbiamo fatto, lo abbiamo fatto sempre da freelance, da indipendenti e devo dire che siamo riusciti a raccontare comunque questo questo spirito rispetto alle foto delle agenzie che erano la banalità per vendere la foto.
Ho visto alcune foto che definirei molto intime, nelle case, anche durante la preparazione dei pranzi delle cene. In un’intervista lei raccontava che per ottenere questo risultato bisognava entrare prima in contatto con il soggetto, creare un rapporto. In molti casi si instaurava anche un’amicizia. Ed è una cosa che ha detto anche un altro suo collega, Tano D’Amico: questa relazione che si creava con i soggetti delle vostre foto.
Sì, perché era comunque fondamentale, nel senso che tu fotografavi un mondo invisibile che non era mai stato raccontato, o era stato raccontato dai neorealisti, ma in maniera molto banale, mentre invece là davanti avevi prima di tutto una persona con i suoi drammi, la sua esistenza (e spesso erano esistenze drammatiche), e poi era gente arrivata da tutta Italia perché c’era stato un miracolo economico: l’emigrazione aveva veramente colmato dei vuoti e delle storie, e l’emigrazione non è solo forza lavoro, ma anche nuove culture, nuovi cibi, nuovi sapori, nuove canzoni. C’era tutto un mondo che stava cambiando: dovevi raccontarlo. Raccontare il corteo che sfilava con le prime file era una cosa che poteva funzionare per il giornale del partito comunista o dei giornali della sinistra extraparlamentare: il problema era di capire chi stava lì dentro, nel corteo, e se tu, invece di stare davanti, entravi nel corteo, trovavi un mondo che ti coinvolgeva e ti affascinava, le donne che parlavano, quelle che fischiavano, quelle che gridavano, la gente che arrivava nel centro di Milano, di Torino, guardava questi palazzi settecenteschi e rimaneva sbalordita perché non erano mai arrivati nel centro delle città. Per dare un’idea, poi, il problema non era tanto capire all’interno delle fabbriche il loro mondo del lavoro, ma entrare dentro le loro case popolari, con tutta la drammaticità della loro esistenza e anche del loro salario. Era vederli uscire con le biciclette, poi a un certo punto con le vespe e poi con le Lambretta, sugli autobus, insomma entrare nella loro vita e diventare loro amico. Io son rimasto amico di tantissimi di loro, ancora adesso, perché ho scoperto un’umanità forte, che era solamente relegata in un ghetto che era il mondo del lavoro, il mondo operaio. Le foto che sono uscite e che vennero pubblicate da giornali come L’Espresso, L’Europeo, Tempo, cioè giornali importanti, consentivano finalmente a un lettore della borghesia di vedere un altro mondo che era anche una domenica in una casa operaia. Esistevano milioni di persone che avevano altri percorsi e che nessuno si era mai degnato di intervistare e di raccontare, o se lo avevano fatto, lo avevano fatto con gli occhi di una piccola borghesia che vedeva uno zoo.
Veniamo alla mostra: è stata organizzata in sette capitoli, sette argomenti, sette macro aree della sua produzione. La prima è Milano che cambia 1960-2018. Come è cambiata a Milano?
Beh, è cambiata, è cambiata totalmente. Nel senso che, come diceva Cesare Zavattini, tu ti accorgi che è una città che mangia se stessa, è cannibale, vuoi anche per gli alti costi del terreno e altro, ma comunque si modifica continuamente e completamente, per cui è una modificazione non solo urbanistica, ma anche della gente che ci sta dentro. Significa allora entrare nelle case, entrare nel cortile e capire che le case popolari hanno finito la loro funzione, ma sono state acquistate da dei proprietari per cui sono diventate altro, i ragazzi non corrono più nel cortile perché c’è un cartello che dice che è vietato giocare, la proprietà privata ha prevalso, non c’è più la solidarietà, ma soprattutto sono i tempi della città che sono cambiati. Una volta c’erano decine e decine di sirene che richiamavano i tre turni nelle fabbriche o nelle fabbrichette, ora no. Per cui i tempi di vita della città, il tempo in cui la città produce, lavora, si sono modificati, così come i rapporti. E allora cercare di capirlo è stato molto difficile, perché l’idea della città era quella della vecchia città operaia, Sesto San Giovanni, i miti delle lotte, c’era una città con dei giovani che ogni giorno si inventavano qualche cosa. E poi, più città e più situazioni: per cui questa immigrazione dal Meridione che citavo prima ha significato circa 3 milioni di persone che, nel giro di vent’anni, dal Sud arrivano al Nord e vanno in Europa, è una cifra che è incredibile, la grande storia del Meridione d’Italia di millenni viene bruciata in pochissimi anni. Però questi hanno portato altro. E poi sono arrivati i primi cittadini stranieri, per cui le fotografie che tu fai alla Stazione Centrale dell’arrivo degli emigranti e del famoso treno del Sud, come diceva il Ciampi, con le fotografie di queste donne vestite in nero, con le valigie di cartone e altro, a distanza di 15-20 anni sono diventate le fotografie di un mondo di magrebini che sono uguali, non c’è nessuna differenza. Il film Rocco e i suoi fratelli di Visconti oggi lo potreste rifare con “Ibrahim ai suoi fratelli”, per cui l’unica differenza è che gli altri prima avevano un passaporto italiano, mentre questi oggi non ce l’hanno. E tu fotografi proprio la trasformazione che parte dall’emigrante magrebino o egiziano che hai fotografato all’inizio e poi, nel corso degli anni, lo fotografi nella sua casa per la prima volta, fotografi la moglie che l’ha raggiunto, lui che lavora in una panetteria notturna, il benessere dei suoi bambini no. Fotografi tutto questo, poi ti sposti nella stessa casa popolare e vai a trovare il vecchio amico operaio che è ormai in pensione, entri e vedi questo pugliese dell’Alfa Romeo che ha lavorato tutta la vita e che ha ancora il ritrattino di Gramsci o di Stalin, poi apri una porta e invece trovi il grande manifesto di Di Bossi perché sei entrato nella stanza del figlio e vedi il cambiamento. Il cambiamento è questo, e solamente andando sul posto, raccontando, camminando, parlando o gestendo dei rapporti, riesci a capire questo mondo sommerso che esce allo scoperto. Il problema è che una volta avevi i grandi giornali che ti pubblicavano per cui il lavoro usciva. Oggi puoi farlo, ma poi ti rimane nel cassetto.
La seconda sezione della mostra s’intitola Sognatori e ribelli 1960-1976.
Questo è il capitolo che racconta l’antiautoritarismo del ’68, per arrivare agli anni in cui questa spinta finisce e si entra un’altra storia del paese. Ed è proprio la grande utopia (che era anche la mia), perché non eri cittadino solo di questo paese: ti consideravi cittadino del mondo, cioè l’antiautoritarismo era a Varsavia come in Giappone, era contro la guerra del Vietnam com’era contro l’imperialismo degli inglesi... Era una storia internazionale. Era il giovane che voleva entrare in un’altra storia. In Italia è stato più accentuato, perché, essendo un paese arretrato nel sistema capitalistico e nella produzione, tutti i problemi che prima erano sotto il tappeto (problemi di democrazia, problemi dei diritti, problemi di un paese patriarcale, un paese bigotto, un paese codino), ti esplodono, per cui ecco il divorzio, ecco l’ operaio in fabbrica e i suoi diritti, ecco i giovani contro i baroni, ecco il femminismo. Un’Italia che si sveglia e impone una svolta, rappresentata dai diritti civili, dalla smilitarizzazione della polizia, dall’abolizione del servizio militare, dalla fine dei manicomi. Ho potuto vedere, negli anni Settanta, i ragazzi delle scuole medie che scendevano in piazza, le persone che iniziavano a capire i diritti, e andavano a manifestare, le donne in pelliccia che davanti al palazzo al municipio di Milano, gridavano che volevano gli asili nido, ed erano donne della grande borghesia, della media borghesia, del sottoproletariato. Ormai chi è che oggi va sotto il municipio a dire “Scusate, vogliamo l’asilo”? Ci vuole una coscienza civile altissima. Poi tutto questo è sfociato in un’altra storia che è stata il terrorismo, che io non ho fotografato e mi sono rifiutato di fotografare.
La terza sezione è Lavoro e lavori.
La difficoltà di un reporter indipendente è quella di entrare nelle fabbriche ma anche negli uffici degli avvocati, a fotografare, a raccontare: nessuno entrava, non fregava niente a nessuno di questi 10 milioni di persone che lavoravano. Allora ho capito che raccontare quei luoghi, dove c’era una forte socializzazione, la sindacalizzazione, ed insieme le speranze, era fondamentale anche per lo storico del futuro, cioè avere del materiale, sapere cos’è una fabbrica come quelle delle grandi aziende come l’Alfa Romeo o la Fiat, con 10-15.000 persone che ci lavoravano, erano delle città con dei ritmi non indifferenti, dove c’era sofferenza, sapere com’era vivere lì per un meridionale appena arrivato e ancora cotto dal Sud nel suo volto. Non è che puoi limitarti a fare una foto alla catena di montaggio per capire i ritmi, i tempi. No, ottenevi i permessi per entrare (anche se soltanto in alcuni padiglioni, e non in altri) e stavi lì giorni e giorni e riuscivi a raccontare o tentavi di raccontare, anche con qualche difficoltà a pubblicare, perché il proprietario aveva il mito della fabbrica come di un luogo pulitissimo, mentre il mito della sinistra era l’esatto contrario. Eppure c’erano delle vie di mezzo: era la gente che poi, finito il turno di lavoro, prendeva l’autobus e andava alla periferia di Torino o alla periferia di Milano e arrivava a casa stanca con i suoi problemi. Per capire questo modo dovevi impadronirtene, e significava anche andare da urbanisti, da sociologi, fotografare un quartiere. Non è che basta passeggiare in un quartiere: hai bisogno di gente che ti indichi e ti spieghi, per cui vai dal prete, dal sindacalista, dall’assistente sociale che è fondamentale in questi tipi di reportage, perché sa dov’è la miseria, dov’è la povertà, dove sono gli anziani, ha tante informazioni per un reportage che poi tu costruisci secondo la tua abilità e la tua sensibilità, però sempre pensando che non è che fai delle fotografie per la storia o per il futuro, fai delle fotografie per l’oggi. Con la fotografia tu riconsegni la vita agli sguardi degli altri. E per questo la fotografia è straordinaria, una cosa meravigliosa.
La quarta sezione della mostra ha un titolo molto forte: Istituzioni totali.
In quel periodo le istituzioni del nostro paese erano un po’ reazionarie. Erano centri di potere anche violenti: penso per esempio agli ospedali psichiatrici, alla storia basagliana, a questi scienziati, medici, psichiatri che hanno fatto una lotta con testi eccezionali. E non era un problema solo italiano, perché la lotta psichiatrica è stata europea, altri psichiatri famosissimi come Cooper hanno tentato di fare la stessa operazione di Basaglia. C’erano più di 100.000 persone recluse, senza diritti, all’interno di questi ospedali, erano lì come in punizione, era la zavorra della società. Per cui entravi in luoghi chiusi, inaccessibili. Per quei pochi fotografi che sono riusciti a entrare lì (penso a fotografi come Carla Cerati o Luciano D’Alessandro) dev’essere stato straziante: era mai possibile qualcosa di simile a una disumanizzazione di quel tipo? E allora ecco una lotta civile, una lotta civile che ha avuto poi una fotografia che ha permesso ai giornale della borghesia progressista illuminata, a chi apriva l’Espresso, di provare vergogna. Così iniziò appoggiare il movimento basagliano, che è stato una lotta non solo per chiudere i manicomi (questo è anche l’indirizzo della Organizzazione mondiale della sanità chiudere i manicomi, anche oggi, perché in altri paesi i manicomi ancora sono usati come arma politica, per esempio in Russia o in certi paesi africani), ma ha rappresentato il momento di cambiare, di cambiare. E non è stata una lotta di un giorno, è stata una lotta contro un’istituzione che è durata una decina di anni. Il problema è che io poi non mi sono fermato. Quando si è iniziato a chiudere i manicomi ho cercato di capire dove finissero i degenti, gli utenti, ho cercato di capire le cooperative che nascevano, i nuovi problemi della malattia mentale. Un’altra istituzione è stata quella militare: l’istituzione militare per la vecchia generazione significava 14 mesi o 12 mesi di servizio militare inutile. Tu eri alla mercé di ignoranti marescialli o di ufficiali ottusi e facevi la guardia a un bidone, non avevi altro. Si è discusso su questo e allora ho seguito lungamente l’istituzione militare e anche la retorica dell’istruzione militare, cioè gli ex soldati, le associazione d’armi e altro. E perché? Perché dovevi raccontarlo, e non solo con le fotografie sui giornali o sui libri, ma le fotografie anche come mostre, le mostre che diventavano dibattito. La straordinarietà della fotografia è che tutti attraverso la fotografia si rendono conto del luogo. Detto questo, poi, la tua fotografia può avere tanti percorsi. Io ho sempre pensato che questi reportage potevano avere un percorso di un libro, così che il libro diventa dibattito, il dibattito diventa discussione, la discussione si amplia e migliaia di persone prendono atto che esiste questo oltre al giornale, oltre alla solita foto. Io trovo che sia vergognosa la condizione odierna delle carceri italiane e trovo vergognoso che nessuno si indigni. Il carcere deve essere un luogo dove uno entra per fermarsi un momento dalla disperazione e dalla vita, riprendere fiato, e poi uscirne. Mi sembra la cosa più semplice, mentre invece spesso entra in carcere e le condizioni sono tali che esce e vai ancora a delinquere.
Veniamo alla quinta sezione, Libertade. Qua siamo in una parte importante della sua produzione, con le fotografie della Guinea, dell’Angola, del Portogallo con la rivoluzione dei garofani.
Il ‘68 e queste vicende mi portarono a girare in molte parti del mondo dove accadevano fatti e circostanze che mi incuriosivano, perché la prima caratteristica di un reporter freelance è la curiosità: cercare di capire, andare per cercare di capire cosa (anche se comunque sono andato in tanti posti dove non ho capito nulla). Allora si parlava del terzo mondo: c’erano, certo, l’Unione Sovietica e i paesi dell’Est, esisteva l’America del capitalismo, ma esisteva anche l’imperialismo, e l’Europa è stata una serie di nazioni imperialiste. Collaboravo con un giornale a Parigi che si chiama Jeune Afrique, che raccontava le storie del terzo mondo, fatto da straordinari giornalisti, bravissimi, in lingua francese, e che aveva in redazione un paio di italiani, fra cui Bruno Crimi. Questo ha significato che abbiamo iniziato a ragionare di andare a raccontare storie africane, con continui viaggi in un’Algeria rivoluzionaria, nei paesi del Maghreb, in altre parti dell’Africa. E lì io fotografo andavo a raccontare la loro storia perché nessuno ne parlava. E allora ecco i viaggi non per fotografare la guerra, ma per raccontare come cosa accadeva in una piccola nazione dove c’era ancora un regime fascista, cioè il Portogallo, una nazione colonialista, che aveva dei possedimenti vastissimi e che sfruttava da tanti decenni, secoli, che erano l’Angola, il Mozambico, la Guinea, Sao Tomé. E allora ho fotografato per un lungo periodo e ho cercato di raccontare la nascita di una democrazia africana all’interno di una guerra di liberazione con i soldati, con i partigiani, con la gente, con i campi collettivi, con le donne, con l’insegnamento scolastico. E quando queste fotografie poi sono arrivate sul tavolo di molte redazioni è stata una sorpresa, ma soprattutto è stato un contributo alla loro lotta di liberazione. Perché quando i giornali americani hanno iniziato a pubblicare queste fotografie, beh, sono cambiate molte cose, dallo sguardo nei confronti del Portogallo alla solidarietà. E poi ne ho fatto un libro che è stato molto importante per loro perché era il primo libro che raccontava della Guinea, raccontava la loro storia, un libro che andò alle Nazioni Unite. E quando vedi che la fotografia, con un libro di Bruno Crimi e Uliano Lucas, arriva a una commissione dell’Onu e questa commissione dell’Onu stabilisce che la Guinea per tre quarti è libera, e lo fa attraverso un libro, allora ti domandi perché gli altri non sono adatti a raccontare queste cose. Vale anche per l’Angola, dove una donna straordinaria, Augusta Conchiglia, andò a fare anche un reportage, perché in Italia c’era un notevole movimento di solidarietà nei confronti di questi paesi e dei loro leader. In Portogallo sono andato diverse volte, clandestinamente, per raccontare un paese che allora era di 10 milioni di persone, povero, di emigranti, perché non c’erano fotografie del vero Portogallo. Lo ho raccontato nel momento in cui i capitani hanno preso il potere con un colpo Stato e hanno liberato il Portogallo da una dittatura feroce, ho raccontato la fine di una guerra per la libertà. E poi i capitani che hanno riconsegnato il potere al popolo dopo una vita. Dopo secoli. In questo momento per il Portogallo siamo al cinquantesimo anniversario e le mie fotografie che raccontano tutto questo sono esposte in alcune mostre: ce n’è stata una al Museo di Lisbona, e adesso sta girando per le città portoghesi un’altra grande mostra che a maggio andrà in Brasile, e girerà un po’ il Brasile. Dunque le fotografie di un reportage di un autore italiano, allora felice sconosciuto, sono diventate il materiale che per i portoghesi è fondamentale, perché non c’è altro che racconta la loro storia. E questa è anche una cosa che si intreccia con tante altre storie, per cui questa è l’unica documentazione che c’è anche anche per questi paesi, che magari saranno anche finiti male, ma con la guerra di liberazione sono diventati liberi.
La sesta sezione della mostra si intitola Guerra o pace.
Sono stato in vari teatri di guerra ma non sono un fotografo di guerra, me ne sono ben guardato, io fotografo la pace, non la guerra. Esistono dei fotografi di guerra o esistono dei fotografi che vanno in un luogo e dopo una settimana tornano, ma il problema è che tanti fotografi di questo tipo di fotografia vanno in determinati luoghi, rischiando anche, ma per vendere delle fotografie, perché alla fine la grande editoria vuole, come al solito, le foto con i bambini che stanno morendo. E tu fotografi i bambini che sta morendo, poi te ne fotti perché tu alla fine hai un biglietto aereo per tornare a casa ma i bambini rimangono lì, i vecchi rimangono lì, e le storie delle guerre intorno a noi son tutte fotografia inventata, costruita, ma costruita perché il mercato vuole quello, vuole i vecchi, i bambini, la fuga, le carrette che vanno. Tutta la disperazione, tutto per dare uno sguardo come in televisione, una costruzione. Ma la guerra è sangue: se tu entri in una casa dove è arrivata una granata non trovi più nulla, cioè trovi la morte, invece nella fotografia di guerra la morte non c’è mai. Anche perché se tu fotografo fai foto di questo tipo, oggi nessuno te le pubblica. E allora ecco l’esperienza fondamentale come quella dei lunghi mesi passati a Sarajevo e in altre parti della Jugoslavia, in quello che è stato un assedio di una città medievale, tre anni di assedio nella nostra civile o presunta civile Europa, dove il racconto è stato di vivere la quotidianità con la gente di Sarajevo, e questa quotidianità mi ha permesso di fare delle fotografie di controtendenza. La gente viveva con una grande dignità. C’era persino nelle cantine una specie di teatrino dove io le ho conosciuto Susan Sontag, per dare un’idea. C’era un’attività. Le donne e le insegnanti andavano la mattina a scuola con uno stipendio di fame. Erano fotografie che nessun giornale voleva. Perché il meccanismo era che tutti volevano sangue. Ma tu dovevi raccontare un assedio della gente che comunque viveva, resisteva e con grande dignità. Io ho fatto questo ed è uscito il reportage, con molti racconti. Dipanare tutte queste storie attraverso la fotografia è molto difficile, per cui la maggior parte dei fotografi, torno a ripetere, fa quello che poi può vendere, per cui che cosa può vendere in un certo momento al giornalismo internazionale? Il bambino che piange, il bambino che soffre, la donna che piange, la fuga. Ma non è questa la storia. Pertanto anche la figura del fotoreporter ormai è in disarmo, e questo significa che va in pensione e chiude, perché altri con le tecnologie moderne possono fare delle fotografie.
L’ultima sezione della mostra si intitola La condizione umana 1968-2021.
È una sezione che raccoglie più cose. Ho iniziato a collaborare giovanissimo a un giornale che si chiamava Il mondo: è stato un giornale molto importante perché era un settimanale liberal-progressista, gestito da intellettuali finissimi e che ha iniziato a usare la fotografia in maniera straordinaria. Molto letto: da lì hanno iniziato a firmare quelli che poi sono diventati scrittori, pittori e anche altri protagonisti della scena culturale di questi ultimi cinquant’anni. Lì pubblicai le mie prime fotografie. Ed erano fotografie che io scattavo per la strada, e scattare per la strada è straordinario: tu arrivi e giri una giornata per la strada, in centro, in periferia, dove vuoi, e cerchi di raccontare quello che succede, i bambini che corrono, i bambini che giocano, la gente che si bacia sotto una statua, un’insegna, un prete che sta passando tutto quello che può raccontare la vita di una città provinciale. Però devi essere lì dentro camminando, il tuo occhio deve osservare e devi far vedere. La fotografia di strada mi ha insegnato l’amore. Osservare, guardare l’amore. Questo è il dato. Questo amore che ci circonda, non la frenesia o altro. E allora tu a passi lenti entri e ti inventi una storia, che può durare un secondo o dieci minuti, un quarto d’ora, però una fotografia può durare decenni. Per dare un’idea, c’è un centro di accoglienza vicino Torino, gestito da Croce Rossa. Io sono andato, ho deciso di fare un lungo reportage, un luogo che raccoglie e raccoglieva nel 2019 un migliaio di profughi politici, soprattutto gente che aveva subito persecuzioni per le proprie idee o la loro condizione. Era gestito in maniera meravigliosa. Le donne violentate avevano un’assistenza psichiatrica, psicologica e ginecologica, insomma un luogo meraviglioso. Io mi sono domandato perché questo funziona e dall’altra parte, invece siamo sempre le baruff e c’è qualcosa che non funziona. Con la fotografia abbiamo raccontato questo luogo e ne ho fatto un libro con una grande mostra che fu presentata al Museo del Cinema di Torino. All’interno di questo libro c’è una fotografia di una ragazza, non avrà avuto più di 16 anni, che ti sta guardando mentre dà da mangiare al suo bambino. Questa foto significa la pace dopo le brutture di una guerra. Ma la guerra non è il combattimento: la guerra è questa ragazza che è stata picchiata, seviziata, violentata. È la guerra di quelli che non possono difendersi e allora tu ridai loro la vita, quel tempo necessario, che può durare anche anni, affinché si riprendano e ritornino all’interno di una società. Questa è la pace. La pace è cercare attraverso le fotografie questa gente senza esibizionismo, senza patetismo, senza un senso della bontà... la normalità. L’avvenire del mondo, il futuro del mondo è nel dialogo. Questa è la mia visione. Non c’è altro.