Un mercato dell’arte che guarda più al contenuto e meno le apparenze, molto più preparato e attento alla qualità. Questo il maggior cambiamento che i galleristi Massimiliano Caretto e Francesco Occhinegro, titolari della galleria Caretto&Occhinegro, specialista di arte fiamminga antica, hanno riscontrato negli ultimi anni. Quest’anno la galleria dei due giovani antiquari torinesi compie dieci anni di attività: è l’occasione per fare con loro il punto sul mercato, sulle sue trasformazioni, sulle difficoltà che incontra in Italia, sulle leggi che lo regolano. Ecco cosa ci hanno detto, a margine della Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze che si conclude il 6 ottobre.
FG. Intanto, la domanda è d’obbligo: come sta andando, in generale, questa Biennale dell’Antiquariato?
MC. Sta andando bene. Io penso che siano tutti più o meno soddisfatti. Forse c’era molta agitazione all’inizio perché il periodo è quello che conosciamo, quindi molti avevano paura ma, da quello che stiamo vedendo, delle vendite le hanno portati a casa tutti, ovviamente chi più e chi meno. Quindi secondo me, per questa edizione, c’è più che una promozione.
FO. Qualcuno ha dichiarato quasi il cento per cento di vendite... !
MC. Sì, qualcuno ha venduto tantissimo. Ma ad ogni modo qualcosa a casa l’hanno portato tutti, quindi alla fine l’operazione è riuscita.
FG. A cosa alludete quando dite che il periodo è... quello che conosciamo?
MC. Al fatto che ormai viviamo in uno stato di crisi permanente, perché è da almeno una quindicina d’anni che c’è sempre qualcosa, qualche problema, qualche terremoto del mercato. Quindi, in verità, forse oggi ha poco senso dire “questa volta c’è questo problema, questa volta ce n’è un altro”... perché il mondo è cambiato. Dal punto di vista macrostorico viviamo un periodo di instabilità, e chiaramente, per tutto quello che riguarda il commercio (e la BIAF comunque è una fiera commerciale), questo crea sempre un certo stato d’incertezza. Adesso per esempio abbiamo le elezioni americane a breve, e stiamo vedendo quello che sta succedendo in Israele. Ora, senza voler entrare nella geopolitica, sono comunque situazioni che in generale (e quindi non solo per le fiere d’arte antica) pesano sul mondo del commercio.
FO. Queste crisi producono poi degli effetti ambigui. Voglio dire che determinano da un lato un atteggiamento un po’ più prudente rispetto all’acquisto, ma dall’altro lato vediamo anche che le opere meno significative stanno sparendo dal mercato e attirano sempre di meno il compratore, che invece cerca un rifugio (anche morale) negli Old Masters, perché si prestano tendenzialmente di più a questo scopo. E comunque oggi l’acquirente è alla ricerca di opere non più decorative, ma che possano essere pregne di senso. Poi a ognuno il suo, ognuno cerca senso in quello che vuole, ma questa è oggi la ricerca che anima il mercato.
MC. Da noi sono venuti anche tanti habitué dell’arte contemporanea che ci hanno proprio detto: “Il momento storico sta cambiando”. Credo che i collezionisti non abbiano più voglia di vedere un contesto che era diventato un po’ barzellettistico, non c’è più voglia di vedere una sorta di circo delle fiere, per cui la gente sta cercando cose un po’ diverse, esperienze anche diverse, vive la fiera come un’esperienza più culturale, più di contenuto, e meno di apparenza.
FO. Certi nostri amici ci hanno confessato di essere arrivati stanchi alla fine del percorso della BIAF, ma questo è bello, perché l’arte deve anche stancare. E questo secondo me è un cambio di approccio totale rispetto alle fiere di qualche anno fa, rispetto a un certo tipo di contemporaneo che oltre alla provocazione ha poco altro. È proprio un cambio di approccio da parte del visitatore e del collezionista.
MC. Il senso è che oggi l’arte deve proprio impegnare intellettualmente.
FG. E quello che mi state descrivendo mi sembra già un cambiamento decisamente importante. Ma voi, nonostante la giovane età, siete sul mercato da dieci anni precisi: era il 2014 quando avete avviato la vostra attività. Oltre a questo, che è un fatto recente, come mi pare di capire, avete riscontrato altri cambiamenti sul mercato specialmente se confrontiamo il momento storico attuale a quello di dieci anni fa?
MC. Posso dire per esempio che oggi è cambiato l’atteggiamento nei riguardi dell’arte religiosa, solitamente invisa al collezionista medio. Parlo di arte religiosa in senso ampio, dal buddhismo alla divinità antica alle opere cristiane. Oggi invece è l’esatto contrario, si cerca il metafisico nell’opera. Il collezionista lo cerca, il mercato degli oggetti che abbiano queste caratteristiche è schizzato, e questo è sicuramente figlio di quell’approccio di cui parlavamo prima.
FO. Ormai è diventato fondamentale il contenuto in senso ampio. Abbiamo anche riscontrato dei cambiamenti negli acquirenti: prima il compratore era spaventato, nel senso che aveva effettivamente difficoltà nel capire i prezzi, aveva difficoltà a fidarsi di un prezzo. Oggi invece il compratore è, da un lato, molto più preparato, dall’altro è molto più tranquillo perché sa che se viene qui è garantito nel suo acquisto. E comprare in una fiera di buon livello, o comunque con un livello omogeneo, aiuta molto.
MC. E poi, se prima ci si approcciava all’opera d’arte magari anche ridendo (ma non necessariamente in senso negativo, nel senso che il conversation piece veniva visto anche come una cosa divertente), oggi invece l’arte viene vista diversamente. Si punta, cioè, più verso l’alto. Questo almeno dal punto di vista del compratore.
FO. In poche parole, il cambiamento principale, per usare un paio di inglesismi, è che la fruizione è diventata slow e la tipologia di opere cercate elevated.
FG. Se invece volessimo approfondire il lato squisitamente economico, tanti operatori del settore lamentano, per esempio, un assottigliamento della fascia media dei compratori. È una situazione che anche voi avete riscontrato?
MC. C’è da fare una premessa: noi qui in fiera abbiamo pensato al mercato italiano, che tendenzialmente è un mercato (almeno per quella che è la nostra conoscenza del mercato italiano) che non vuole, o non può, arrivare ai prezzi che si possono trovare per esempio al TEFAF di Maastricht, eccetto ovviamente pochi casi. Poi c’è da dire che l’economia globale sta cambiando, stanno cambiando anche le fasce, i settori, la tipologia di acquirenti, l’imprenditoria.
FG. Ti fermo un attimo: perché secondo voi il mercato italiano ha la caratteristica di non arrivare, se non eccezionalmente, ai prezzi di Maastricht?
FO. Diciamo che in Italia da sempre l’attività è abituata alla crisi da molto prima del resto del mondo. Voglio dire, l’Italia vive in uno stato di crisi permanente... praticamente dal 1992. Quindi probabilmente questa situazione sempre in bilico porta il comparatore italiano a essere un po’ più attento. Tendenzialmente: non parliamo di tutti. Poi, per tornare alla questione della fascia media, l’Italia, a differenza di altri paesi, riesce ad avere ancora una classe media che secondo me è capace di comprare dei dipinti anche di livello entry, almeno sulla base della nostra esperienza. E noi qui a Firenze abbiamo portato anche qualcosa di più accessibile (che infatti è andato bene), per cui secondo me l’Italia in questo è una particolarità: c’è un mercato leggermente diverso e riesce ad avere anche ancora un collezionismo medio. A livello internazionale invece questo fenomeno sta calando, mentre si sta allargando il collezionismo di altissimo livello. In Italia, invece, il collezionismo di medio livello si riesce ancora ad avere. Come in Francia, del resto.
MC. Mi permetto di aggiungere un ulteriore aspetto: alzando un po’ lo sguardo, cioè senza concentrarci solo sull’opera d’arte, o sul mercato dell’arte in sé, stiamo affrontando un discorso globale di capacità di spesa che nel mondo, come dicevamo all’inizio, sta cambiando, nel senso che la ricchezza si sta spostando e concentrando nelle mani di meno persone. Anche il mercato immobiliare sta diventando più complesso, lo stesso vale per la nautica, e altri esempi si potrebbero fare per altri mercati. Non è un discorso legato solo al mercato dell’arte, ma parliamo in generale di una trasformazione dell’economia occidentale, e sotto questo punto di vista i galleristi possono fare poco. È qualcosa di più grande, di macrostorico. E questo va accettato.
FG. Prima parlavate di pezzi entry level: chi è il vostro collezionista che comincia a guardarsi attorno a questo modo e acquista da voi in galleria, cosa compra, a cosa è interessato?
FO. In generale questo tipo di collezionista, premetto, varia di galleria in galleria. Per noi è innanzitutto il collezionista nuovo, al quale solitamente andiamo incontro perché è sempre bello incontrare un nuovo collezionista, magari una persona giovane, oppure un nuovo cliente che si approccia a qualcosa di totalmente nuovo per lui, oppure anche un vecchio cliente che magari ci ha accompagnato sin dall’inizio e quindi cerchiamo sempre di comprare qualcosa per lui, di pensare sempre a qualcosa per lui e di continuare ad accompagnarlo nel suo percorso collezionistico. Diciamo poi che, per noi, tendenzialmente il livello entry parte dai 30mila euro circa. Poi può essere qualcosa in più o qualcosa in meno, però per noi questa è la fascia di ingresso per avere un dipinto buono. Poi è chiaro che si può trovare qualcosa anche a meno, ma per avere un dipinto al contempo bello, certo, con una buona provenienza, buoni studi, di un autore importante come sono quelli che noi tendiamo ad avere, diciamo che secondo me è un ottimo prezzo, il prezzo a partire dal quale iniziare a fare collezionismo importante e in modo serio. Poi è chiaro che si può comprare anche a meno ma secondo me tendenzialmente diventa più complicato. Almeno su quello che facciamo noi.
FG. Alla fiere poi tendiamo spesso a fare il punto sulle “limitazioni”, chiamiamole così, che il mercato italiano spesso si trova ad affrontare. In Italia, in particolare, i mercanti affrontano situazioni che sono forse un po’ più rigide rispetto a quelle degli altri paesi. Per voi è un problema? Qual è la vostra posizione?
MC. La premessa che dobbiamo sempre fare è che noi, non trattando pittura italiana, possiamo avere (anzi: abbiamo) una visione, se vuoi, un po’ particolare rispetto agli altri, perché ci è capitato meno di incrociare queste problematiche (che poi sono sotto gli occhi di tutti: anche noi le leggiamo e partecipiamo a questo dibattito), che producono comunque una situazione difficoltosa.
FO. Diciamo che una delle ragioni per cui il sistema italiano tende a essere più attento è anche perché il più delle volte non sappiamo, sia che un’opera abbia l’attestato di libera circolazione sia che non ce l’abbia, cosa avverrà domani. E quindi questo chiaramente è un freno. Poi, e lo sappiamo tutti, è un freno necessario, nel senso che il vincolo è anche tutela, e quindi si porta dietro il lato negativo ma anche il lato positivo. Chiaro però che, probabilmente, da parte di tutti, quindi dall’una e dall’altra parte, un atteggiamento più trasparente aiuterebbe tutte le parti in causa.
MC. Poi è inutile girarci attorno: negli ultimi anni c’è stata una dialettica tra istituzioni private e istituzioni pubbliche sul tema, una dialettica che era assolutamente necessaria per trovare un punto d’incontro tra casi estremi. Perché ci sono stati dei casi molto discutibili di opere che sono uscite e non dovevano uscire, e dall’altro lato però anche delle oggettive difficoltà a comprendere alcuni decreti di vincolo che ci sono stati. Quindi c’è una situazione che in un qualche modo va affrontata e bisogna tenere una sintesi tra le parti, altrimenti va a detrimento di tutti quanti, anche delle soprintendenze che hanno bisogno della collaborazione, inevitabile e anche di conoscenza, dei privati, e va a detrimento degli stessi privati, che non dovrebbero aver paura di fare qualunque cosa con i loro oggetti.
FO. Noi comunque abbiamo riscontrato sempre un atteggiamento molto equilibrato da parte delle soprintendenze.
MC. Sì, non possiamo che parlarne bene. Ma stiamo facendo un discorso generale. Voglio dire: anche voi di Finestre sull’Arte vi siete occupati di alcuni casi e avete visto quanto è complicato, e che la verità non è bianca o nera (altrimenti finiremmo nella chiacchiera da bar). Quello che è importante è che queste situazioni vengano discusse da persone competenti nelle sedi adatte, perché non esistono soluzioni semplici. Adesso, per esempio, l’Associazione Antiquari d’Italia, da un paio d’anni, si sta occupando veramente molto bene della questione, e secondo noi si sono ottenuti anche dei buoni risultati, perché le leggi si perfezionano: occorre trovare, a colpi di dibattito e di circolari, un punto d’incontro. Poi per il futuro forse bisognerà iniziare a ragionare in un’ottica più europea e non soltanto italiana, francese e così via.
FO. È forse un’opinione politica, ma si dovrebbe andare in generale verso una maggiore apertura in questo senso: affrontare la situazione da europei più che da italiani e pensare al mercato europeo invece che al mercato nazionale. Quindi forse i vincoli andrebbero rivisti anche secondo quest’ottica: in fondo è tutta l’Europa, e non soltanto l’Italia, il luogo dove l’arte è stata prodotta dall’uomo occidentale, per lo meno nei secoli passati, ed è il luogo dove effettivamente quell’arte può essere fruita in modo pieno e totalizzante e onnicomprensivo. Anche perché al momento attuale abbiamo legislazioni talmente diverse nei paesi europei che diventa veramente complicato anche capirne il senso. Servirebbe quanto meno un’armonizzazione del meccanismo di tutela. Poi la verità è che ogni paese ha delle leggi che sono state varate in periodi differenti, quella italiana sappiamo essere una legge che affonda le sue radici in altri momenti storici, ma forse bisognerebbe riconsiderarle alla luce dei cambiamenti del mercato, dei cambiamenti politici e di tutto quello che è semplicemente il progresso.
FG. Comunque mi confermate che, rispetto anche soltanto a pochi anni fa, prendiamo per esempio come riferimento il periodo pre-pandemia, una discussione tra gli operatori di settore e le istituzioni, in questo senso, è stata avviata.
MC. Sì, ed è giusto così: si continuerà con questa linea. E noi siamo molto contenti del lavoro che sta facendo l’Associazione Antiquari d’Italia.
FG. Per quanto riguarda il panorama fieristico, secondo il vostro punto di vista come è cambiato negli ultimi anni? Perché anche in questo caso, facendo un confronto tra il pre-pandemia e il post-pandemia, abbiamo riscontrato trasformazioni notevoli. Per esempio, c’è molta più attenzione alla qualità. È così?
MC. C’erano troppe fiere, sovente molto care e forse inutili. Voi che le girate, le vedete: c’è un calendario di fiere tale che se uno si mettesse a girarle tutte non farebbe assolutamente nient’altro. Noi non siamo mai stati frequentatori di troppe fiere: vogliamo farne poche e farle molto bene, anche perché poi, alla fine, la comunità dell’arte è sempre la stessa, quindi finisce per girare tante fiere e vedere magari sempre le stesse cose. E questo comporta un abbassamento della qualità e anche dell’attenzione, ma non è ciò che dev’essere una fiera. Quindi sì, si riscontra un cambiamento in questo senso, c’è un innalzamento della qualità e c’è anche un diradamento delle fiere, ma noi non lo vediamo come un avvenimento negativo, anzi forse le fiere dovrebbero essere ancora meno, perché significherebbe alzare la qualità.
FO. Del resto, per preparare una fiera bene, e noi lo sappiamo dato che ce ne occupiamo, ci vuole tanto tempo: bisogna avere gli attestati di libera circolazione (o comunque una situazione definita su un dipinto), bisogna avere tutte le garanzie affinché per il compratore non ci siano problemi, quindi servono le perizie, gli studi, le riflettografie e tutto quello che ne compete. E poi alla fine fare tante fiere vuol dire presentare gli stessi oggetti. Però a quel punto mi chiedo che senso abbia. Poi stiamo andando, lo dicevamo prima, verso una fase in cui il mercato è sempre più attento, giustamente.
MC. Le opere d’arte sono un bene delicato, culturalmente denso, e tutti stanno chiedendo una fruizione slow: tutto questo approccio fast food, questo stress costante sia per chi viene a visitare le fiere sia per chi vende, tutto questo sta finendo. È come nel mondo dell’alimentazione, dove si va verso il biologico. Il concetto è lo stesso.
FO. E vale anche per le fiere. Secondo me la BIAF è una fiera ideale, con 80 gallerie circa e un’offerta più o meno omogenea. Le fiere con tante gallerie e con un’offerta molto diversificata confondono tantissimo il compratore e rendono anche difficile la visita. Su questo punto ci siamo spesso confrontati con clienti e collezionisti che hanno rilevato proprio questo problema. Ecco, già il fatto di avere una fiera che per esempio abbia una sezione moderna e una sezione antica aiuta molto, perché l’acquirente può mirare verso ciò che gli interessa anche in un panorama più complicato e con tante gallerie, perché si va a concentrare su quello che vuole. Pensiamo al TEFAF, che ha addirittura zone separate con le diverse specialità e questo aiuta tantissimo il compratore e permette un crossover molto più consapevole, non è un passaggio continuo che stanca solo l’occhio e la mente ma diventa un approccio molto più ragionato.
FG. Per concludere, tornando alla BIAF: un aspetto su cui il segretario generale Fabrizio Moretti ha insistito molto, sia nell’intervista rilasciata al sottoscritto, sia in altre occasioni (per esempio alla conferenza stampa della presentazione di questa 33ma edizione) è il valore della fiera come momento profondamente culturale. Come fare però a convincere il pubblico che questa fiera, una mostra mercato dove le opere si vendono, e dalla quale pertanto molti potrebbero esser portati a tenersi lontani, ha anche un’anima culturale? Come si concilia, in sostanza, l’anima commerciale di questa fiera con quella culturale?
MC. Fabrizio, da questo punto di vista, ha fatto un capolavoro, tra conferenze, dichiarazioni, presentazioni, personaggi coinvolti. Poi già soltanto il contesto della città, di Firenze, favorisce questa fiera rispetto a qualsiasi altro avvenimento. È comunque una sfida che si vince di volta in volta: bisogna trovare un giusto punto di equilibrio, perché da un lato permane l’idea che questo è un evento è per collezionisti. Quindi i collezionisti vengono per che cosa? Per comprare. E noi siamo qui per vendere. Poi però, esattamente come a TEFAF, c’è di fatto tutta un’architettura dedicata agli avvenimenti di cui abbiamo discusso finora. E questo che cos’è che dimostra? Dimostra che oggi non si può pensare di scindere la realtà privata dall’interesse pubblico: c’è un abbattimento delle barriere e tutto diventa più fluido, più compenetrato. Quella seguita da questa BIAF è una strada giusta, poi va saputa seguire con classe ed equilibrio, e qui penso che classe ed equilibrio ci siano.
FO. Poi, aggiungo, per far sposare l’anima commerciale e l’anima culturale di una fiera il primo principio è sempre la qualità. Se la qualità è oggettiva, di fatto le due anime già s’incontrano. La cadenza biennale della fiera in questo senso è un grosso vantaggio, perché permette ai mercanti di poter offrire qualcosa di effettivamente pensato. E già il fatto di avere comunque una omogeneità di offerta (qui poi siamo tutti galleristi che fanno parte della Associazione Antiquari d’Italia, che è di per sé una garanzia) aiuta ad avere un’offerta che sia importante non solo da un punto di vista collezionistico, ma anche da un punto di vista culturale. Quindi come si fa a far sposare le due anime? Con un’offerta pensata, e questo deve venire prima di tutto da chi organizza una fiera, che deve pensare a chi deve vendere, come deve farlo, e quali sono i soggetti che devono farlo, perché magari ci sono gallerie che sono meno propense a un discorso di questo tipo, quindi la scelta all’origine è importante. Ed è importante per la qualità della proposta e per il modo di esporre.
MC. Per esempio, quando ti ricapita di vedere in una fiera l’ultimo Ceruti del ciclo di Padernello? Presentando quest’opera, il nostro collega Matteo Salamon ha fatto una cosa che, culturalmente parlando, è straordinaria: tutti si sono precipitati a vedere quel dipinto, che di solito non è visibile. E poi in questa fiera ci sono Bronzino, Michelangelo, Bernini...
FO. Ci sono opere come quella di Ceruti, che non è mai stata posta in dubbio in nessun modo: un’opera che è qui, ma che potrebbe stare tranquillamente qualche metro più avanti, dentro un museo. Questo è oggettivo. E che cos’è questo se non l’incontro tra commerciale e culturale?
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).