Com'era la Roma dark degli anni Ottanta. Intervista a Dino Ignani


Di recente, la Sovrintendenza Capitolina ha acquisito un cospicuo nucleo dei Dark Portraits di Dino Ignani, importante ciclo di fotografie dedicate ai dark della Roma degli anni Ottanta. Chi erano i dark? Cosa facevano? In che modo Dino Ignani li ha ritratti? Tutto questo e altro nell’intervista di Federico Giannini.

Da pochi mesi, un importante selezione del ciclo Dark Portraits di Dino Ignani (Roma, 1950), uno dei più grandi fotografi italiani, è entrato a far parte delle collezioni della Sovrintendenza Capitolina di Roma Capitale. Questo importante nucleo è esposto al Museo di Roma in Trastevere dove, fino al 12 gennaio 2025, è stata allestita una mostra tutta dedicata a questo ciclo di ritratti, dedicato ai giovani che animavano la vita notturna romana degli anni Ottanta e in particolare ai dark. La cultura dark non era riconducibile a un’unica tendenza musicale ma era legata soprattutto al modo di vestirsi, in particolare al colore nero che assumeva una valenza simbolica del tutto inedita. Ignani ha seguito per lungo tempo questo fenomeno e nessun altro fotografo come lui in Italia ha potuto osservare, studiare, vivere il movimento dark. In occasione di questa importante acquisizione, abbiamo intervistato Dino Ignani per vedere più da vicino non soltanto le sue opere, ma anche quello stesso movimento che i suoi Dark Portraits cercano di restituire all’osservatore. L’intervista è di Federico Giannini.

FG. Se dovesse riassumere in poche parole la cultura dark, come lo farebbe?

DI. Libertà di pensiero e creatività.

Chi erano i dark che frequentavano la Roma degli anni Ottanta? E perché a Roma c’era una frequentazione di dark così importante?

Alcuni dei ragazzi e delle ragazze che si identificavano con la collettività “dark” venivano dalle periferie, dall’hinterland, qualcuno dai Castelli ma anche da ambienti più agiati; è stato sì un fenomeno molto popolare, proletario ma era anche trasversale e totalmente inclusivo. Non so perché a Roma la “comunità dark” è stata molto consistente… probabilmente perché l’area metropolitana è molto vasta e ramificata e ha un gran numero di abitanti rispetto alle altre città. Tuttavia, ci sono state realtà dark importanti anche a Firenze e a Milano.

Quali erano i locali di riferimento, i cantanti e i gruppi che ascoltavano, i libri che leggevano?

Il primo locale a connotarsi come dark è stato il Black Out che il venerdì ha iniziato a proporre le serate con, appunto, la musica dark. Poi anche altri locali, senza sovrapporsi, hanno iniziato a fare serate con i DJ che mixavano la musica di gruppi per lo più dark ma anche new wave, post-punk, neo-psychedelic, elettronica. Cerco di ricordare: il lunedì si andava all’X-Club, il martedì al Supersonic, il mercoledì all’Olimpo, il giovedì all’Angelo Azzurro, il venerdì appunto al Black Out, il sabato all’Uonna Club, e la settimana si concludeva la domenica al Piper. Ricordo anche dei video bar: il Venice, il Blu Bar… A parte i gruppi romani che si erano formati allora e che avevano l’opportunità di suonare in vari spazi e soprattutto al cinema Espero che organizzava delle rassegne musicali; i gruppi più amati erano amati The Cure, The Cult, Joy Division, Dead can dance, Bauhaus, Sisters of mercy, Siouxsie and the banshees, The Damned, This Mortal Coil e altri. Non mi è mai capitato di parlare con loro dei libri che apprezzavano.

Dino Ignani, Dark Portraits (1982-1985)
Dino Ignani, Dark Portraits (1982-1985)
Dino Ignani, Dark Portraits (1982-1985)
Dino Ignani, Dark Portraits (1982-1985)
Dino Ignani, Dark Portraits (1982-1985)
Dino Ignani, Dark Portraits (1982-1985)

C’erano invece degli artisti, intendo artisti delle arti visive, che erano punti di riferimento per la scena dark romana?

Sì, molti di loro erano dei creativi: alcuni suonavano in gruppi musicali; altri creavano abiti o accessori; alcuni avevano creato delle associazioni culturali per poter organizzare delle Performance teatrali che includevano travestimento, canto, gestualità e recitazione; c’era chi usava la pittura su grandi stoffe o lenzuoli che venivano usati come sfondi per le performance o per i gruppi musicali…

In che cosa si esprimeva l’anticonformismo dei dark degli anni Ottanta? Era una ribellione contro la società, contro la politica, oppure era un modo per distinguersi, o ancora un insieme di tutto questo?

Si esprimeva in diversi modi. Scegliendo intanto una forma estetica in totale rottura coi dettami della moda del tempo. Gli abiti erano codici di linguaggio ed equivalevano a un manifesto esistenziale, a una bandiera. Una forma di attivismo portata avanti con il look e con idee in contrasto con i cliché imposti dalle diverse tendenze precedenti, per esempio l’eskimo, le borse di vera tolfa, gli zoccoli olandesi, i pantaloni a zampa che connotavano i ragazzi e le ragazze di sinistra; oppure le scelte dei ragazzi e delle ragazze punk che era costituito da vestiti strappati, pantaloni laceri, grosse catene, collari con borchie e chiodi, era frequente l’utilizzo di piercing in varie parti del volto, e molti i tatuaggi ostentati…

Da dove nasce il suo fascino per questa cultura giovanile?

Era il 1981, frequentavo una vineria in Trastevere che si chiamava Il Fidelio, un classico ritrovo per artisti, perdigiorno, chiacchieroni di vario tipo… Ci si incontrava lì all’inizio della sera senza alcun appuntamento e si rimaneva fino alla chiusura. A un certo punto, alla tipica fauna del locale si aggiunsero i dark. Erano una decina, giovanissimi: tra i 18 e i 22 anni. Io ero molto più grande di loro, di una decina di anni, e della musica dark non sapevo nulla. Già fotografavo da cinque anni e prediligevo fare i ritratti: questi ragazzi mi incuriosirono immediatamente. Cominciai a chiedere e ad entrarci in confidenza, e così decisi di seguirli nelle discoteche che frequentavano per capire come poter fare delle fotografie. Uno scatto a testa, in angoli che mi venivano messi a disposizione dagli stessi gestori dei club. Da lì è nato un archivio di circa 450 immagini che poi è diventato Dark Portraits.

Dino Ignani, Dark Portraits (1982-1985)
Dino Ignani, Dark Portraits (1982-1985)
Dino Ignani, Dark Portraits (1982-1985)
Dino Ignani, Dark Portraits (1982-1985)
Dino Ignani, Dark Portraits (1982-1985)
Dino Ignani, Dark Portraits (1982-1985)
Dino Ignani, Dark Portraits (1982-1985)
Dino Ignani, Dark Portraits (1982-1985)
Dino Ignani, Diamanda Galás (1985)
Dino Ignani, Diamanda Galás (1985)

In che modo ha voluto descrivere questa scena con i suoi Dark Portraits?

Molte delle fotografie sono state fatte allestendo un set fotografico minimo: macchina fotografica su cavalletto, stativo con un ombrello da fotografia e una lampada a luce continua da 1000 watt. In altre circostanze, per esempio durante le performance, ho scelto di usare la macchina a mano e il flash. Per lo più ho usato la pellicola in bianco/nero e in parte la pellicola diapositiva a colori.

Perché la scelta di approntare dei set ad hoc per questi ritratti?

Perché l’illuminazione delle discoteche è molto scarsa e, se avessi fotografato senza l’ausilio del cavalletto e della lampada, le fotografie sarebbero risultate completamente mosse e probabilmente fuori fuoco.

I Dark Portraits sono in bianco e nero, anche se lei ha lavorato spesso anche col colore nella sua carriera. Da cosa è motivata la scelta del bianco e nero?

A quei tempi – e per venticinque anni – ho sviluppato i rulli e stampato le fotografie in casa e questo procedimento era possibile solo con le pellicole in bianco e nero, le pellicole – sia a colori che in diapositiva – era molto complicato trattarle in proprio.

Chi erano i giovani che hanno posato per lei? Ricorda in particolare qualcuno di loro?

All’inizio, quando ho iniziato a seguirli nelle discoteche e a fotografarli conoscevo solo qualcuno di loro che avevo incontrato al Fidelio e con i quali avevo iniziato i primi contatti poi, frequentandoli nelle tante notti, con molti di loro si sono stabilite simpatie amicizie confidenze… Tutt’ora con diversi di loro siamo in rapporto, ci vediamo di tanto in tanto, o siamo in contatto tramite i social.

Lei ha conosciuto molti protagonisti della Roma degli anni Ottanta e non solo (ricordo in particolare i suoi ritratti di Valentino Zeichen, uno dei più grandi poeti italiani degli ultimi decenni). C’è qualcuna di queste personalità alla quale si sente particolarmente legato, o che ricorda con piacere?

Con molti dei poeti e artisti che ho fotografato è nata un’amicizia, li incontro alle presentazioni dei loro libri, alle letture nei festival. Purtroppo alcuni tra loro non ci sono più; penso appunto a Valentino Zeichen, a Biancamaria Frabotta, a Carlo Bordini, a Patrizia Cavalli, a Vito Riviello, ad Anna Cascella Luciani, a Jolanda Insana, a Giovanna Sicari…

Dino Ignani, Pino Strabioli (1985)
Dino Ignani, Pino Strabioli (1985)
Dino Ignani, Porpora Marcasciano (1984)
Dino Ignani, Porpora Marcasciano (1984)
Dino Ignani, Roberto D'Agostino (1985)
Dino Ignani, Roberto D’Agostino (1985)

C’è un’eredità lasciata dalla scena dark che magari si ripercuote ancora oggi? Oppure è andato tutto in fumo e sono tempi che non torneranno mai?

Quegli anni non torneranno mai in quella esatta forma perché ovviamente la società e le condizioni sono cambiate. Resta comunque un’“eredità di pensiero” seppure esercitata sotto altre forme, resta l’eredità musicale ripresa da tante band attuali e anche la fascinazione estetica. Non è un caso che molte riviste di moda scrivano del gothic come di una tendenza contemporanea.

Lei intravede, nelle culture giovanili di oggi, qualcosa che ricordi quei tempi, oppure qualche somiglianza, qualche tratto comune?

Oggi sono cambiati i modi di aggregarsi e di gestire le relazioni. Ma chi condivide ideali di libero pensiero e di progresso esisterà sempre anche se con tratti distintivi differenti dal dark di quegli anni.

Un corpus dei suoi Dark Portraits è stato acquisito dal Museo di Roma in Trastevere. I suoi ritratti dei dark, dunque, diventano da oggi patrimonio comune, patrimonio dei romani. In che modo, secondo lei, i ritratti dei dark degli anni Ottanta, e in generale la scena dark della Roma di quel tempo, contribuisce a farci conoscere meglio Roma, la sua grandezza, la sua cultura contemporanea (e non)? 

Non saprei proprio cosa rispondere a questa domanda, ignoro quale possa essere il collegamento, la relazione, il rapporto tra quei ragazzi e quelle ragazze di allora - ormai adulti – e il tessuto sociale e culturale di oggi. Però osservo stupito che la mostra incuriosisce molti visitatori giovani e anche giovanissimi; mi fanno domande, fotografano le immagini esposte nella mostra e si fotografano davanti a loro...


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).




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