Il suo vero nome è Cristian Bugatti, è nato a Rho nel 1973 è cresciuto a Cerano, e il suo nome d’arte è Bugo: tutti lo conoscono come un importante cantautore e musicista (molti lo considerano il padre dell’indie italiano), ma non tutti sanno che Bugo è stato anche un artista visivo di livello, capace di portare le sue opere in contesti importanti. L’attività da artista visivo di Bugo ha una durata ben precisa: dal 2009 al 2014. Cinque anni esatti per una sorta di pausa dalla musica dalla durata predeterminata: Bugo ha deciso coscientemente di dedicarsi all’arte per soli cinque anni. Ma è stato un periodo intenso: le sue opere sono state esposte in tutte le principali fiere italiane (Artissima, Miart e Arte Fiera), hanno fatto parte di mostre collettive in contesti importanti e al fianco di artisti di prim’ordine (per esempio al Museo Nazionale di Villa Guinigi a Lucca o al Padiglione dell’Esprit Nouveau di Bologna), hanno ricevuto riscontri positivi da parte della critica e su riviste prestigiose. E in più, Bugo ha al suo attivo una decina di mostre personali, la prima delle quali nel 2009 al Museo Faraggiana Ferrandi di Novara.
Quello di Bugo è un percorso che non è da tutti: molti artisti sognano di arrivare a esporre nelle gallerie, nelle fiere e nei musei che Bugo invece ha frequentato con regolarità. E di certo non è stato facilitato dalla fama: quando ha avviato il suo percorso da artista visivo, Bugo era un musicista con un nutrito seguito, ma lontanissimo dalla popolarità. Lo abbiamo dunque incontrato in occasione del suo concerto al Centro Pecci di Prato (per il cartellone Pecci Summer Live 2020) e abbiamo ripercorso con lui questi cinque anni di attività artistica, cercando di capire il perché di questa scelta che può apparire così bizzarra e radicale, e i motivi alla base delle sue ricerche, libere ed esplorative. L’intervista è a cura di Federico Giannini, direttore responsabile di Finestre sull’Arte.
Bugo (Cristian Bugatti) |
FG. Sei diventato artista visivo relativamente tardi, a trentasei anni. È una domanda forse scontata, ma sarebbe molto interessante sapere cosa ti ha spinto ad accantonare per un attimo la musica e a sperimentare delle modalità espressive diverse. Perché è un tipo d’esperienza che non è da tutti, anzi: per quanto mi riguarda, non ho mai saputo di esperienze simili.
B. L’ho sempre chiamata parentesi, perché di fatto è stata una parentesi nel mio percorso artistico: a un certo punto mi sono reso conto che il linguaggio dell’arte contemporanea poteva essere adatto a me, che sono una persona non capace di dipingere e priva di qualità tecniche particolari. Un po’ come nella musica: ho un mezzo vocale che secondo me rientra nell’ambito della normalità, ma non mi ritengo un artista classico. Quando mi sono trasferito a Milano, nel 1999, una delle prime cose che mi avevano colpito di questo mondo era La nona ora di Maurizio Cattelan: credo sia iniziato tutto da lì. Non avevo mai avuto interessi per l’arte, né provengo da una famiglia di artisti o con interessi artistici. La stessa musica è arrivata nella mia vita in modo inusuale, non tradizionale, senza seguire una tradizione familiare. Lo stesso vale per l’arte: si può dire che abbia visto per la prima volta un’opera d’arte contemporanea dal vivo nel 2003, quando avevo trent’anni. Conoscevo alcuni artisti, a cominciare da Andy Warhol, che mi affascinava molto più dei pittori antichi o comunque di quelli più legati a linguaggi classici, ma non avrei mai pensato di cominciare a frequentare questo mondo e a costruirci sopra una parte della mia carriera. Poi a un certo punto, nel 2008, fui invitato a fare una mostra a Novara, e ricordo di essere stato un po’ scettico, anche col curatore, Marco Tagliafierro, gli avevo detto che... non sapevo fare niente! Ma non solo: non volevo neanche passare come uno dei tanti musicisti che, quando fanno mostre, espongono i soliti disegni o i soliti quadretti col paesaggio impressionistico, cose che non mi piacciono. A Tagliafierro però piaceva il mio modo d’esprimermi e devo ringraziare lui se ho potuto entrare in questo mondo e ho potuto esporre per la prima volta le mie opere, al Museo Civico Faraggiana Ferrandi di Novara: ma la cosa che mi ha fatto più piacere non è stata tanto la mostra in sé, ma la possibilità che il curatore potesse farmi cominciare un percorso nell’arte contemporanea, a me che peraltro sono un musicista. E la cosa non è così scontata, perché operazioni di questo tipo sono sempre rischiose, e io stesso non ero pienamente convinto, temevo che la critica stroncasse i miei lavori. Quando invece ho esposto queste mie prime opere, in particolare il busto piumato, le reazioni sono state positive, e mi hanno spinto a proseguire il percorso.
Un percorso durato soli cinque anni, per scelta deliberata. Credo che questa stessa decisione sia già di per sé un’opera d’arte. Ma di opere lungo questo tuo breve percorso ce ne sono state tante, e tutte interessanti. Cos’è che ti ha spinto a iniziare questa esperienza e a chiuderla avendo già in mente fin dall’inizio quale sarebbe stata la sua durata?
Quando ho iniziato, mi sono detto: “voglio provare a fare l’artista a tempo determinato”. L’assunto di base è che si sente spesso dire che si nasce artisti: io non ci credo. Per quello che mi riguarda, penso di esserlo diventato. E come lo sono diventato, ho pensato anche di farlo solo per un tempo limitato, in questo caso di cinque anni: mi sono dato dunque un tempo prestabilito, un periodo in cui, tra il 2009 e il 2014, con la musica ho rallentato il ritmo per dedicarmi a tempo pieno all’arte visiva, in cui ho esposto le mie opere in diverse mostre, nel quale molti collezionisti le hanno acquistate. E in quel periodo vivevo di quello.
Bugo, Untitled (2009; gesso, vetro, segatura, piume, 31 x 56 x 33 cm) |
E hai in mente di riaprire questa parentesi prima o poi?
No, al momento è un periodo che considero chiuso. È un capitolo chiuso. E questa idea di essere entrato nelle stanze dell’arte contemporanea e di esserne poi uscito mi diverte molto. Poi, ovviamente, non si può mai dire di smettere definitivamente una cosa, non so cosa succederà in futuro, potrebbe anche essere. Però adesso io non mi considero più un artista visivo. Dal 2014... ho smesso. Nonostante avessi anche delle sollecitazioni, diversi collezionisti volevano continuare a comperare le mie opere e quindi mi spingevano a produrne di nuove. Ma io ho detto di no. Ho solo voluto rompere un tabù.
Continui a frequentare mostre, musei, fiere?
Non tanto. Mi aggiorno su quello che piace a me. Ma questo vale anche per la musica. Non sono un grande conoscitore della musica, ho una mia idea del concetto di artista e di cantante e mi faccio trascinare dal momento, non ho l’ossessione di sapere chi sono gli ultimi artisti più importanti o più quotati. Mi interessa soprattutto creare.
E a proposito di artisti più importanti: se ti chiedessi d’indicarne qualcuno, degli antichi, che ha ispirato la tua arte, quali artisti citeresti?
Caravaggio è sempre stato uno dei miei artisti preferiti. Sembrerò banale perché adesso Caravaggio è diventato un nome alla moda e che piace a tutti, ma quello che spesso non si considera è il fatto che Caravaggio, per quanto adesso venga guardato come un artista antico, all’epoca era quanto di più contemporaneo potesse esistere: il suo era un linguaggio di rottura, come potrebbe esserlo oggi quello di un Dan Colen, per fare un esempio. Un altro artista “classico” a cui m’ispiro è René Magritte. Ci sono comunque nell’arte antica degli artisti che amo molto, ma se mi devo esprimere, non essendo un pittore né uno scultore, trovo che alcuni linguaggi contemporanei mi abbiano aiutato a esprimermi anche senza fare quasi niente. Solitamente le mie opere nascevano da uno schizzo, da un’idea, e chiedevo supporto per la realizzazione.
Anche il tuo è comunque un linguaggio che si rifà ai grandi artisti “di rottura”, come li hai chiamati: penso al busto piumato che hai citato, penso ai bambini barbuti, alla performance Sento tutti gli occhi addosso.
Spesso neanche io ho idea di cosa vogliano dire le mie opere. È come quando mi chiedono cosa voglia dire Casalingo, una delle mie canzoni. Semplicemente voglio esprimere un’idea: nel caso della canzone, il fatto che “stare in casa è qualcosa di spettacolare”. Ma poi mi piace che siano gli altri a fornire un’interpretazione dell’opera o della canzone, perché mi piace l’idea che qualcun altro faccia un po’ sua una mia opera. Detto questo, non mi sento in conflitto con altri modi di fare arte, anche con linguaggi più classici. Anche linguaggi apparentemente inconciliabili possono correre benissimo in parallelo. Pensiamo allo stesso Cattelan, la cui opera è colma di citazioni dell’arte antica. Abbiamo la fortuna di vivere in un’epoca in cui anche l’arte contemporanea più intangibile e le forme d’arte anche più lontane dai mezzi espressivi tradizionali come la pittura o la scultura possono inserirsi nella storia dell’arte, e questo mi affascina molto, soprattutto se pensiamo a chi, come me, non si ritiene un “tecnico”, un artista accademico. Vale lo stesso per la musica: basti pensare che ho molti detrattori che dicono che non so cantare. E hanno ragione! Perché io sono il primo a dirlo: non sono un cantante, sono uno che vuole esprimersi. Quindi ce la metto tutta, e da vent’anni riesco a fare di questa mia idea un lavoro.
Cristian Bugatti, Sento tutti gli occhi addosso (2010; performance) |
Cristian Bugatti, Bambino barbuto (2010; fotografia, 24 x 17 cm) |
Molti artisti, in questa fase storica, lamentano l’assenza dello Stato, o comunque si è soliti dire che lo Stato fa poco per l’arte contemporanea. Tu, che sei stato artista visivo e che sei musicista e che quindi vivi da dentro questa situazione, cosa ne pensi?
Non sono molto aggiornato su quanto lo Stato aiuti l’arte, sia quella antica sia quella contemporanea, ma comunque non è che lo Stato abbia mai fatto tanto per l’arte. E peraltro, per come la penso, lo Stato è un soggetto per me estraneo al concetto di “arte”. Si utilizza spesso la parola “cultura”, un termine che a me piace poco, lo trovo abusato: per quel che riguarda l’arte contemporanea, ritengo che non possiamo dire oggi se una data opera possa far parte di quella cosa che chiamiamo “cultura”, perché sono processi da valutare storicamente. Se un’opera d’arte è cultura potremo dirlo forse tra molti anni, secondo me. Di sicuro, ad esempio, non ritengo interessante l’arte che asseconda i gusti o le tendenze. Tornando sul punto, se pensiamo a quello che lo Stato fa per l’arte dobbiamo intanto domandarci se, oggi, la crisi che stiamo attraversando sia soltanto una crisi economica, o non sia anche, piuttosto, una crisi culturale, una crisi d’idee. Nella storia ci sono stati periodi di forte crisi economica ma nei quali sono esplosi grandi artisti. Pertanto da artista, su questo fronte, non mi porrei particolari problemi. Perché credo che l’occupazione principale degli artisti sia quella di creare, a prescindere dalle condizioni in cui ci troviamo. Anche nei momenti di difficoltà estrema un artista può produrre grandi opere d’arte.
Sfruttare dunque l’occasione di un momento storico difficile per creare. Per concludere, quindi, visto che hai parlato di crisi culturale: a tuo avviso ci troviamo in un’epoca buona per l’arte e per la musica?
Essendo entusiasta di carattere, vivo la mia epoca con molto entusiasmo. Non ho mai demonizzato Spotify o strumenti simili, amo il vinile così come amo lo streaming, anzi: mi ritengo anche fortunato, perché posso avere sia il vinile sia lo streaming (che una volta non c’era). Secondo me, viviamo un’epoca di grande creatività e molto interessante, sia musicalmente sia per le arti visive: sono abbastanza convinto che l’arte e la creatività in realtà non vadano mai del tutto in crisi. È il contorno che è in crisi, ma l’artista fa arte sempre, un musicista può comporre una canzone anche se rimane l’ultimo uomo sulla terra, la creatività è innata nell’uomo, ed è questo quello che conta. La creatività è come il respiro: non possiamo farne a meno.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).