Col ritorno delle fiere d’arte in presenza si torna a discutere del panorama del mercato e della scena italiana. Tra i protagonisti degli ultimi tempi c’è sicuramente la Dep Art Gallery di Milano, tra le più attive anche durante la pandemia e pronta a presentarsi al pubblico con un nuovo programma e con mostre di qualità, in un mercato (quello italiano, ma anche quello internazionale) che sta cambiando. In che modo? Ne abbiamo parlato con Antonio Addamiano, direttore di Dep Art Gallery. L’intervista è a cura di Federico Giannini.
FG. Dep Art è appena tornata da MiArt: com’è andata la fiera?
AA. È andata bene, in quanto non ci aspettavamo una risposta di pubblico così numeroso e di così alta qualità. Ovviamente oggi le fiere rispecchiano un po’ il modo in cui il pubblico le approccia: mentre una volta si veniva in fiera già con l’idea di vendere, adesso l’idea è quella di presentare il programma della galleria, di far vedere nuovi lavori, i propri artisti, o di parlare di eventi futuri o delle mostre passate (e nel nostro caso dei cataloghi). Quindi non ci si aspetta più, sinceramente, di concludere la vendita in pochi minuti e in poche ore. Ma la fiera rimane comunque fondamentale per il contatto. Con il grande pubblico che c’è stato a MiArt, devo dire che il bilancio è positivo.
Come stanno cambiando le fiere d’arte contemporanea? Hanno ancora senso, o almeno come le abbiamo conosciute finora?
Sicuramente hanno senso sia per chi ha, come noi, un mercato primario, sia per quello secondario, perché le fiere rimangono ancora il primo luogo d’incontro per presentare i propri artisti e raccontarli non solo attraverso il prezzo, ma anche il loro linguaggio e la loro ricerca, oltre alla galleria stessa. Dall’altra parte serve anche ai galleristi che fanno mercato secondario, cioè acquistano e vendono, per far vedere dal vivo l’opera e discutere dal vivo le trattative avendo un’idea più completa del proprio interlocutore. Inoltre, le fiere sono importanti anche perché vendere online è molto difficile: riusciamo giusto a vendere l’artista del momento oppure l’artista più accessibile. Per tutto il resto la fiera e il lavoro di galleria sono fondamentali. Inoltre una fiera in città come MiArt è ancor più importante per tutte le gallerie di Milano, perché c’è molta più possibilità che il pubblico della fiera poi ti venga a trovare anche in galleria (noi per esempio questa settimana abbiamo più o meno un appuntamento al giorno).
Quanto invece al pubblico e ai collezionisti, dopo diciotto mesi di assenza di fiere, hanno cambiato il loro modo di avvicinarsi all’acquisto o anche al semplice incontro con l’opera proposta dalla galleria?
Ho notato principalmente (sarà anche perché mi sono spostato dalla zona moderna alla zona contemporanea) un cambio di fascia anagrafica: è diminuita quella tra i sessanta e gli ottant’anni, forse per problemi di rischio contagio, e c’è stata una nuova ventata di collezionisti tra i quaranta e sessant’anni, che spesso si sono avvicinati a questo mondo perché durante la pandemia si sono informati tramite internet, o perché hanno avuto tempo di coltivare una passione per l’arte. Questa è stata un po’ una sorpresa. In sostanza abbiamo visto una tipologia diversa di collezionisti, di una nuova generazione. Non so dire se sia stata creata dal lockdown, dallo stare a casa, dall’informarsi, dai numerosi articoli sull’arte come investimento, sull’arte e sul design o anche perché c’è stata una riscoperta della casa (molti, hanno avuto l’occasione di ristrutturare o comprare nuovi pezzi d’arredamento bellissimi e anche opere d’arte), ma tutti questi elementi hanno avuto un forte impatto. Si è poi avvertita sicuramente una crisi però non per tutti i settori dai quali provengono gli acquirenti, quindi l’arte, per fortuna, riesce sempre a salvarsi perché tra i clienti ci sono nicchie di persone che lavorano in ambienti che continuano a funzionare anche durante le crisi. Nel caso della pandemia, la farmaceutica, le banche e l’immobiliare sono stati tre settori molto forti in questi diciotto mesi, magari a discapito di tutti i clienti che avevamo dalla ristorazione e dalla moda, oppure dei notai, degli avvocati e dei dentisti. C’è stata dunque una mutazione nella composizione della clientela: si è registrato molto più interesse da parte di nuove categorie di lavoratori rispetto a quelle più tradizionali. Questo lo si percepisce facendo una fiera, perché su internet il cliente ti manda una richiesta e tu rispondi, senza conoscerne la professione. Dal vivo, i clienti raccontano chi sono e ci si rende conto di chi si ha davanti.
Per quanto riguarda la nazionalità è cambiato qualcosa? A MiArt si è visto un po’ di pubblico internazionale o è stato soprattutto un pubblico italiano?
C’è stato molto meno pubblico internazionale: se prima era al 70% italiano e al 30% straniero (composto principalmente da americani, asiatici ed europei) ora è il rapporto è 90-10. E il 10% erano svizzeri, tedeschi e qualche francese.
Può aver influito il fatto che la settimana dopo MiArt ci fosse Art Basel?
No, perché ad Art Basel (ci sono stato lunedì) ho avuto la stessa sensazione: molte persone che vengono da varie zone d’Europea, perché è ancora molto complicato muoversi dagli Stati Uniti o dall’Asia. Alla fine si è tutti ripartiti dal proprio paese e da quelli limitrofi. Poi in ogni Stato ci sono tantissimi eventi, quindi almeno quest’anno si è ben felici di visitare la propria fiera. C’è poi anche da dire che ogni fiera nazionale (sia essa italiana, inglese, francese, cinese, americana, svizzera) ha sempre un’offerta di artisti internazionali, non manca mai una visione cosmopolita. Il pubblico italiano può venire a Milano e avere un’ampia offerta. Molte nostre gallerie hanno diversi artisti stranieri, e non c’è più l’esigenza di andare all’estero per conoscerli. Anche questo è molto cambiato perché, anche solo dieci anni fa, a MiArt c’era una maggioranza di artisti italiani.
In Italia ci sono tre fiere principali (Artissima a Torino, MiArt a Milano e Arte Fiera a Bologna), naturalmente ognuna con la sua identità le sue specificità: è un vantaggio per il settore o può essere in qualche modo penalizzante?
È un vantaggio perché la scena è molto varia: ci sono tre fiere principali, due altre fiere nazionali più recenti e di qualità (quella di Verona, e quella di Roma che sta per nascere) e una decina di fiere che si rivolgono a un pubblico locale e di piccoli collezionisti. Come calendario, secondo me, è più che sufficiente. Le fiere locali danno visibilità alle piccole gallerie, anche perché il rapporto di spesa per le stesse è di 1:10. Per uno stand in una feria “piccola” si ha una spesa intorno ai 2.000 euro; in una fiera maggiore ne occorrono 20.000. Ho incontrato giovani sui vent’anni che volevano farsi le ossa: diciamo loro di non esporre nelle fiere locali? Io stesso ho iniziato così. Se sai “leggerle”, fiere del genere sono un’ottima scuola. Si hanno spese di partecipazione contenute, si incontrano i primi collezionisti (e anche i primi “furbetti” a volte) e ci si forma. Non si offre un’ampia visibilità ai propri artisti, perché esporre in una fiera secondaria crea opportunità minori, ma è vantaggioso per per un giovane che vuole fare esperienza. Le tre fiere di Torino, Milano e Bologna dànno una maggiore visibilità all’artista, e quindi servono sia all’artista sia alla galleria, perché sono appuntamenti imperdibili per collezionisti d’alto profilo e curatori affermati.
Quanto a Dep Art, dicevamo che in fiera ha sperimentato questo cambio di direzione dal moderno al contemporaneo. Perché questa scelta?
Perché volevo stare nell’area della fiera dove i colleghi si occupano di mercato primario, in cui il gallerista lavora a stretto contatto con l’artista o la sua fondazione. Nel moderno il profilo del cliente è più preparato, poiché si attiva una dinamica di arte come “investimento”: nel mio caso, i clienti avrebbero saputo che opere di Cruz-Diez o Biasi hanno valutazioni attorno ai 140-200.000 euro. In tal caso, nel cliente non c’è l’effetto sorpresa, perché consapevole della caratura degli artisti presenti in stand. Nel contemporaneo ci siamo trovati a spiegare chi fosse un maestro italiano come Biasi. Però ne è valsa la pena. E poi c’è un’altra considerazione da fare: nella sezione dedicata al moderno, sia De Bellis sia Rabottini non hanno mai fatto esporre opere recenti degli artisti, ma solo fino agli anni Novanta. Questo ci ha a lungo penalizzato con Wolfram Ullrich: pur essendo l’artista per noi più importante, che riscuote successo nelle fiere perché ha un fascino incredibile dal vivo, le opere degli anni Novanta non lo rappresentano appieno, si tratta di lavori ormai superati. Il cambiamento curatoriale avvenuto in questa edizione di MiArt 2021 mi ha permesso di esporre Ullrich con opere che testimoniano sia la sua evoluzione, dal 2000 a oggi, sia con opere appositamente studiate per la manifestazione.
Per una galleria d’arte contemporanea italiana quali sono le difficoltà maggiori oggi?
Sicuramente il regime di tassazione che abbiamo in Italia. Rispetto ad altri paesi, l’Italia agevola pochissimo le gallerie d’arte contemporanea, almeno sotto quattro punti di vista: IVA d’importazione, SIAE, IVA sulla vendita e Art Bonus. Nessuno di questi quattro elementi agevola in Italia l’arte contemporanea, ed è il motivo per cui tante gallerie hanno sede all’estero, dove bastano poche operazioni per accorgersi della convenienza. Immaginiamoci le opere dei “big” internazionali: pagare il 10% di importazione, anziché il 5% come in altri paesi, e aggiungere l’IVA al 22%, non rende gli italiani concorrenziali in un mercato globalizzato. L’Art Bonus è solo per musei e ristrutturazioni e quindi non aiuta neanche i giovani artisti. Queste sono le iniziative dell’Associazione Nazionale delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea verso il governo. Almeno concederne uno! Perché altrimenti non c’è futuro, ed è proprio un peccato. In Italia abbiamo una qualità di artisti elevatissima, forse tra le migliori al mondo. E spero che, prima o poi, il governo ci dia almeno un segnale. Non dico di risolvere tutti i quattro problemi che ho segnalato, ma almeno uno. Perché ci stiamo sempre più distanziando dalle realtà internazionali. Sono stato martedì scorso a Parigi: si vede proprio un’evoluzione completamente diversa, nelle proposte, nelle dimensioni di gallerie, nel numero dei dipendenti. Qui siamo salvati solo dalla capacità dei galleristi (ce ne sono tanti bravi!) e dalla grande qualità degli artisti. Abbiamo un incredibile potenziale inespresso, e non capisco perché le istituzioni non si rendono conto che basterebbe emulare i nostri vicini. Non ci si deve inventare qualcosa di nuovo. Anche sui fondi a sostegno delle residenze d’artista, dei premi, delle nuove generazioni, non si avverte un vero interesse nel sostenere tali proposte. Si è molto concentrati nel sostenere i musei - che va benissimo, perché abbiamo un’offerta museale unica al mondo - e per la maggior parte delle persone ha più senso finanziare Pompei o il Colosseo, piuttosto che il sistema dell’arte privato o giovanile. Però si sta perdendo una generazione dal potenziale incredibile. L’indotto che creano questi grandi luoghi pubblici di cultura non è messo in dubbio, ma quello di una grande galleria non è da meno. Noi galleristi siamo molto simili alla moda: potremmo arrivare a livelli altissimi, essere un settore capace di attirare visitatori dall’estero. Non parlo soltanto di acquirenti, ma di un pubblico che scopre e si innamora dell’Italia grazie alle gallerie d’arte contemporanea. Eppure pare che ai vertici ministeriali tutto ciò non interessi. Per non parlare della difficoltà dell’esportazione, che è l’unico punto su cui siamo d’accordo tra gallerie d’arte, case d’asta, filatelici, antiquari, gallerie di design. Sarebbe ora di rinnovare la legge sulle esportazioni, che attualmente limita la circolazione delle opere d’arte anche di non rilevanza storica. L’ambiente comincia a temere un crollo dei valori economici: se si passa dal vendere i propri artisti in tutto il mondo a concentrarsi esclusivamente sul mercato italiano, i prezzi automaticamente subiranno un calo, perché verrà meno la clientela internazionale, con la successiva svalutazione dell’opera sul mercato. Dal mio punto di vista, si deve porre l’accento su questo problema.
Dep Art come sta uscendo da questi diciotto mesi di blocco forzato?
Il focus è stato completare e implementare il reparto digitale con il materiale a disposizione degli ultimi dieci anni, rendendolo interattivo. Avevamo già una buona base grazie alle nostre piattaforme social (soprattutto Instagram, Facebook, e specialmente YouTube, dove eravamo già presenti), e abbiamo avuto modo di implementarle con l’inserimento in galleria di due tecnici (un videomaker e un montatore) e di altre due persone che si sono impegnate della traduzione del materiale, per renderlo il più internazionale possibile. Nel frattempo siamo andati avanti con un’ottima programmazione di galleria, abbiamo realizzato bellissime mostre e cataloghi, mentre ora siamo tornati all’interfaccia fieristica. Abbiamo avuto un calo degli introiti, che è però corrisposto a un crollo dei costi, perché in galleria le fiere occupavano il 70% delle spese annuali. Quindi abbiamo avuto un bilancio positivo, affiancato a una crescita del personale: c’è stato molto tempo per stare insieme, lavorare in team, e avere un importante sviluppo di contenuti. In realtà non è stato un periodo così negativo, per noi. Lo è stato maggiormente per gli artisti le cui opere necessitano di un contatto visivo: ovviamente non tutti gli artisti hanno gli stessi risultati sul web. Nel nostro caso Wolfram Ullrich, primo artista in termini di vendita in situazioni dirette, è calato in modo palpabile, potendosi riferire solo alla visione tramite piattaforme digitali.
Per concludere, che progetti avete nell’immediato?
A breve apriremo la mostra di Imi Knoebel, grandissimo artista internazionale che vive e lavora a Düsseldorf, assente a Milano da 30 anni, (l’ultima mostra era stata al PAC nel 1991). È con grande entusiasmo e onore che abbiamo avuto la possibilità di realizzare questo mio secondo sogno nel cassetto (il primo è stato Carlos Cruz-Diez due anni fa). La pandemia ha causato un periodo di stasi, dove molti importanti artisti internazionali (come Imi Knoebel) hanno subìto un inevitabile rallentamento, tale per cui è stato possibile sottoporgli la nostra mostra in galleria instaurando un proficuo e onesto dialogo. Il fatto che gli sia arrivata una mia proposta in un periodo difficile è stato da lui molto apprezzato: sono andato a Basilea per incontrarlo proprio perché volevamo anche capire quanto fosse contento di questo progetto, per creare un punto di incontro e lui ha manifestato la sua felicità e le sue convinzioni. Lavorare con una galleria giovane, che ha superato questo periodo e che può essere una delle gallerie del domani, è per lui motivo di forte interesse: aver curato in modo attento gli allestimenti e i cataloghi pubblicati, che accompagnano ogni mostra, ha avuto certo il suo peso. Quindi il 7 ottobre ripartiamo alla grande e non vediamo l’ora.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).