La scorsa settimana, in occasione del Natale di Roma, Italia Nostra ha lanciato un appello alle istituzioni per proteggere la Colonna Traiana e la Colonna di Marco Aurelio con teche di vetro per arrestare il processo di degrado che stanno subendo: l’appello è giunto a seguito della presentazione del volume Lectures on Trajan’s Column, dedicato alla Colonna Traiana e curato da Cinzia Conti, che ha dato la possibilità di conoscere gli esiti delle indagini e dei restauri avvenuti in circa trent’anni di attività. Tra quanti hanno lavorato sulla Colonna di Traiano è il restauratore Bruno Zanardi: abbiamo chiesto a lui la sua opinione sul tema.
SR. Oggi molto si parla di proteggere con teche di vetro i monumenti dei Fori Imperiali. In particolare la Colonna Traiana. Una protezione che si vuol realizzare perché, così si dice, l’inquinamento fa perdere ogni anno millimetri di marmo ai rilievi. Lei che la Traiana restaurato tra il 1985 e il 1993 cosa ne dice?
BZ. Le rispondo come potrebbe fare un qualsiasi specialista in comunicazione pubblicitaria. “Indicare come principale causa del degrado del patrimonio artistico all’aperto l’inquinamento è facile, non costa niente e sempre ti fa fare la parte dell’esperto”. Quel che spiega l’allarmismo di questi giorni. Resta comunque un fatto che la soluzione delle teche è l’unica che può dare risultati conservativi concreti e durabili. Si pensi alla perfetta funzione protettiva svolta dal padiglione realizzato nel 1938 dall’architetto Vittorio Ballio Morpurgo per contenere l’Ara Pacis. La stessa soluzione che oggi ancora più funziona grazie alla nuova teca con cui Richard Meier nel 2006 ha sostituito la prima. Non illudiamoci però che progettare e costruire una teca che protegga un monumento sia una cosa semplice. Si chiama l’architetto, gli si fa disegnare un piccolo edificio vetrato, lo si monta, poi il pubblico si divide ritualmente in chi lo dice brutto e chi lo dice bello, dopodiché ci si abitua a vederlo e tutto è finito.
Vale a dire?
La Colonna Traiana è parte integrante dell’area dei Fori Imperiali. Quindi il tema delle teche deve essere studiato cercando prima di stabilire con la massima esattezza quali siano oggi le interazioni conservative tra ambiente e pietre costitutive il monumento. Si tratta cioè di capire se l’attuale stato di conservazione dei marmi della Colonna sia un caso isolato o riguardi anche gli altri monumenti che si trovano nell’area dei Fori Imperiali. Più in particolare capire l’origine e il senso dei due misteri conservativi che gravano sui rilievi della Colonna. Quelli che invano avevo segnalato al mondo degli studi durante il restauro, quindi trent’anni fa, poi al Sindaco di Roma Marino, che mi aveva chiesto un parere non facendosi mai più sentire, infine all’attuale Soprintendente quando, un paio di anni fa, ho letto che voleva restaurare la Traiana.
Quali sono questi due misteri?
Uno è la presenza sull’intera Colonna, di sottili e più o meno frammentari strati di ossalato di calcio di colori che variano dal giallo oro, al rossiccio fino al nero. Strati peraltro presenti su quasi tutti i monumenti in pietra all’aperto, dai rilievi antelamici del Battistero di Parma, alla facciata del Duomo di Orvieto. Tanto che il primo a averli identificati come tali fu un celebre chimico svizzero, Justus von Liebig, chiamato a Londra nella metà dell’Ottocento dagli archeologi del British Museum per analizzare quelle che parevano essere tracce di una policromia originale presente nei Marmi Elgin di Fidia e che invece Liebig correttamente identificò come ossalato di calcio.
E perché questi strati danneggiano i marmi?
Perché si tratta di neoformazioni rigide e impermeabile che, quando sono rimaste continue, hanno conservato il rilievo antico perfettamente. Ma che dove si siano “rotte”, ed è un evento frequentissimo, divengono causa determinante delle perdite di modellato dei rilievi. Infatti l’acqua, sia meteorica che di condensa, si infiltra da quelle rotture sotto gli strati di ossalato e raggiunge il marmo. Dopodiché, quando l’irraggiamento solare scalda le superfici, l’acqua vuole evaporare ma ne viene impedita appunto da quegli strati impermeabili. Così che alla fine la tensione di vapore fa cadere sia lo strato di ossalato di calcio che lo strato di marmo sottostante. Un danno che insegna a essere molto prudenti con i restauri. Prudenti a mettere noi restauratori sui marmi degli strati artificiali di resine o di altre sostanze col rischio di creare loro gli stessi problemi provocati dagli strati di ossalato di calcio.
Mentre lei come è intervenuto sulla Traiana?
I rilievi della Traiana li abbiamo puliti con semplice acqua nebulizzata e, dopo, abbiamo accuratamente evitato di impregnarli di resine e quant’altra sostanza consolidante. Abbiamo cioè evitato di adottare una soluzione che funziona nel breve periodo, ma che in tempi lunghi può essere nefasta. Tenga però conto che noi lavoravamo assieme a un grande Soprintendente, Adriano La Regina, inoltre eravamo seguiti con molta attenzione da Giovanni Urbani e Salvatore Settis e sui ponteggi salivano molto spesso giovani studiosi come Giovanni Agosti e Vincenzo Farinella.
Lei però ha parlato di due misteri. Uno è la formazione degli strati di ossalato. L’altro?
Il secondo mistero viene dal fatto che la Colonna Traiana è l’unico monumento all’aperto – ripeto, all’aperto – a essere stato calcato più volte in epoca preindustriale.
Calcature realizzate da chi e quando?
La prima eseguita forse dal Primaticcio quando nel 1540 andò a Roma a fare calchi di sculture antiche per conto di Francesco I di Francia. Calchi di cui restano alcuni frammenti nella Pinacoteca Ambrosiana, che probabilmente vengono dalla collezione di Leone Leoni e che si pensa siano stati acquistati dal Cardinal Federigo. La seconda calcatura venne fatta eseguire da Colbert per conto di Luigi XIV nel 1667, la data è graffita sulla Colonna, una impresa di cui restano pochi e malconci frammenti conservati a Roma, all’Accademia di Francia. La terza e ultima è quella eseguita nel 1862 dai calcatori di Pio IX per conto di Napoleone III. Una replica dell’intera intera Colonna riprodotta in più esemplari di cui uno è al bellissimo e purtroppo poco o per nulla visitato Museo della Civiltà Romana all’Eur.
Quindi noi siamo in possesso di una rarissima documentazione al vero dello stato dei rilievi della Colonna in tempi in cui l’inquinamento a Roma era inesistente. Ma il mistero quale è?
Che quei calchi dimostrano in modo positivo come tutti i danni presenti sui rilievi in forma di alveolizzazioni, erosioni, perdite di modellato, caduta di parti, quelli che noi oggi attribuiamo allo “smog”, erano presenti nella Colonna secoli fa e in particolare nel 1862 quando il problema della Roma papale era l’avventi del liberalismo, non certamente l’inquinamento atmosferico. Ma non solo. I calchi dimostrano che quei danni hanno da allora avuto una progressione molto modesta rispetto all’oggi.
Un dato tecnico del tutto inaspettato e di grande interesse. Ma le teche cosa c’entrano in tutto questo?
Le teche entrano in questo problema nel senso che certamente possono e devono essere realizzate perché sono l’unico modo per salvaguardare la durata nel tempo dei monumenti all’aperto. Ma devono anche essere realizzate sulla base di studi che prima chiariscano e risolvano i meccanismi del degrado dei marmi, ad esempio quelli documentati nei calchi. Così che a partire da questi studi si produca un progetto scientificamente fondato per costruirle.
Infatti chiunque capisce che la realizzazione di quelle teche non è uno scherzo sia sul piano tecnologico che estetico e culturale.
Proprio così. Si pensi alla necessità di ridurre l’effetto serra creato dai vetri, al controllo del moto delle polveri interno alla teca o al monitorare con una intelligenza artificiale la velocità dell’inevitabile evoluzione del deperimento dei rilievi e così via. Ma anche si pensi alla funzione che le teche avrebbero nel regolare l’afflusso dei visitatori che certamente non potrebbero più essere le folle che oggi umiliano e corrodono i nostri musei e le nostre “città d’arte” nel nome di un’economia della cultura invasiva e fragile, oltre che molto probabilmente destinata a non durare. Quella delle “grandi navi”, delle file dei turisti che comprano panini venduti per strada, dei centri storici delle nostre città divenuti stanze d’affitto o dei sensi unici pedonali che hanno dovuto fare delle Cinque Terre per consentire il flusso della gente lungo i sentieri sterrati.
Mentre sul piano culturale?
Su quel piano si dovrebbe invece affrontare una sfida di straordinario interesse e difficoltà. Dimostrare che è possibile modificare, con la qualità progettuale e tecnologica dell’oggi, il meraviglioso paesaggio storico dei Fori Imperiali. Una sfida che solo dei grandi architetti potrebbero combattere.
Ad esempio chi?
In Italia, penso a Michele De Lucchi, ma anche (forse) a Stefano Boeri, che dovrebbero però lavorare con una committenza che li segua in modo colto e intelligente, merce sempre più rara nell’Italia dei beni culturali d’oggi. Per la sedicente economia della cultura basterebbe invece un po’ di buon senso. Mentre per la parte tecnica del problema, saremmo perfettamente in grado di affrontarla se si potesse far fede in un Istituto centrale del restauro (Icr) deputato alla ricerca scientifica, all’innovazione tecnologica e alla formazione degli addetti, quindi soprintendenti, professori, restauratori, esperti scientifici, eccetera. L’Icr di Brandi, Rotondi e Urbani. L’Icr finalizzato alla conservazione preventiva e programmata del patrimonio in rapporto all’ambiente. L’Icr che è stato per mezzo secolo indiscusso punto di riferimento nel mondo circa restauro, conservazione e tutela, ma che si è insensatamente depotenziato fino a averlo reso una soprintendenza qualsiasi.
Ma oggi l’Università forma restauratori, esperti scientifici, soprintendenti, professori, eccetera.
Certamente. Ma lo fa fuori da una qualsiasi politica di tutela che dia alla formazione di quei laureati un senso rispetto ai due problemi essenziali che da sempre aleggiano, irrisolti, su conservazione, restauro e tutela. Uno, rispondere al quesito essenziale di quale sia il senso della presenza del passato nel mondo d’oggi. L’altro, fare del restauro una azione eminentemente preventiva e finalmente misurata sulle concrete esigenze conservative che il patrimonio ha nel suo insieme e nel rapporto di quell’insieme con l’ambiente. Dove parlare di ambiente significa misurarsi con un paese sempre più spopolato, specie negli appennini e nelle montagne, mentre vedere nel patrimonio un insieme impone di operare sulla base di un catalogo di cui va ricordato che un paio di anni fa la direttrice dell’Istituto centrale del catalogo ha scritto che le disfunzioni e le lacune del catalogo nazionale fondato nel 1975, cioè mezzo secolo fa, vengono “dalla sua frammentarietà, disomogeneità e scarsa visibilità”.
Altri problemi per le teche?
Se mi consente rispondo alla sua domanda con una citazione da un testo di Giovanni Urbani del 1981. Un testo in cui, sempre mezzo secolo fa, ci diceva cosa si debba intendere per economia della cultura e per politica di tutela. Ma un dire del tutto inascoltato: “Restando in tema d’economia, un’ultima considerazione può forse farci intravedere come il corretto uso delle nostre risorse storico-ambientali, oltre che sul piano interno, potrebbe farci acquisire consistenti vantaggi anche su quello internazionale. Naturalmente non penso che sia culturalmente decente pretendere che i conti dei nostri interessi tornino con le entrate turistiche. Ma se questo paese avesse una visione minimamente colta dell’attuale stato del mondo, dovrebbe accorgersi che condivide con alcuni dei maggiori paesi terzi la sorte di avere un ambiente in cui la componente storico culturale ha eccezionale rilievo […]. Così che quando, sotto la pressione di fattori storici e socio-economici certamente diversi dai nostri, questi paesi esteri dovranno comunque fronteggiare problemi analoghi ai nostri nella scelta di politiche di sviluppo che non sacrifichino il loro ambiente storico-naturale, non sembra irrealistico pensare che, tra tutte le nazioni occidentali, la nostra sarebbe la più attrezzata a indicare come la preservazione del passato possa assicurare, secondo il detto di Platone, la salvezza di tutto ciò che esiste. [Cioè consapevoli] che le testimonianze materiali di queste tradizioni vanno incontro a una rovina non contrastabile che con ben mirate innovazioni tecnologiche”.
La tua lettura settimanale su tutto il mondo dell'arte
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autrice di questo articolo: Simona Rinaldi
Simona Rinaldi è professoressa associata di Teoria del Restauro all'Università della Tuscia di Viterbo.