Cagli, nelle Marche, è una delle città d’arte italiane dette “minori”, ma che tali non sono. È infatti una città bellissima, resa tale anche dal riassetto urbano e dal restauro, cioè dalla valorizzazione, realizzata negli scorsi anni dall’allora vicesindaco Alberto Mazzacchera che tracciò una rotta seguita dall’intero suo Consiglio Comunale. Valorizzare il suo contesto storico. Valorizzare l’importanza dei tanti capolavori, maggiori e minori, che Cagli possiede. Dall’impianto urbanistico antico romano di cui restano in particolare le rovine del Ponte Mallio, alla porta seicentesca capolavoro di forza, grazia e solennità da cui si entra nella città rifondata nel 1289 da Papa Nicolò IV forse su progetto di Arnolfo di Cambio, al duecentesco Palazzo Pubblico la cui grande facciata domina la grande e elegante piazza che ha al suo fianco il Duomo la cui costruzione venne iniziata alla fine del Duecento, la Chiesa di San Francesco con gli affreschi trecenteschi dell’abside, il Torrione di Francesco di Giorgio Martini che domina sulla cittadina dall’ultimo quarto del Quattrocento, la cappella Tiranni affrescata intorno al 1490 nella chiesa di San Domenico da Giovanni Santi, il padre di Raffaello, l’Oratorio di Sant’Angelo Minore in cui si conserva il Noli me tangere di Timoteo Viti, un dipinto bellissimo che è anche un raro esempio di un’opera ancora nel luogo per cui era stato concepito attorno al primo decennio del ‘500, i molti bassorilievi in stucco lasciati a metà Cinquecento nelle chiese e nei palazzi della città da Federico Brandani, stucchi che possono stare tranquillamente alla pari, per qualità e eleganza, con quelli realizzati negli stessi anni da Primaticcio al Castello di Fontainebleau per Francesco I di Francia, ma anche le tele del Lapis, bellissimo pittore classicista settecentesco studiato da Benedetta Montevecchi e Stella Rudolph, che sull’altare della chiesa del convento di San Nicolò ha lasciato una grande tela con la Madonna del Rosario e San Domenico. Capolavori, questi appena detti, meravigliosi alla vista e al cuore, ma che anche creano una importante economia locale. Che non è solo l’economia delle storiche aziende vinicole, i Mochi e i Fiorini ad esempio, ma anche quella indotta dalla alta qualità della vita di chi ha la fortuna di abitare in questi luoghi cosiddetti minori ma che tali non sono; ad esempio, Cagli ha un teatro perfettamente tenuto e funzionante con belle stagioni di prosa e di musica. Ed è un tema, l’alta qualità della vita nei luoghi sul territorio, di cui poco si parla, ma che credo dovrebbe invece essere di interesse nazionale, ancor più nei tempi perigliosi e difficili in cui si vive nelle grandi città.
Così che per chiunque abbia a cuore il patrimonio artistico e la bellezza del territorio dolorosa è la notizia che pare si voglia vendere il grande Convento trecentesco di San Niccolò nel centro di Cagli, poi divenuto nei secoli convento di clausura di monache benedettine. Un enorme blocco di edifici monumentali dove oggi vivono solo quattro suore, ma che è autosufficiente sul piano economico grazie a una serie di affitti degli spazi non dedicati al culto. Dove facile è prevedere che quella vendita finisca per rendere il Convento un albergo. Magari destinato agli “affitti brevi”, quelli oggi divenuti una peste dei centri storici delle nostre città d’arte. Una peste perché favoriscono la cannibalizzazione di musei, monumenti e paesaggi. Il turismo che sta devastando Venezia, Firenze, Roma o Napoli, mentre alle Cinque Terre si sono dovuti fare dei sensi unici pedonali alternati per far camminare tra Porto Venere e Manarola le folle che scendono ogni giorno dalle “grandi navi”. Una peste che sarebbe meglio non colpisse anche Cagli.
Che fare allora per il grande convento cagliese? Per prima cosa prendere atto che questa vicenda ribadisce il semplice fatto che a rendere unico al mondo il nostro patrimonio storico e artistico è la sua infinita e plurimillenaria stratificazione nell’ambiente: restando a Cagli, si parte dal ponte antico romano, poi il Convento di San Nicolò, il Palazzo Pubblico, Sant’Angelo Minore, la Cappella Tiranni, gli stucchi del Brandani, le tele del Lapis, il Teatro e quant’altro. Dopodiché si dovrebbe ripensare a quanto diceva nel 1998 monsignor Giancarlo Santi, in quel momento responsabile dell’Ufficio beni culturali della Cei. La risposta che mi diede quando gli chiesi quali potevano essere, a suo parere, le strade per uscire dall’assenza di progettualità con cui veniva (viene) condotta l’azione di tutela del patrimonio: e la scelta di vendere un enorme Convento nel centro di Cagli senza avere prima in testa un progetto per la città mi pare sia tale.
In ogni caso uno degli argomenti allora toccati da Monsignor Santi era l’essere rimasti in molti casi difficili i rapporti tra la Chiesa e le figure delegate da Stato, Regioni e Comuni alla tutela. Rapporti che divenivano ancora più difficili, nel momento in cui ci si misurava con il concreto operare rispetto a variazioni d’uso, restauri, riarredi e quant’altro dell’infinito e spesso meraviglioso e prezioso patrimonio minore ecclesiastico. Un problema con radici lontane, diceva sempre monsignor Santi. A cominciare dai parroci, a proposito dei quali la prima osservazione da fare è che, di fatto, la componente storico-artistica è quasi del tutto assente dalla loro formazione. E ciò per ragioni storiche. Quelle originate nella seconda metà del ‘700 quando la Chiesa ha deciso di misurarsi con il pensiero illuminista, mettendo tra parentesi l’esperienza spirituale della vita dell’uomo per dare il massimo rilievo alla sua dimensione razionale. La storia dei gesuiti è su questo punto esemplare, sempre nelle parole di monsignor Santi. La Compagnia di Gesù, dal momento della sua fondazione, nel 1540, a quello della sua soppressione, nel 1773, coltivò con grande intensità ogni forma di arte, si pensi al meraviglioso altare in alabastro antico e lapislazzuli di Sant’Ignazio alla chiesa del Gesù, a Roma. Mentre dopo la sua ricostituzione, nel 1814, ha praticamente accantonato ogni interesse artistico, né si è più impegnata a riflettere e a insegnare sull’argomento. Ha cioè smesso di essere quel grande committente artistico che era stata nei secoli precedenti. Un radicale cambiamento d’impostazione che ha provocato il progressivo declinare della fierezza e dell’ambizione e della capacità di produrre bellezza con cui la Chiesa si era espressa per secoli in campo artistico.
Ciò che ha lasciato il passo a soprintendenti e funzionari formati nell’ambito d’una cultura storico-artistica completamente secolarizzata e spesso senza radici, ad esempio quella dei figli cadetti della nobiltà, secondo un’impostazione sviluppata nell’ultimo secolo dal mondo universitario italiano e passata tal quale in quello delle istituzioni. Una cultura per la quale i significati religiosi dei manufatti artistici sono solo componenti secondarie, spurie e non rilevanti. Ed è questa la ragione principale delle forti difficoltà dei loro vicendevoli rapporti. Difficoltà peraltro inevitabili quando persone che vivono il patrimonio artistico in chiave essenzialmente celebrativa e liturgica, si mettono a confronto con i rappresentanti di un mondo accademico e istituzionale il quale non conosce o sottovaluta gli strettissimi rapporti che intercorrono tra opere d’arte e liturgia. Sottovaluta cioè il “perché non possiamo non dirci cristiani” di Benedetto Croce, per ripetere il titolo di un breve, ma assai importante saggio del filosofo napoletano di cui mai si parla, sbagliando. E la vicenda della vendita del Convento di San Niccolò ne è una delle tante manifestazioni. Ancor più se davvero, come già si è detto, se ne volesse fare un albergo per affitti brevi.
Se poi vero è che le sole quattro suore di San Niccolò hanno trovato forza di numeri nelle consorelle di un paese toscano, Marradi, il cui convento è stato inopinatamente chiuso e che volentieri andrebbero a Cagli, resta il fatto che questa vicenda ci porta dentro a un sempre più grave problema che interessa l’Italia intera e tuttavia poco o per nulla all’onore delle cronache. L’abbandono delle campagne e, soprattutto, degli Appennini ormai semidisabitati e poco o per niente coltivati, per cui sempre più esposti a frane, inondazioni e altre calamità naturali. Un solo esempio. Tempo fa mi raccontava l’amico Fulvio Porena, bibliotecario comunale di Cascia, che quel territorio ha oggi una densità abitativa di 2,1 abitanti per km quadrato. La stessa della Mongolia. Uno spopolamento di cui è prova l’impressionante numero di chiese, oratori e case in disfacimento di cui è colmo il territorio non solo di Cascia e dintorni, ma dell’intera Italia. Come opporsi ai danni provocati dalla cessazione del controllo ambientale, quindi dello stato degli alvei dei torrenti, dei boschi e del sottobosco, degli inizi di frane? Come intervenire nelle molte decine di migliaia di edifici con i tetti squarciati, a chiudere le porte sfondate delle chiese dove una serie di dementi vanno di notte a fare “messe nere” e vandalismi d’ogni genere?
Due domande che trovano risposta nel dire che qualsiasi ipotesi di tutela del patrimonio artistico dovrebbe in primo luogo essere confrontata e condivisa con chiunque ne abbia titolo di interesse. A partire dallo Stato, ma certamente non dimenticando la Chiesa, i proprietari privati e le Associazioni come il Fai o Italia Nostra. Il che significa che tutti questi soggetti dovrebbero operare in stretta collaborazione. Non mai dimenticando che molte delle sciagure ambientali quali frane, inondazioni e per certi versi i terremoti, null’altro sono se non la giusta vendetta della natura per lo stato di abbandono in cui viene lasciata, ma anche per la sempre peggiore gestione amministrativa del territorio, la libera cementificazione dei suoli, ad es., e ancor più la mancata prevenzione dai rischi ambientali, sismico e idrogeologico in primis.
Né diciamo che non molto diverso comincia a essere il problema delle chiese dei centri storici delle città che sono in un numero sempre maggiore poco o per niente frequentate dai fedeli, e che vengono perciò aperte poche ore al giorno, quando non le si tenga direttamente chiuse. Ciò che comporta una assenza di custodia che anche coincide con la scomparsa o quasi di chi svolge quell’opera di piccola manutenzione, pulire i pavimenti, togliere la polvere dagli altari, sostituire il vetro rotto d’una finestra, chiamare il muratore se si smuove una tegola dal tetto e così via. Un’assenza di custodia che ha dato il via a una serie continua di danni conservativi e a uno stillicidio di furti. Ed è una situazione destinata a non migliorare. Il numero di nuovi preti e suore non riesce infatti nel modo più assoluto a consentire un ricambio alla pari del clero secolare e dei religiosi, la cui l’età media sta salendo in modo inesorabile. Tanto da prevedere, come mi diceva di muovo monsignor Santi, che nell’arco dei prossimi dieci o quindici anni ci sarà in Italia una riduzione complessiva di religiosi, religiose e sacerdoti grosso modo di un quarto. Una cifra percentuale enorme.
Ma ancora non da meno è il problema che una corretta gestione dei beni culturali richiede personale qualificato. Infatti, in caso contrario, ne possono venire veri e propri disastri. E la minaccia fatta alla sopravvivenza del convento di San Nicolò ne è un esempio. Per cui, se da un certo punto di vista la prospettiva di una stretta collaborazione tra Stato, Chiesa e privati proprietari circa la conservazione del patrimonio si presenta come la sola soluzione del problema, è anche vero che di fronte a soprintendenze autoritarie e amministrazioni locali spesso impreparate alla bisogna, a organismi che fanno coincidere la tutela con i vincoli, questi ultimi certamente necessari, ma solo quando posti dentro a una organica e razionale e condivisa politica di conservazione programmata e preventiva, del patrimonio in rapporto all’ambiente, ancora più alto diviene il rischio che si peggiori fino al non ritorno una situazione già adesso difficilissima. Ad esempio che si trasformino in alberghi conventi in cui sopravvivono solo piccoli numeri di religiosi e di suore.
In conclusione alcune immagini che devo alla cortesia di Lorena Pacelli e documentano lo stato di rovina di alcune chiese e monumenti nella provincia di Campobasso.