Con l’inizio della guerra in Ucraina e tutte le tristi e devastanti conseguenze che il conflitto comporterà, prima tra tutte l’angosciante perdita di vite umane, i professionisti della cultura si interrogano sulla sorte dell’ingente patrimonio culturale ucraino, che come in ogni teatro di guerra rischia di subire perdite, distruzioni e saccheggi. A rischio non ci sono soltanto i Patrimonio Mondiali dell’Umanità dell’UNESCO, ma anche le ricche collezioni dei tanti musei del paese (solo nella capitale Kiev ci sono una quarantina di musei), oltre a spettacolari chiese cattoliche e ortodosse, monasteri millenari, teatri ottocenteschi, palazzi neoclassici, ricche biblioteche e archivi dove è conservata la storia del paese, centri storici secolari. I pericoli sono molti: si va dai danni causati da bombe e missili alle spoliazioni passando per le distruzioni sistematiche. Si tratta di uno scenario che si sta cercando di scongiurare con forza: al momento non giungono ancora notizie di danneggiamenti al patrimonio storico e culturale.
Molti musei si sono preparati per tempo al fine di salvare il salvabile: gli istituti sono al lavoro da diversi giorni per mettere le collezioni al sicuro, temendo il conflitto che è poi arrivato. A Kiev, il direttore del Museo Nazionale dell’Ucraina, Fedir Androshchuk, in una lunga conversazione con il collega Joakim Malmström, membro del consiglio svedese per il Patrimonio Culturale Nazionale, ha fatto sapere che lo staff del museo sta lavorando per proteggere la raccolta del museo: alla domanda su cosa sia possibile fare da fuori per sostenere il museo, Androshchuk ha risposto affermando che “la cosa più importante è garantire che vi sia una consapevolezza dell’importanza del patrimonio culturale e una comprensione di come ora rischi di essere danneggiato”. La preoccupazione infatti è che i musei subiscano danni durante gli attacchi aerei. Insomma: dall’Ucraina la richiesta al mondo è quella di tenere alta l’attenzione anche sulla situazione del suo patrimonio culturale.
Ancora, a Odessa, lo scorso 17 febbraio, in un post sul suo profilo Facebook, Oleksandra Kovalchuk, vicedirettrice del Museo di Belle Arti di Odessa, ha scritto cosa stava facendo l’istituto. “Abbiamo controllato i sistemi di sicurezza nel museo e abbiamo colmato tutte le lacune che abbiamo notato”, scriveva, ringraziando la polizia “per la sua attenzione al museo e la sua responsabilità per la sicurezza delle persone e della collezione”. Kovalchuk ha poi rivelato alcuni dettagli al New York Times: in pratica, lo staff del museo sta nascondendo gli oggetti delle raccolte, rinforzando la sicurezza, proteggendo l’edificio con filo spinato. Diverse anche le azioni simboliche intraprese prima dello scoppio del conflitto: “Per tutta la settimana”, scriveva sempre Kovalchuk nel suo post, “abbiamo discusso di come il museo può mostrare preoccupazione e attenzione per la nostra comunità in un momento in cui stiamo vivendo una significativa pressione psicologica, ansia e incertezza sul futuro”. Ancora, “almeno fino alla fine di febbraio, avremo una bandiera nazionale permanente all’ingresso. Forse qualcuno ora pensa che i musei o l’arte dovrebbero essere fuori dalla politica. Con tutta la competenza che ho, voglio assicurarvi che non è così. Nel corso della storia, l’arte è stata ed è ancora una parte della politica che è indissolubilmente legata alla vita pubblica”. Infine, domenica scorsa, 20 febbraio, era stata organizzata una giornata di visite gratuite poiché “esistono studi scientifici che dimostrano che visitare un museo aiuta a combattere lo stress e ha un effetto calmante sul sistema nervoso”. L’invito era dunque quello di visitare il museo, cosa adesso non più possibile ovviamente, perché la legge marziale imposta dal presidente Volodymyr Zelenskyj ha comportato la chiusura di tutti i musei del paese.
Sempre il New York Times ha sentito Ihor Poshyvailo, direttore del Museo della Libertà di Kiev, fondato nel 2014, sede di una raccolta di circa 4.000 oggetti legati alle lotte dell’Ucraina per la libertà, tra opere d’arte e cimeli. “Avevamo piani su cosa fare in vista di una guerra”, ha dichiarato Poshyvailo, “ma adesso è guerra, la situazione è completamente cambiata”. Il museo sta dunque trasferendo gli oggetti delle collezioni nei depositi, ma non si sa né che cosa né come perché, per ovvie ragioni di sicurezza, Poshyvailo non ha fornito al quotidiano statunitense ulteriori dettagli. Inoltre, si è simbolicamente rifiutato di dare colpe al governo ucraino: “non è il nostro governo che ha fatto questo, bensì Putin”, ha dichiarato. E ancora, parte delle collezioni del Museo della Scuola di Fotografia di Kharkiv, ha detto il direttore Sergyj Lebedynskyj, è stata trasferita in Germania già tempo fa mentre il museo era in ristrutturazione, e si pianifica di evacuare il resto degli oggetti in settimana.
Ma quali strumenti ha la comunità internazionale per salvare il patrimonio culturale dell’Ucraina? In linea teorica, le bombe di entrambe le parti sono tenute a risparmiare il patrimonio culturale poiché sia la Russia sia l’Ucraina sono paesi firmatari della Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, trattato firmato nel 1954 all’Aia (e quindi nota anche come “Convenzione dell’Aia”) e famoso anche in quanto contiene la prima occorrenza dell’espressione “beni culturali”. Il trattato, il cui testo è disponibile anche sul sito del nostro Ministero della Cultura e che include due protocolli (l’ultimo aggiornamento è del 1999), impone ai paesi che lo hanno sottoscritto di astenersi dall’utilizzazione dei beni culturali, dei loro dispositivi di protezione e delle loro immediate vicinanze, per scopi che potrebbero esporli a distruzione o a deterioramento in casi di conflitto armato e da ogni atto di ostilità, vandalismo o rappresaglia a loro riguardo, e poi ancora disciplina la materia in caso di occupazione totale o parziale del territorio di altri Stati membri, imponendo l’appoggio dell’azione delle autorità nazionali competenti e l’adozione dei provvedimenti conservativi necessari, in stretta collaborazione con tali autorità, predispone personale tra le forze armate specificamente dedicato alla protezione del patrimonio, istituisce un regime di “protezione speciale” per un numero limitato di rifugi destinati a proteggere beni culturali mobili in caso di confitto armato, centri monumentali ed altri beni culturali. I beni sotto protezione sono considerati immuni da ogni atto di ostilità e uso per fini militari. La convenzione prevede inoltre la possibilità di sospensione dell’immunità in caso di violazione degli impegni da parte del paese membro e ne disciplina le modalità.
Più nello specifico, si legge all’articolo 4 che “le Alte Parti Contraenti s’impegnano a rispettare i beni culturali, situati sia sul loro proprio territorio, che su quello delle Alte Parti Contraenti, astenendosi dall’utilizzazione di tali beni, dei loro dispositivi di protezione e delle loro immediate vicinanze, per scopi che potrebbero esporli a distruzione o a deterioramento in casi di conflitto armato, ed astenendosi da ogni atto di ostilità a loro riguardo”. Lo stesso articolo dispone divieti di saccheggio, prevedendo che le parti contraenti si impegnino “a proibire, a prevenire e, occorrendo, a far cessare qualsiasi atto di furto, di saccheggio o di sottrazione di beni culturali sotto qualsiasi forma, nonché qualsiasi atto di vandalismo nei riguardi di detti beni. Essi si impegnano ad astenersi dal requisire i beni culturali mobili situati nel territorio di un’altra Alta Parte Contraente”.
In caso di occupazione, la Convenzione dell’Aia prevede che le forze occupanti siano tenute “ad appoggiare, nella misura del possibile, l’azione delle autorità nazionali competenti del territorio occupato, intesa ad assicurare la salvaguardia e la conservazione dei propri beni culturali”. Qualora si ponga un intervento urgente per la conservazione di beni culturali situati nel territorio occupato e danneggiati da operazioni militari e le autorità nazionali siano impossibilitate a occuparsene, spetta all’occupante mettere in atto per quanto possibile i provvedimenti più necessari. Ancora, l’articolo 15 impone il rispetto del personale addetto alla protezione dei beni culturali.
Esiste poi il Blue Shield, l’equivalente della Croce Rossa per i beni culturali, una rete di comitati e individui che in tutto il mondo si dedicano, si legge nello statuto, a “impegnarsi nella protezione dei beni culturali del mondo, e a occuparsi della protezione del patrimonio culturale e naturale, materiale e immateriale, in caso di conflitto armato, disastri naturali o causati dall’uomo”. La rete Blue Shield, istituita nel 1996, è organo consultivo del Comitato per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato e può operare per proteggere i beni culturali minacciati e preparare gli istituti al rischio e rispondere alle emergenze disponendo missioni di esperti da inviare negli scenari di conflitti armati per fornire assistenza.
Ci sono poi i documenti delle organizzazioni internazionali che offrono consigli pratici e linee d’azione alle autorità che si trovano costrette a dover gestire situazioni di protezione dei beni culturali in caso di guerra. Uno di questi è il libro Patrimonio culturale a rischio: evacuazione in emergenza delle collezioni, pubblicato nel 2021 da Unesco e ICOM - International Council of Museums, disponibile anche in italiano, e che in 57 pagine offre molte linee guida pratiche. Il documento prescrive di mettere in salvo una collezione quando la minaccia è reale, quando le misure non sono sufficienti a prevenire i danni, quando sono disponibili luoghi più sicuri dove conservare la raccolta, se si ha forza lavoro sufficiente e risorse per riposizionare la collezione. Nel documento anche alcuni consigli su come bloccare o limitare al massimo la minaccia (per esempio saccheggiatori armati): aumentare il personale addetto alla sicurezza, mettere in opere barriere in cemento per bloccare le intrusioni, e in ultima istanza evacuare il personale e le collezioni. Fondamentale in casi come questi è la preparazione: individuare un deposito sicuro, rilasciare i permessi necessari, radunare una squadra competente, fare ricognizioni inventariali d’emergenza del materiale da evacuare, mettere a disposizione le risorse necessarie, individuare un’area di lavoro e trasportare il tutto in sicurezza.
Nelle scorse ore, proprio l’Unesco ha pubblicato una nota per chiedere “il rispetto del diritto internazionale umanitario, in particolare la Convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato e i suoi due Protocolli (1954 e 1999), per garantire la prevenzione dei danni al patrimonio culturale in tutte le sue forme. Ciò include anche gli obblighi ai sensi della risoluzione 2222 (2015) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sulla protezione dei giornalisti, dei professionisti dei media e del personale associato in situazioni di conflitto, di promuovere media liberi, indipendenti e imparziali come uno dei fondamenti essenziali di una società democratica, e che possono contribuire alla protezione dei civili. L’Unesco chiede anche la moderazione da attacchi o danni a bambini, insegnanti, personale educativo o scuole e che il diritto all’istruzione sia sostenuto”.