Tra scienza e leggenda, l'esperimento di Galileo dalla Torre di Pisa


Secondo la tradizione, lo scienziato pisano avrebbe gettato dalla cima del celebra campanile pendente due pesi per dimostrare la sua teoria, in quello che è noto come “esperimento dei gravi”.

Il campanile della Cattedrale primaziale di Santa Maria Assunta a Pisa, universalmente noto come la Torre pendente, è il simbolo della città e dell’Italia in genere, la sua fama è sconfinata, e si vuole che sia stato anche celebre palcoscenico e laboratorio di un’importante sperimentazione dello scienziato pisano Galileo Galilei.

Si tratta dell’esperimento dei gravi o della caduta dei gravi, su cui ancora oggi si dibatte se sia stato realmente svolto, o piuttosto si attesti come una mera speculazione mentale. L’esperimento prendeva le mosse da una teorizzazione di Aristotele, il filosofo che nell’Atene del IV secolo a.C. aveva formulato spiegazioni a numerosi fenomeni fisici; tra questi, una delle sue proposizioni fondamentali era che non esisteva effetto senza causa, e per estensione non esiste quindi movimento senza una forza che lo agiti. Aristotele sosteneva che la velocità di un oggetto è proporzionale alla forza motrice e inversamente proporzionale alla resistenza del mezzo.

Applicando queste idee ai corpi in caduta, il filosofo finì per concludere che corpi differenti cadono a velocità differenti, e più in particolare, maggiore è il peso, maggiore sarà la velocità di caduta. Si tratta di un’affermazione coerente col fenomeno realmente osservato, e rimase convinzione per un lunghissimo lasso di tempo, e ancora oggi gode di grande fortuna.

Ma di fatto era una teoria errata che fu criticata a più riprese, già nel VI d.C. dal filosofo bizantino Giovanni Filopono, e poi con maggior vemenza nel XVI e XVII secolo, quando la scienza del movimento diveniva sempre più avanzata. Già l’intellettuale Benedetto Varchi aveva messo in dubbio l’idea aristotelica nel 1544 allorché pubblica il suo trattato Questione sull’alchimia: “[...] sebbene il costume dei filosofi moderni è di creder sempre, e non provar mai tutto quello, che si trova scritto ne’ buoni autori, e massimamente in Aristotile, non è però, che non fusse e più sicuro, e più dilettevole fare altramenti, e discendere qualche volta alla sperienza in alcune cose, come verbi gratia nel movimento delle cose gravi, nella qual cosa e Aristotile, e tutti li altri Filosofi senza mai dubitarne hanno creduto, et affermato che quanto una cosa sia più grave, tanto più tosto discenda, il che la prova dimostra non esser vero. [...]”.

Justus Suttermans, Ritratto di Galileo Galilei (1635; olio su tela, 56 x 48 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, inv. 1890 n. 745)
Justus Suttermans, Ritratto di Galileo Galilei (1635; olio su tela, 56 x 48 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, inv. 1890 n. 745)

Bisogna però aspettare Galileo Galilei per vedere definitivamente confutare la visione aristotelica. L’allora giovane scienziato ricoprì tra il 1589 e il 1592 presso l’Università della sua città la cattedra in matematica e da insegnante mostrò subito il suo approccio pedagogico contrario ai dogmi: “Il metodo che seguiremo sarà quello di far dipendere quel che si dice da quel che si è detto, senza mai supporre come vero quello che si deve spiegare. Questo metodo me l’hanno insegnato i miei matematici, mentre non è abbastanza osservato da certi filosofi quando insegnano elementi fisici... Per conseguenza quelli che imparano, non sanno mai le cose dalle loro cause, ma le credono solamente per fede, cioè perché le ha dette Aristotele. Se poi sarà vero quello che ha detto Aristotele, sono pochi quelli che indagano; basta loro essere ritenuti più dotti perché hanno per le mani maggior numero di testi aristotelici [...] che una tesi sia contraria all’opinione di molti, non m’importa affatto, purché corrisponda alla esperienza e alla ragione.”

Ed è proprio durante il suo periodo pisano che Galilei compose il De motu antiquiora. Nel testo, che rimarrà in forma di manoscritto per molto tempo, e sarà dato alle stampe solo nel XIX secolo, Galilei mette insieme le sue lezioni che hanno per tema il problema sul movimento, iniziando a dar corpo alle sue formulazioni sulla teoria dei gravi. Ancora oggi si dibatte se sia stato solo un esercizio mentale o se, come si racconta, abbia realmente provato a sperimentarlo prendendo a laboratorio la Torre di Pisa.

Ad alimentare la tesi dell’esperimento fu Vincenzo Viviani, il suo discepolo prediletto e biografo che ne scrive nell’opera Racconto istorico della vita di Galileo Galilei: “et allora, con gran sconcerto di tutti i filosofi, furono da esso convinte di falsità, per mezzo d’esperienze e con salde dimostrazioni e discorsi, moltissime conclusioni dell’istesso Aristotele intorno alla materia del moto, sin a quel tempo state tenute per chiarissime et indubitabili; come, tra l’altre, che le velocità de’ mobili dell’istessa materia, disegualmente gravi, movendosi per un istesso mezzo, non conservano altrimenti la proporzione delle gravità loro, assegnatagli da Aristotele, anzi che si muovon tutti con pari velocità, dimostrando ciò con  replicate esperienze, fatte dall’altezza del Campanile di Pisa con l’intervento delli altri lettori e filosofi e di tutta la scolaresca; e che né  meno le velocità di un istesso mobile per diversi mezzi ritengono la proporzion reciproca delle resistenze o densità de’ medesimi mezzi, inferendolo da manifestissimi assurdi ch’in conseguenza ne seguirebbero contro al senso medesimo”.

Ma il celebre esperimento con i “gravi”, che tanto la tradizione quanto il biografo vorrebbero compiuto dalla Torre di Pisa, quasi concordemente è ritenuto una mera leggenda, e se anche fosse stato realizzato avrebbe apparentemente confutato la tesi galileiana poiché, come già annotava coscientemente lo stesso Galileo, “solo uno spazio del tutto voto d’aria e di ogni altro corpo” potrebbe dimostrare la veridicità di quanto affermava, ma all’epoca non esistevano né spazi né pompe capaci di sottrarre la resistenza dell’aria. Sebbene tale esperimento a quel tempo non fosse realizzabile, lo scienziato poté indagare il fenomeno con differenti approcci utilizzando la logica e anche in maniera empirica.

Galileo, che sosteneva che pesi diversi cadono alla stessa velocità, condusse una felice elucubrazione che metteva in crisi la formulazione aristotelica, poiché in quest’ultima vi erano insite delle contraddizioni evidenziate dallo scienziato pisano. Assumendo che la teoria di Aristotele sia vera, cioè che un corpo leggere cada più lentamente di uno più pesante, nel caso in cui venissero legati insieme, essi dovrebbero cadere alla velocità media che intercorre tra i due, poiché l’oggetto pesante risulterebbe rallentato da quello leggero. Ma allo stesso tempo, assommando i due corpi, se ne ricaverebbe un terzo ancora più pesante e quindi il suo movimento in caduta dovrebbe risultarne accelerato. Questo paradosso, con un’evidente contraddizione tra i tempi di caduta, porta a considerare l’assunzione aristotelica impossibile e pertanto errata.

Luigi Catani, Alla presenza del Granduca, Galileo effettua l'esperimento della caduta dei gravi dalla Torre di Pisa (1816; tempera su muro; Firenze, Palazzo Pitti, Quartiere Borbonico o Nuovo Palatino, sala 15)
Luigi Catani, Alla presenza del Granduca, Galileo effettua l’esperimento della caduta dei gravi dalla Torre di Pisa (1816; tempera su muro; Firenze, Palazzo Pitti, Quartiere Borbonico o Nuovo Palatino, sala 15)
La Cattedrale e la Torre di Pisa. Foto: Federico Di Dio
La Cattedrale e la Torre di Pisa. Foto: Federico Di Dio

Galileo avrebbe poi rimarcato il concetto in un esperimento che lui stesso affermava di aver svolto, confrontando la caduta di una palla d’artiglieria e un proiettile di moschetto. E che per semplicità riassumiamo usando unità di misura diverse da quelle proposte da Galileo. Si immagini che la palla d’artiglieria sia dieci volte più pesante del proiettile; gettati contemporaneamente da una stessa altezza di 100 metri, secondo la formula aristotelica, la più pesante dovrebbe toccare terra quando la pallottola avrebbe percorso solamente dieci metri. Galileo evidenziò invece come la distanza di arrivo al suolo tra i due fosse minima.

Se per Galileo fu impossibile ai suoi tempi svolgere correttamente l’esperimento dei “gravi”, diversi secoli dopo, nel 1971, l’astronauta Dave Scott lo reiterò in una forma di grande impatto scenografico: durante la missione compiuta dall’Apollo 15, calcando la superficie lunare, lasciò cade contemporaneamente un martello e una piuma, che colpirono allo stesso momento il suolo, a causa dell’assenza di atmosfera, dimostrando che lo scienziato pisano non si era affatto sbagliato.


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Jacopo Suggi

L'autore di questo articolo: Jacopo Suggi

Nato a Livorno nel 1989, dopo gli studi in storia dell'arte prima a Pisa e poi a Bologna ho avuto svariate esperienze in musei e mostre, dall'arte contemporanea, alle grandi tele di Fattori, passando per le stampe giapponesi e toccando fossili e minerali, cercando sempre la maniera migliore di comunicare il nostro straordinario patrimonio.



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