È davvero una scoperta eccezionale quella annunciata dalla Galleria Caretto & Occhinegro di Torino: gli antiquarî Massimiliano Caretto e Francesco Occhinegro hanno infatti reso pubblico il ritrovamento del Concerto di Antiveduto Gramatica (Roma o Siena, 1571 - Roma, 1626), la parte mancante del celeberrimo Suonatore di tiorba, opera simbolo della Galleria Sabauda di Torino, pezzo di qualità a tal segno elevata da esser stato un tempo attribuito a Caravaggio. L’aspetto originale dell’opera, una Allegoria della Musica, era noto soltanto attraverso le copie e le testimonianze storiche: la parte mancante, con la suonatrice di claviorgano e il suonatore di flauto, era ritenuta perduta. Si trattava, in origine, d’una scena a tre figure, di ricercata armonia compositiva, tagliata nel corso della storia probabilmente (anche se si tratta solo di un’ipotesi) per ricavarne due pezzi e ottenere così un profitto maggiore sul mercato.
La composizione era nota da una copia antica pubblicata per la prima volta nel 1922: il dipinto “intero” si sviluppava in orizzontale e presentava tre personaggi: il suonatore di flauto, la cantante impegnata ad accompagnarsi al claviorgano, e il suonatore di tiorba. Fino a oggi conoscevamo soltanto il Suonatore di tiorba conservato alla Galleria Sabauda. Per gli studî sul Gramatica, ma più ampiamente per gli studî sullo sviluppo della rivoluzione caravaggesca, il ritrovamento è di rilevanza veramente significativa.
Caravaggesco della prima ora, Gramatica, nel 1591, a soli vent’anni, aveva già avviato una propria bottega dove, prima del 1593, avrebbe lavorato per qualche tempo anche un giovane Caravaggio, coetaneo del collega d’origini senesi. Nella sua produzione sono piuttosto frequenti i soggetti “musicali”, come suonatori e concerti, che derivano dalla vicinanza a Caravaggio e alla sua cerchia: il caravaggismo di Gramatica viene tuttavia stemperato da una ricerca formale che vedeva i suoi presupposti nella grande pittura del Cinquecento (Raffaello sarebbe rimasto un modello imprescindibile) e che, in seguito, avrebbe avvicinato l’artista a un classicismo vicino a quello dei bolognesi, su tutti Guido Reni e il Domenichino. All’epoca della probabile realizzazione dell’Allegoria della Musica, Gramatica nutriva interessi che volgevano verso una precisa direzione: l’artista si trovava, ha scritto lo storico dell’arte Gianni Papi, autore della prima monografia sul pittore e suo massimo specialista, “al centro di un giro culturale (e anche di potere artistico) che dovette coinvolgere - in diversa misura e più o meno temporanamente - artisti di grande peso, come Borgianni, Vouet e Serodine, e altri meno dotati e più ripiegati sulla fase classicista del maestro (fino a mimetizzarsi con essa)”. Inevitabile dunque “l’adesione [...] al movimento caravaggesco da parte del Gramatica”, che si ravvisa soprattutto nei brani di natura morta, negli anni appena precedenti il 1610. Il Concerto figura tra i prodotti tipici di questo periodo dell’attività di Gramatica, e il Suonatore di tiorba, la parte destra del dipinto un tempo intero, era assurto quasi a icona della sua produzione, ed è probabilmente la sua opera più famosa. E proprio Gianni Papi in occasione del ritrovamento ha redatto uno studio accurato e specifico (Antiveduto Grammatica, a rediscovered Concert Scene) che accompagna l’opera. Un’opera che, adesso, si rivela in tutta la sua eccezionale qualità. Le due figure, il suonatore di flauto e la cantante, emergono da un fondo cupo, descritte con delicata verisimiglianza, al pari del loro compagno separato. Eccezionali i brani di chiaroscuro che donano volume alle figure: si ammirino, in particolare, le mani del suonatore. Mirabile il modo in cui Gramatica descrive le stoffe e i tessuti sontuosi, e le gemme che decorano il corpetto della cantante. Finalmente possiamo tornare ad apprezzare anche l’altra metà del capolavoro di Gramatica.
Conosciamo la storia recente del Suonatore di tiorba, arrivato alla sede attuale con la donazione Falletti di Barolo, che comprendeva anche l’altro quadro di Gramatica oggi conservato alla Sabauda (la Santa Prassede e santa Pudenziana). L’opera, come rammentato in apertura, è stata a lungo riferita a Caravaggio (da studiosi come Jacob Burckhardt, Emil Jacobsen, Alessandro Baudi di Vesme, nei cataloghi del museo torinese del 1899 e del 1909, poi ancora da Wolfgang Kallab e da Lionello Venturi, per arrivare alla mostra di Firenze del 1922 ancora assegnata a Michelangelo Merisi), fino all’intervento di Roberto Longhi del 1928, che la ascriveva con sicurezza ad Antiveduto, riconoscendo nella tela torinese un frammento di una composizione musicale a tre figure, di cui nel 1922 era riemersa una copia nella vendita Michelsen presso Bangel a Francoforte (cat. n° 1030, 2 aprile 1922, lotto 127, attribuita a Simone Cantarini). La copia, la cui attuale ubicazione rimane ignota, è stata pubblicata nel 1971 da Richard E. Spear, e proprio in quell’occasione Spear, su suggerimento di William Chandler Kirwin, avrebbe stabilito il collegamento fra la composizione di cui il Suonatore era un frammento e un dipinto appartenuto al cardinal Del Monte, registrato nell’inventario redatto dopo la sua morte nel febbraio del 1627. Nell’inventario viene infatti elencato “Un Quadro con una Musica di mano dell’Antiveduto con Cornice negra longo Palmi sei alto palmi cinque”. Spear sottolineava la corrispondenza pressoché esatta fra l’altezza del quadro torinese e quella dell’opera citata nell’inventario Del Monte, e fra entrambe le dimensioni della copia Bangel (di 120 x 141 centimetri) rispetto a quelle della “Musica” citata. Il palmo romano misurava circa 23 centimetri, quindi la tela Del Monte aveva dimensioni intorno a 115 x 138 centimetri, e la tela della Sabauda misura 119 centimetri in altezza e 85 in larghezza, facendo desumere che la tela Bangel abbia dimensioni pressoché identiche al quadro a cui apparteneva il Suonatore di Torino.
La differenza minima rispetto alle misure della “Musica” dell’Inventario Del Monte convinse fin da subito Spear sulla corrispondenza con l’immagine tramandata dalla copia Michelsen e in seguito non è mai stata sollevata alcuna obiezione. Non solo le misure supportano l’identificazione: sebbene possa apparire un poco vago, il termine “Musica” viene utilizzato in altre occasioni nell’Inventario Del Monte, per connotare scene in cui i protagonisti suonano o cantano. Lo stesso termine, nello stesso inventario, viene usato anche per la “Musica di mano di Michelangelo da Caravaggio con cornice negra di palmi cinque in circa”, ovvero per il Concerto del Merisi (noto anche come I musici), oggi conservato al Metropolitan Museum di New York. Infine, la descrizione d’un dipinto di Antiveduto registrato nell’Inventario dei beni passati al vescovo Alessandro Del Monte (erede del fratello di Francesco Maria, Uguccione), redatto in data 23 agosto 1628, sembrerebbe ulteriormente confermare la corrispondenza con l’immagine tramandata dalla copia Bangel e, oggi, dalle due parti in originale (gli strumenti descritti sono gli stessi e i personaggi sono tre).
Dopo, le notizie s’arrestano. Sappiamo molto poco di ciò che accadde alla “Musica” di Gramatica dopo il 1627. Il Concerto ritrovato in Grecia, come detto, era dato per disperso, mentre le prime notizie sul Suonatore di tiorba da solo risalgono alla prima metà del XIX secolo, quando il dipinto apparteneva, assieme a Santa Prassede e santa Pudenziana, alla raccolta del marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo. Dopo la scomparsa di quest’ultimo nel 1838, la vedova, nel 1864, lasciò in eredità i due dipinti alla Regia Pinacoteca di Torino (l’attuale Galleria Sabauda), ma il Suonatore doveva già essere in prestito presso il museo perché Jacob Burckhardt lo descriveva nel 1855. Gli studiosi non hanno ancora rintracciato, neppure in occasione del ritrovamento del Concerto, precedenti provenienze della tela: pertanto, rimane un periodo di silenzio intorno all’opera che va dal 1627 all’inizio del XIX secolo. Difficile anche stabilire quando la “Musica” sia stata tagliata e le due parti divise.
Di recente, l’Allegoria della musica Del Monte è stata al centro d’uno studio del 2015 di Piera Tordella, che ha proposto d’identificare nei due protagonisti della scena, il suonatore di tiorba e la cantante che s’accompagna al claviorgano, due famosi personaggi del tempo: il compositore e musicista Cesare Marotta e sua moglie, la cantante Ippolita Recupito, una delle più celebri nell’Italia di quegli anni. Alle stesse conclusioni era giunto già, nel 1997, il musicologo John Walter Hill. Se l’identificazione con Ippolita Recupito può essere avvalorata dalla somiglianza col suo ritratto eseguito da Ottavio Leoni, lo stesso non può dirsi per il marito, tant’è che c’è stato chi, come Domenico Antonio D’Alessandro, ha proposto d’identificarlo con il liutista Vincenzo Pinti. Marotta e Recupito erano alle dipendenze di Alessandro Damasceni Peretti (il cardinal Montalto), almeno dal 1603, e ricevevano regolarmente uno stipendio mensile di 25 scudi. L’amicizia documentata del cardinal Del Monte col Montalto e la loro
Quanto alla cronologia, Papi, ancorandosi proprio alle speculazioni sulla cultura musicale, propone una datazione al 1608-1610, in stretta connessione con la diffusione del canto monodico. Una datazione così precoce ribadisce il rilievo che il dipinto assume anche come documento storico, dacché si tratta d’una testimonianza preziosa della diffusione e del successo del canto monodico a Roma, al punto che il cardinal Del Monte dichiara audacemente (rispetto alla tradizione musicale precedente) di esserne da subito sostenitore, proprio commissionando ad Antiveduto questo dipinto. Con opere come queste, Gramatica fa parte di quella ancora esigua pattuglia di artisti reattivi alla rivoluzione di Caravaggio, che ne ripropongono temi e cifra stilistica: in particolare lo si può accostare a quella schiera d’artisti, tra i quali s’annoverano Giovanni Baglione, Orazio Gentileschi, Paolo Guidotti (per limitarsi ad alcuni di quelli che ci sono sicuramente documentati), che cambiano radicalmente strada provenendo da una precedente e onorevole carriera nell’ambito della pittura tardomanierista dei grandi cantieri pontifici di fine Cinquecento, e virano verso le novità introdotte dal lombardo, conservando ognuno la propria personalità.
Il dipinto proposto da Caretto e Occhinegro è stato ritrovato in una collezione greca dal dealer londinese Derek Johns, che ha sottoposto la tela ad un lungo esame, al termine del quale Gianni Papi ha redatto lo studio sopra citato, che spiega in dettaglio la genesi dell’opera, la questione attributiva e la condizione tecnica. L’opera, infatti, al di là dell’eccezionale ed evidente livello qualitativo, dello stile e della chiara connessione con le altre opere del maestro tosco-romano, rivela alcune inconfutabili prove tecniche e documentarie. Nel suo studio, Papi, che non tralascia alcun aspetto, ripercorre e contestualizza le prove documentarie, tecniche e storiche: tra gli elementi più degni di nota figurano la scritta “Dadiva de Torlonia” sul retro della tela, e il marchio collezionistico “T.94” (si tratta dell’attestazione che in passato l’opera passò nelle collezioni dei Torlonia, che marcavano con sigle simili i loro pezzi, stando anche a quanto conferma la studiosa Rossella Vodret, sentita da Caretto e Occhinegro), oltre alle misure che corrispondono a quelle d’inventario, senza contare ovviamente lo scarto di qualità tra l’opera e le copie successive.
Secondo Caretto e Occhinegro, i risultati più sensazionali sono tuttavia quelli ch’emergono dagli esami diagnostici: la tela, infatti, risulta tagliata e modificata per creare una composizione autonoma in modo da nascondere le parti che collegano direttamente l’opera al Suonatore di Tiorba di Torino. Le radiografie hanno dimostrato in modo molto chiaro il rimpiego della tela originale per allargare la composizione sul lato ed ottenere, così, un dipinto autonomo. Con tutta probabilità il dipinto è stato resecato già in tempi antichi, forse tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento. Come anticipato, l’opera forse fu tagliata per ragioni commerciali: il dipinto fu infatti venduto all’estero, dove si trovava già da secoli al momento della riscoperta. Il recupero della seconda parte, che si trova in uno stato di conservazione sensazionale, lascia escludere la possibilità che la separazione delle due parti fosse dovuta a un incidente di cui era stata vittima la sezione sinistra della tela. Non sappiamo a quando risale il taglio: l’ipotesi che lascia immaginare un’operazione molto antica è comunque avvalorata dal fatto che si conoscono diverse copie secentesche del Suonatore di tiorba che corrispondono fedelmente all’originale di Torino, prova che la composizione Del Monte fu divisa forse non molto tempo dopo la dispersione della collezione del cardinale.
Per ottenere la forma rettangolare che il quadro mostra attualmente, la tela è stata tagliata per un’altezza di circa dodici centimetri, strappando una striscia che comprendeva la parte inferiore del clavicembalo e l’angolo acuto del tavolo, fino al tamburello che invece è rimasto nella tela della Galleria Sabauda. Questa striscia è stata sagomata e cucita lungo il margine tagliato della cantante (ovvero lungo la testa e la manica del vestito): il suo lato inferiore corrisponde dunque all’attuale lato destro della tela come la vediamo oggi. Su quella parte applicata è stato ridipinto in basso a destra un libretto di musica, ispirandosi in qualche modo a quello che sta davanti alla tiorba del Suonatore della Sabauda.
Il dipinto è stato analizzato anche da Anna Maria Bava, direttrice delle collezioni della Galleria Sabauda, che ha condotto alcune indagini sul dipinto conservato a Torino, confermando quanto già emerso dalla tela proposta da Caretto & Occhinegro: l’estensione del taglio, la sua tipologia e i risultati visibili dalla radiografia coincidono “in modo entusiasmante”, dicono i due antiquarî. Anche questa parte dell’opera fu sottoposta ad una cucitura utilizzando una tela coeva per colmare lo spazio mancante: una coincidenza a livello di “incidente probatorio” che ricostruisce senza dubbî la dinamica dei fatti. Dopo la pulitura e il restauro (poco invasivo, considerato il sorprendente stato di conservazione della superficie), è emerso il sontuoso cromatismo, che si esalta soprattutto nel prezioso vestito della cantante, ornato di perle e gioielli. Caratteristica di Antiveduto Gramatica è anche la cura nel rendere le acconciature femminili, con i capelli abbondanti e morbidi, sistemati in modo molto elaborato, tanto che lo storiografo Giulio Mancini non poteva far a meno di notare come a volte il pittore evidenziasse fin troppo questo aspetto fisico (“eccede nel far i capelli”, scriveva Mancini nelle sue Considerazioni sulla pittura del 1617, redatte dunque quando Antiveduto era ancora in vita). Di particolare pregio è anche la precisa resa dello strumento suonato dalla cantante, un claviorgano.
Il Concerto si pone adesso come candidato a entrare nella collezione della Galleria Sabauda: l’augurio è che lo Stato possa acquistare l’opera appena ritrovata per consentire ai due suonatori del Concerto di ritrovare il loro compagno nelle sale del museo torinese. Sarebbe uno degli acquisti più importanti degli ultimi anni. “È chiaro che un ritrovamento del genere ha qualcosa di sensazionale e non crediamo di esagerare nel dire che, per la Galleria Sabauda, questa sia la scoperta del secolo”, dichiarano Massimiliano Caretto e Francesco Occhinegro.
“Pur essendo specialisti di scuole nordiche, un dipinto così, con una storia così affascinante, non ci ha lasciato indifferenti e, da torinesi, ci siamo subito mobilitati per attirare la massima attenzione possibile del museo cittadino”, aggiungono i due giovani antiquari torinesi. “Ci piacerebbe (come a tutti, crediamo). che l’opera entrasse a far parte della collezione sabauda, potendo far mostra di sé accanto al suonatore. Certo, si tratta di una situazione molto particolare, in quanto l’opera non è in Italia già da secoli, ma questo è uno di quei casi in cui un acquisto da parte dello Stato sarebbe più che auspicabile. Del resto, abbiamo contattato le istituzioni già lo scorso anno, pur sapendo che i fondi a disposizione sovente sono molto scarsi. Vogliamo comunque sensibilizzare l’opinione pubblica in merito, sperando magari nell’intervento di una o più istituzioni in aiuto del Museo: sarebbe una conclusione della vicenda edificante per tutti”.
L’opera verrà esposta per la prima volta al pubblico durante la fiera TEFAF di Maastricht, che si terrà dal 24 al 30 giugno nella città olandese: nello stand di Caretto & Occhinegro sarà possibile osservare da vicino e dal vivo il prezioso ritrovamento.
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Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).